Il fallimento del cicloattivismo

Garden spider and spider web (ca.1893–1927) print in high resolution by Gerrit Willem Dijsselhof.
Original from the Rijksmuseum. Digitally enhanced by rawpixel.

Ho speso la maggior parte della mia esistenza a ‘far cose’ collegate alla bicicletta: pedalando in solitaria o con amici, ideando tracciati, guidando ciclo-escursioni, partecipando al mondo dell’associazionismo come semplice attivista e/o presidente di associazione, come membro del Consiglio Nazionale della FIAB, partecipando alla Critical Mass romana e, per quanto molto occasionalmente, alla vita delle Ciclofficine, immaginando ciclovie urbane (il GSA – Grande Sentiero Anulare), avviando esperienze di cicloescursionismo estemporanee attraverso il forum Cicloappuntamenti, facendo crescere il movimento #Salvaiciclisti, tenendo corsi, scrivendo libri, infine trasferendo le mie competenze in un’azione amministrativa, purtroppo di breve respiro, e ultimamente da semplice blogger.

Dei sessant’anni, che compirò a breve, le attività suddette ne hanno interessati oltre trentacinque. Assieme a me decine di altre persone, ognuno/a a dare il proprio contributo generosamente ed in maniera disinteressata. I risultati conseguiti, in termini di realizzazioni ciclabili e trasformazione degli stili di vita, restano tuttavia molto, ma molto al di sotto delle aspettative: scarsi, raffazzonati, insoddisfacenti. Cosa ho sbagliato, cosa abbiamo sbagliato, nel corso di tutti questi anni? Direi tanto. Principalmente a causa del fraintendimento di aspetti chiave, imputabile all’ingenuità con cui è stata affrontata la questione.

Il parallelo che mi pare ora più calzante è quello della mosca intrappolata nella tela di un ragno. La mosca ci finisce dentro volando, perché non è in grado di vederla per tempo, quindi ci rimane invischiata a causa della natura appiccicosa della tela stessa. Dimenandosi allerta il ragno, che prontamente arriva, finisce di imbozzolarla e la utilizza come pasto. Fine della mosca.

In questa metafora le mosche sono, evidentemente, i cicloattivisti e gli attivisti ambientali più in generale. La cosa più interessante di questo parallelo è la ragnatela in cui gli attivisti finiscono intrappolati, che non ha una controparte concreta e risulta invisibile proprio in quanto immateriale. Comincerò però col parlare del ragno, che invece è un’entità concreta, intenta a cibarsi di una varietà di insetti, ovvero di esistenze… di persone reali… di noi.

Il ragno è l’incarnazione del sistema consumista all’interno del quale le nostre esistenze sono forzate a svolgersi. Esso esiste da molto prima della nostra nascita e, con molta probabilità, continuerà ad esistere dopo la nostra morte. Il ragno si nutre del lavoro della popolazione, da cui trae forza e nutrimento. Per obbligare la popolazione a provvedere alle proprie necessità, il ragno tesse una tela fatta di idee e convinzioni. Una tela immateriale, tenuta in essere grazie al controllo dei mezzi di comunicazione.

Noi tutti nasciamo avvolti in questa tela, fatta in parte di realtà oggettive, tangibili, e in parte di menzogne. La porzione attinente le realtà oggettive è chiaramente visibile, quella relativa alle menzogne risulta nascosta. Finché ci si comporta come l’organizzazione sociale si aspetta da noi, riusciamo a non incappare nella sua parte nascosta. Quando usciamo dai binari, quando proviamo a trasformare la realtà, è la rete di menzogne che consente di renderci innocui.

La parte più consistente della popolazione non ha problemi a stare nei ranghi, accetta di vivere nella porzione visibile della rete, quella legata alla realtà percepita, di svolgere la propria attività produttiva e venirne remunerata quel tanto che basta a mantenere un livello di soddisfazione generale funzionale alla sopravvivenza del ragno e della sua rete. Gli individui cui la rete ‘va stretta’, quelli che provano ad apportarvi delle modifiche, vanno incontro ad un destino diverso.

La trappola funziona in quanto invisibile, essendo costruita all’interno delle convinzioni stesse che ognuno di noi coltiva sulla natura della realtà. È solo quando mettiamo alla prova queste convinzioni che realizziamo la loro inconsistenza. E tuttavia, anche di fronte all’evidenza, la realtà che ci si para di fronte appare a tal punto incoerente, irragionevole, a tratti insostenibile, faticosa da inquadrare nel modello di relazioni sul quale basiamo le nostre azioni, da farci rifuggire dall’accettarla.

Ci viene insegnato che il sistema funziona sulla base di determinate dinamiche di causa-effetto, in un quadro coerente che non accetta inceppamenti. Quando incappiamo nei processi di inganno, semplicemente non disponiamo degli strumenti culturali in grado di comprenderne la funzione, perché siamo convinti che il loro esistere rappresenti un difetto sistemico ingestibile. La realtà è che il sistema integra i meccanismi di inganno a tal punto da farne le proprie fondamenta, mentre tutto quello che ci viene raccontato, inclusi i meccanismi di causa-effetto che ci vengono insegnati fin dall’infanzia, è unicamente funzionale alla manipolazione collettiva.

Siamo stati convinti che la politica fosse guidata da processi democratici, con la popolazione che elegge i propri rappresentanti e questi poi operano per il benessere collettivo. La verità è molto più complessa e rimane nascosta ai più, che dal canto loro risultano poco propensi a porsi domande. La realtà è che le sedicenti istituzioni democratiche sono l’esito finale di un processo di metamorfosi dei sistemi di potere, che le hanno adattate ed adottate a proprio vantaggio nel momento in cui le forme di governo autocratiche (dittature) si sono rivelate disfunzionali. Ma si è trattato di un cambiamento di facciata, funzionale alle necessità di chi gestisce il potere reale, il potere economico.

Siamo stati convinti che la stampa e i giornali raccogliessero le notizie per informarci, generando un ritorno economico dallo svolgere onestamente questo lavoro. La realtà è che i giornali guadagnano molto di più da chi ha interesse a fornirci solo una parte delle notizie, confezionate in modo da orientare il nostro modo di pensare in maniere a loro favorevoli e, soprattutto, redditizie. Questo ha fatto sì che le sacrosante rivendicazioni relative alla sicurezza stradale, alla salute pubblica, alla vivibilità dei centri abitati, rimanessero marginali nel dibattito collettivo.

Siamo stati convinti che la rete ed i social-network potessero rappresentare un potente strumento di comunicazione e di democrazia diretta, quando si sono rivelate soltanto un potentissimo mezzo di profilazione individuale, utilizzato per marginalizzare il più possibile ogni forma di dissenso, oltreché l’ennesima ‘arma di distrazione di massa’, funzionale al controllo sociale.

Siamo stati convinti, o ci siamo auto-convinti, che le istanze maturate ‘dal basso’ potessero essere veicolate ai rappresentanti politici e trasformate in realizzazioni concrete. Lo abbiamo visto accadere altrove ed abbiamo pensato che fosse possibile anche qui. Non era vero. L’organizzazione politica stessa funziona da filtro per impedire che le istanze prodotte ‘dal basso’ possano disturbare i padroni del vapore.

Ci siamo convinti che fosse possibile ‘diffondere il verbo’ della ciclabilità, portandolo all’attenzione di una popolazione accorta ed attenta, in attesa unicamente di un vento di novità, di un cambiamento in meglio. Era un’idea sbagliata. La popolazione ‘accorta ed attenta’ si è rivelata solo una fantasia autoconsolatoria, i mezzi di comunicazione a nostra disposizione si sono dimostrati ininfluenti. Ce la siamo suonata e cantata fra noi, mentre il mondo all’esterno restava sordo e distratto.

Vista a posteriori ha fatto bene chi si è ‘perso per strada’, chi ha gettato la spugna, chi si è trovato altro da fare. Il sistema si è rivelato monolitico ed inscalfibile, pronto solo a buttarci qualche briciola per mantenere in noi l’illusione di stare ottenendo il cambiamento di rotta tanto auspicato, mentre quelle stesse briciole (corsie ciclabili, rastrelliere, servizi) venivano poi regolarmente riassorbite dal degrado, a causa dell’assenza di investimenti, di manutenzione, di interesse, in molti casi perfino di una ragion d’essere.

Vista a posteriori non poteva andare diversamente. Stupido io a crederlo. La trappola in cui sono caduto era stata collocata dentro di me fin dal principio, non sono stato capace di vederla in tempo. A ciò aggiungo un senso di colpa ulteriore, per avere convinto altri della possibilità di un mondo migliore, di una realtà diversa. Ora è semplicemente troppo tardi per dare un corso diverso alle mie azioni, al mio percorso di vita. La mosca è in trappola e il ragno ha vinto. Fine dei giochi.

C’era una volta il GSA

Il GSA, o Grande Sentiero Anulare, è un’idea che ha trovato piena formalizzazione poco meno di vent’anni fa, nel 2006. [1] L’idea consisteva nell’effettuare un giro in bicicletta, ad anello, circumnavigando il centro storico della città di Roma sfruttando i parchi urbani e tratti di piste ciclabili di raccordo. Si partiva dalla Piramide Cestia entrando nel comprensorio del Parco dell’Appia Antica (Caffarella, Tor Fiscale, Acquedotti), ci si riallacciava alla Riserva dell’Aniene per mezzo della ciclabile di viale Palmiro Togliatti (interrotta ancora oggi) e di qualche raccordo ‘avventuroso’, quindi si seguiva il corridoio fluviale dell’Aniene fino alla Nomentana, proseguendo su pista ciclabile fino a Villa Ada, poi Villa Borghese, per rientrare a Piramide pedalando sulla banchina del fiume Tevere. L’intero anello si sviluppava per circa 50 km, che ad un’andatura tranquilla impegnavano l’intera giornata.

Dopo averlo proposto a più riprese, in diverse salse e con diversi gruppi di appassionati, per quasi un decennio, fui colto dall’insana idea di ‘farne dono’ alla cittadinanza in maniera formale, presentandolo al Comune di Roma come un progetto organico. L’idea iniziale era di risolvere pochi punti di discontinuità, come l’assenza di attraversamenti pedonali in un paio di intersezioni critiche (Appia Nuova e Nomentana) ed una rampa di discesa su scale (Salaria), in più aggiungere una cartellonistica minimale di segnalazione del tracciato, per evitare che i fruitori si perdessero nel percorrerlo.

Purtroppo la partnership individuata per raggiungere l’attenzione delle istituzioni decise bene di prendere il controllo del progetto e modificarlo, un pezzo alla volta, finendo con lo stravolgerlo completamente. Quella che era nata come soluzione al problema di attraversare la città ‘in punta di piedi’, rispettando le diverse presenze consolidate, divenne ben presto una sorta di ‘autostrada ciclabile’, con un’ampiezza di sede incompatibile con molti dei passaggi fortunosi individuati al momento della tracciatura.

Sui motivi di questa trasformazione non mi dilungherò, come pure sulla correttezza o meno delle scelte operate di concerto con gli enti amministrativi. Si potrebbe argomentare che la prospettiva di uno sviluppo turistico del progetto richiedesse una messa in sicurezza del percorso, che non poteva prescindere dall’ampliamento della sede di percorrenza. Fatto sta che questa nuova ‘invasività’ del tracciato non ha mancato di sollevare reazioni avverse, soprattutto da parte di associazioni ed enti preposti alla tutela e salvaguardia delle aree verdi. Prima si sono mossi i comitati di Villa Ada, poi a seguire altre realtà, al punto che ora il tracciato non entra più nemmeno nella valle della Caffarella, ma si limita a percorrere la via Appia Antica, assieme a parte del traffico veicolare, in un tratto costeggiato da due muraglioni che escludono dalla vista ogni tipo di attrazione paesaggistico/culturale.

Se a questo si aggiunge la decisione di non impegnare la banchina del Tevere, dove è già presente una pista ciclabile molto utilizzata, scegliendo di entrare dentro quartieri già affollati e trafficati (Flaminio, Prati) si completa lo stravolgimento dell’idea iniziale, che era quella di usare i parchi urbani per muoversi attraverso la città. L’intera metamorfosi ha richiesto quasi un decennio, ed il risultato finale è che la sovrapposizione tra l’originale GSA e l’attuale GRAB si è ridotta, calcolando a spanne, a meno della metà del tracciato. Quel che si è perso, nella trasformazione, attiene principalmente alla varietà e diversità dell’esperienza proposta, che era la vera chiave d’interesse, a mio parere, dell’idea originaria.

Questo è ciò che avviene quando un’istanza prodotta dal basso, da soggetti che hanno ben chiara un’idea di fruizione del territorio, finisce in mano a politici e burocrati privi della capacità di comprendere ciò che stanno maneggiando. Si parte da un’idea complessa ed articolata partendo a smantellare, pazientemente ma inesorabilmente, tutto quello che non si è in grado di comprendere, mancando delle necessarie categorie mentali, fino a ritrovarsi in mano un prodotto finale che conserva dell’originale la sola apparenza, avendo perso per strada il cuore e l’anima.

Nei lunghi anni trascorsi dalla data della prima presentazione ho avuto modo di arrabbiarmi parecchio, nel vedere come la mia creatura veniva fatta a pezzi e peggiorata. Ma il processo è andato avanti così tanto che l’attuale GRAB effettivamente non rispecchia più per nulla l’idea originaria. Non la rispecchia più al punto che potrò serenamente ignorarlo, e continuare a fruire, da solo o con piccoli gruppi di amici, quello che era il percorso originario, o una delle sue numerose versioni alternative. Perché, questo è il punto, l’attuale GRAB non ha finito col danneggiare le realtà naturali a cui tenevo: ne è stato espulso, ottenendo di non stravolgerle. Se questo significherà anche un crollo dell’appetibilità nel percorrerlo, motivata dall’assenza dei tanti punti di interesse rimasti fuori dal tracciato, è sicuramente presto per dirlo. Il tempo giudicherà.


[1] Il sito del G.S.A. (sostanzialmente abbandonato da parecchio tempo)

L’Uomo-Formica contro il Traffico

Ho iniziato a spostarmi in bicicletta sul finire degli anni ‘80. All’epoca ero uno spensierato ventenne pieno di energie, e l’utilizzo della bici mi consentiva di evadere dal grigiore cittadino e da un’esistenza tutto sommato prevedibile.

La crescita della città, unita all’aumento del numero di veicoli pro-capite, ha finito nel tempo col saturare la rete viaria, soffocandola e rendendola via via sempre più ostile ai mezzi ‘leggeri’, nella totale assenza di volontà, da parte della politica, di arginare il fenomeno o anche solo di realizzare tracciati da poter percorrere in sicurezza.

In assenza di percorsi sicuri mi sono messo a cercarli. Nel corso di tre decadi ho messo insieme una piccola rete di itinerari che mi consentono di raggiungere numerosi quartieri, anche lontani, utilizzando spazi ‘marginali’ della città: parchi, argini fluviali, sentieri, marciapiedi sottoutilizzati ed una manciata di piste ciclabili. Ho imparato, in buona sostanza, a muovermi ‘fuori dai radar’, a ricavarmi spazi alternativi, a spostarmi sfruttando le ‘pieghe’ della città.

Questa strategia ha funzionato per decenni, e continua a funzionare, quello che è cambiato, negli ultimi tempi, è il suo portato emotivo. In passato riuscivo a considerare questa capacità acquisita di muovermi fuori dalla rete veicolare come una sorta di super-potere. Col passare degli anni ho piuttosto finito col viverla come una sconfitta. Un conto è arrabattarsi in attesa di tempi migliori, un altro arrabattarsi tutta la vita senza vedere miglioramenti significativi [1].

Nel percorso che separa la mia abitazione dall’ufficio, distante una dozzina di chilometri, è presente un tratto di strada molto trafficato, che non ho modo di evitare. Pochi giorni fa, mentre lo percorrevo in bici, sfiorato a poca distanza da SUV, furgoni ed autoarticolati, letali ed indifferenti, mi è capitato di pensare: “se non do fondo a tutte le mia abilità, qui mi schiacciano come una formica”.

Nel più classico dei cortocircuiti mentali mi sono visto, in quel momento, nei panni di Ant-Man, il supereroe partorito dalla fantasia di Stan Lee, un personaggio immaginario dotato del potere di rimpicciolirsi fino alle dimensioni di una formica, pur conservando la forza di un normale essere umano [2].

Ant-Man – Art by Dean Kotz

Questa capacità di ridurre le proprie dimensioni consente al personaggio tutta una serie di azioni spettacolari, come ad esempio sparire apparentemente nel nulla, attraversare porte chiuse scivolandoci sotto, o direttamente passando dentro le serrature, o penetrare in luoghi inaccessibili e strettamente sorvegliati.

I paralleli con la mia personale esperienza di utilizzo urbano della bicicletta sono numerosi e diversi. Posso attraversare strade bloccate da ingorghi continuando a muovermi su spazi marginali, senza rimanere bloccato nel traffico. La ridotta dimensione della bici rispetto ai veicoli a motore apre opportunità di spostamento alternative, multimodali, inaccessibili agli utenti motorizzati. Per contro, la bicicletta mi rende piccolo e fragile nei confronti della massa di veicoli circolanti sulle strade, corazzati ed inscalfibili, che sciamano aggressivi a reclamare l’intera rete viaria.

Siamo piccoli eroi, noi ciclisti. Rifuggiamo comportamenti omologati e distruttivi, nei confronti degli altri e del pianeta che ci ospita, pagandone le conseguenze sulla nostra pelle e nello spirito. Il solo sfidare le norme comportamentali imposte dal modello economico dominante mette a rischio le nostre stesse vite.

Muoversi, banalmente, da un luogo all’altro della città, espone al rischio di finire stritolati sotto le ruote di un furgone, come è successo nel 2017 ad un campione famoso, Michele Scarponi [3]. O di un autoarticolato, come accaduto nei mesi scorsi ad un ex-professionista, Davide Rebellin [4]. O di una betoniera, come Cristina Scozia, trentanovenne madre di una bimba di sei anni, travolta e uccisa in pieno centro di Milano nelle scorse settimane [5].

Quando queste tragedie accadono l’opinione pubblica se ne dimentica in fretta, attuando meccanismi di rimozione facilitati dai mass-media, che ci bombardano di informazioni inutili per meglio distrarci dalla realtà. Ad esserne colpita è in massima parte la comunità dei ciclisti, che si scoprono fragili, esposti all’indifferenza e alla distrazione dei conducenti di veicoli a motore, e trattati dai mezzi di informazione con superficialità e malcelato fastidio.

Quella che immaginavo essere una strategia temporanea, in attesa di soluzioni strutturali, si è tramutata in una modalità di resistenza passiva, che non vede progressi. Gli spazi marginali dove posavo le mie ruote trent’anni fa, tali sono rimasti. L’umanità domesticata [6] si affeziona alle proprie gabbie, fisiche e mentali [7], ed oppone una resistenza passiva ad ogni possibile trasformazione.

E questo è, in fondo, il parallelo finale tra la mia personale esperienza e quella dell’immaginario Uomo-Formica. Un personaggio che, come tutti gli eroi di carta, dopo innumerevoli battaglie e atti di eroismo ottiene unicamente di salvare il mondo preesistente, senza riuscire a migliorarlo di una virgola. Una parabola esistenziale decisamente poco entusiasmante.

Amministratori in sella

L’associazione Salvaiciclisti-Roma ha deciso di organizzare una serie di seminari per i neoeletti amministratori romani, chiedendo a cicloattivisti con esperienze nella P.A. di tenere dei mini-webinar sulle problematiche dell’amministrare la città.

Il primo è toccato a me e lo trovate qui:


Il secondo è stato condotto da Paolo Bellino, con Marirosa Iannelli e Omar Di Felice:


Il terzo approfondisce il tema delle competenze municipali grazie a Valentina Caracciolo, attuale assessore alla mobilità per il II Municipio, con contributi di Sandro Calmanti e Alessandra Grasso.

Il pezzo mancante

Giusto ieri ho deciso di fare un salto all’incontro organizzato dall’associazione #Salvaiciclisti [1] assieme ad altre realtà dell’associazionismo cicloattivista e cicloambientalista [2]. L’intenzione era, molto banalmente, incontrare un po’ di amici (che ormai vedo raramente) e chiacchierare un po’ dei temi che ci appassionano. La mia presenza ha coinciso col momento di auto-presentazione di alcuni candidati alla prossima tornata elettorale, appartenenti a diversi schieramenti, tutti accomunati da un sentire dichiaratamente pro-ciclabilità.

Mentre ascoltavo i diversi interventi e le dichiarazioni d’intenti dei candidati non ho potuto fare a meno di riandare al mio personale percorso di amministratore, durato il breve volgere di un paio d’anni, a cavallo tra 2016 e 2018 [3]. Mi sono tornate alla memoria le molte situazioni in cui i processi di trasformazione erano andati ad infrangersi contro impedimenti burocratici [4] ed all’improvviso ho messo a fuoco l’esistenza di un vuoto.

Di norma, quando si studia una realtà complessa, è già faticoso concentrarsi su quello che già esiste, con le sue articolazioni e problematiche. Dato un sufficiente grado di complessità, risulta estremamente difficile individuare, oltre a quello che c’è, anche quello che manca. Il motivo è molto semplice: si cercano difetti nei singoli processi, quando il difetto è dato semplicemente dall’assenza di una parte essenziale del meccanismo.

Il processo decisionale, in questo caso, vede fronteggiarsi da un lato una volontà politica di trasformazione (quantomeno proclamata, non di rado più sbandierata che reale…), e dall’altro quella che potremmo definire come una ‘non volontà burocratica’, una contro-spinta che tende ad appiattire ogni tentativo politico di trasformazione dell’esistente e ad operare in chiave di conservazione.

La parte politica, da par suo, sconta l’incompetenza (inevitabile) rispetto ad una pletora di tecnicismi legislativi: normative e cavilli che vengono tipicamente agiti da pezzi dell’apparato burocratico per impedire e sovvertire la volontà politica. Questo meccanismo, formalizzato dalla legislazione corrente, mi è a lungo sembrato impossibile da scardinare. Lo strumento necessario a disarticolarlo è proprio il ‘pezzo mancante’ della narrazione. Quel qualcosa di cui, finché non ti accorgi che manca, non puoi nemmeno immaginare l’esistenza.

Anni fa pubblicai un articolo, molto arrabbiato, intitolato ‘Vigliaccheria politica’ [5]. In quel post raccontavo la situazione di Londra, e la maniera in cui la volontà degli amministratori di prendersi cura della salute dei cittadini era stata tradotta in una serie di interventi di ampio respiro proprio nell’ambito della mobilità. Perché, mi domandavo, la politica nostrana non era capace di emulare un simile approccio?

La prima risposta, non del tutto sbagliata, puntava il dito su un’assenza di volontà della politica stessa (la ‘vigliaccheria’ del titolo). Ragionandoci meglio, però, anche data una forte volontà politica, come si sarebbe potuto tradurla in interventi reali? La volontà politica, nel processo amministrativo attuale, viene direttamente trasferita al comparto burocratico, che il più delle volte la restituisce tritata in pezzettini finissimi assieme alla conclusione, a fronte di una realtà cittadina ormai consolidata, che nessun intervento sarebbe realmente utile, finendo col proporre uno spolverìo di aggiustamenti cosmetici ed inefficaci.

Come si smonta questo meccanismo perverso? Inserendo il famoso ‘pezzo mancante’. Se l’apparato burocratico responsabile della realtà attuale non ha le capacità, o la volontà, di immaginare una realtà differente, si assegna il compito ‘immaginativo’, quello di tradurre il mandato politico in un ventaglio di interventi reali ed efficaci, ad un diverso ente. Un ente che incorpori sia una componente immaginativa, sia le competenze tecniche e legali per disegnare una transizione efficace e percorribile.

Di che tipo di ente stiamo parlando? Non saprei esattamente, ma immagino che la parte politica sia in grado di definire un indirizzo facilmente comprensibile ai più (che so, la riduzione dell’incidentalità stradale) e possa procedere a nominare una commissione di esperti di diversa provenienza, anche con esperienze in realtà estere. Tale gruppo di lavoro avrebbe il mandato di elaborare un piano globale, comprensivo dell’analisi dello stato di fatto, dell’individuazione dei principali elementi di criticità e della proposta di soluzioni applicabili in tempi e modi certi.

Uno studio capillare che, una volta completato, venga restituito alla parte politica, la quale dovrà approvarlo (presentandolo agli elettori come documento tecnico elaborato da esperti sulla base delle priorità indicate), e procedere a finanziare gli interventi in esso descritti. Perché interventi straordinari necessitano di percorsi diversi dall’ordinaria amministrazione della città, e non possono essere pretesi, o commissionati, a chi già si occupa della gestione dell’esistente.

Che è poi quello che, a posteriori, immagino sia avvenuto nella redazione del documento ‘Improving the health of Londoners’, pubblicato dalla città di Londra [6] e citato nel post già menzionato. Un lavoro radicale ed immaginativo necessita di risorse, umane e culturali, diverse da quelle responsabili di aver posto in essere l’esistente. “Non possiamo risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato per crearlo”, affermava Albert Einstein. Operare un salto di qualità necessita di strumenti, ed intenti, diversi da quelli che operano a garantire la continuità di quanto esistente.

Sarà in grado, l’amministrazione che emergerà dalle prossime elezioni cittadine, di avviare la trasformazione radicale di una città in declino ormai da decenni, resistendo alle pressioni di interessi fortemente consolidati? O non preferirà piuttosto continuare a scaldare le poltrone, lasciar correre, chiudere occhi ed orecchie, far finta di lavorare ed intascare le prebende? Non chiedetelo a me, preferisco non esprimermi (…o, forse, l’ho già fatto [7]).

[1] – Sito Associazione #Salvaiciclisti-Roma

[2] Una Bicicletta per la Città

[3] – L’inizio di un nuovo viaggio

[4] – Conversazione

[5] – Vigliaccheria politica

[6] – Improving the health of londoners

[7] – Tirando i remi in barca

De-vintage: aggiornare una bici del passato

Da appassionato ciclo-escursionista di lunga data, e con una spiccata tendenza ad affezionarmi agli oggetti ed alle memorie che portano con sé, finisco col ritrovarmi sul groppone biciclette ‘d’annata’, che qualcuno potrebbe addirittura considerare vetuste. Quella di cui scriverò oggi è una bianchi XC-311, fabbricata nella seconda metà degli anni ‘90, ovvero in circolazione da un quarto di secolo.

Passato

La Bianchi ‘gialla’ entra a far parte della mia scuderia fra il ‘97 e il ‘98, già usata e ‘vissuta’, con una interessante (per l’epoca) forcella ammortizzata ad elastomeri al posto dell’originale forcella rigida. È la mia seconda mountain-bike e rimane la bici ‘top’ per un altro paio d’anni o giù di lì, fino all’arrivo della prima biammortizzata [1]. In seguito al declassamento, la Bianchi diventa la mia bici da viaggio [2], di conseguenza portapacchi e cavalletto entrano a farne parte in pianta stabile (il cavalletto è temporaneamente smontato, ma pronto a tornare al suo posto).

La bici subisce, nel corso degli anni, una varietà di rimaneggiamenti. Il primo e più importante riguarda un ulteriore cambio di forcella [3]. Selle diverse vanno e vengono, non di rado prese già usate; gli originali pedali a gabbiette vengono sostituiti prima da una coppia di SPD, quindi dagli universali ‘flat’; il cambio ‘grip-shift’ cede il passo alle levette push-pull, mantenendo le originarie sette velocità; diverse impugnature si avvicendano negli anni. Da ultimo finisco col cambiare anche manubrio e ‘pipetta’ riciclandoli da altre bici, per correggere l’impostazione originaria ed ottenere un miglior controllo su terreni sconnessi.

Negli ultimi anni, trovandomi con un parco bici ridondante, la vecchia Bianchi è finita in prestito ad amici, che l’hanno utilizzata per viaggi e passeggiate. Da pochi mesi l’ho recuperata, con l’intenzione di lasciarla in pianta stabile al paesello nelle Marche [4]. Risalendoci in sella, ho realizzato come l’esperienza con diverse altre biciclette abbia finito col modificare il mio modo di pedalare al punto da richiedere una ulteriore revisione dell’assetto.

Presente

Nel decidere di ristrutturare una bicicletta occorre partire da un’idea abbastanza precisa di come la si utilizzerà, e di cosa sarà possibile aspettarsi. In questo caso, l’effettiva anzianità del veicolo non consentirà le prestazioni cui è abituato un utente della seconda decade del terzo millennio. Nel mio parco bici, tuttavia, restava scoperta una specifica nicchia, quella della bici tuttofare, pronta a servire per esigenze diverse, per l’utilizzo quotidiano casa-ufficio e non da ultimo finalizzata ai lunghi viaggi (attività, ahimè, scarsamente praticata, in tempi recenti…).

Il secondo punto critico riguarda l’ottimizzazione del mezzo, e la scelta delle parti da sostituire. Trovandomi ormai da un po’ perfettamente a mio agio con ‘Blue Raptor’, la bici riemersa dal recupero degli avanzi della mia prima biammortizzata su un vecchio/nuovo telaio [5] e rivelatasi inaspettatamente performante, ho cercato per quanto possibile di riprodurre sulla vecchia Bianchi un assetto analogo. Ciò ha implicato lo scendere a patti con la concezione arcaica della geometria del telaio.

Le bici moderne nascono per ospitare ruote più grandi (27,5” e 29”) forcelle ammortizzate dalla corsa generosa, che da sole producono il sollevamento della piega manubrio e una significativa modifica dell’assetto di guida. Questa trasformazione ha quindi portato allo sviluppo di geometrie ‘sloping’, nelle quali il tubo orizzontale risulta fortemente ribassato per consentire di scendere al volo, ove necessario.

Questa Bianchi del secolo scorso emerge in una fase ancora immatura nella transizione dai telai da corsa a quelli da fuoristrada, nasce per muoversi su strade bianche più che sui sentieri ‘tecnici’ e precede di molto l’avvento delle geometrie sloping. Di conseguenza non consente di montare una forcella dalla corsa superiore ai 60~80mm, pena un’inclinazione ingestibile della forcella stessa, potenzialmente distruttiva per il telaio stesso. Oltre a ciò, il rialzo della serie sterzo per accogliere la corsa di una forcella ammortizzata induce un ulteriore sollevamento del tubo orizzontale, già alto di suo.

Quello che è molto cambiato, dalle MTB anni ‘90 ad oggi, è il tipo di utilizzo. Appena nate, le bici da fuoristrada venivano principalmente usate per ‘correre sugli sterrati’, un adattamento delle discipline sportive stradali alle strade bianche. Le prime modifiche consistettero in ruote più larghe, sistemi frenanti diversi (obbligati dai copertoni maggiorati), manubri dritti e comandi del cambio al manubrio; mentre le geometrie dei telai, almeno all’inizio, non differivano più di tanto da quelle delle bici da strada.

Col tempo il range di utilizzo di queste biciclette si è progressivamente esteso ai sentieri di montagna, caratterizzati da una maggior difficoltà tecnica, e la forma delle biciclette si è adeguata alle nuove esigenze: i manubri sono arretrati più in prossimità dell’asse di sterzo, per ottenere un miglior controllo sui passaggi tecnici, inoltre sono diventati più larghi e sollevati, per meglio gestire la distribuzione dei pesi sulle discese ripide. Nel complesso, l’intero assetto delle bici attuali risulta meno orientato alla velocità nuda e cruda e più alle esigenze di controllo nei passaggi tecnici a bassa velocità.

Ho personalmente percorso questo trend evolutivo nella, purtroppo breve, stagione da freerider, realizzando la differenza essenziale di manovrabilità dei nuovi assetti. L’esperienza con la Santacruz Chameleon [6] mi ha definitivamente portato a preferire manubri larghi ed arretrati (l’esatto contrario di quanto predicavo negli anni ‘90), al punto da spingermi a replicare questo tipo di impostazione anche nella bici poi emersa dalle ceneri della Specialized [5].

Su questa bici, la sostituzione dell’originale forcella rigida con una ammortizzata (al momento anche questa ‘antica’ ed a corsa molto breve), ha comportato un’inevitabile alterazione dell’assetto originario, con diversi effetti. Il manubrio si è sollevato (fattore positivo, perché da tempo non sono più un fautore dell’assetto ‘corsaiolo’); il movimento centrale si è sollevato (fattore neutro: da un lato si rischia meno di sbattere su pietre sporgenti, dall’altro si obbliga la sella ad una posizione più rialzata) ed avanzato (fattore positivo, perché compensabile avanzando il sellino, col risultato di ottenere un telaio leggermente più ‘corto’ dell’originale).

Come risultato complessivo la bici, in origine già di taglia Large, risulta al termine della modifica lievemente più alta e leggermente accorciata in orizzontale. Una dimensione quasi ottimale per la mia altezza di 1,74m, corrispondente ad una taglia M/L (Medio/Large).

Per l’altezza del manubrio ho ritenuto necessario recuperare recuperare centimetri ancora mancanti, procedendo all’acquisto di una piega manubrio larga (700mm) e leggermente rialzata (+50mm), mentre per l’arretramento della stessa ho montato un nuovo attacco di soli 40mm di lunghezza, corredato di spessori per sollevare il tutto fin dove possibile. A questi ritocchi geometrici si sono aggiunti una coppia di copertoni nuovi da cross-country (a tassellatura leggera ma di larghezza abbondante: 2,20”) e la sostituzione delle impugnature, ricavando una bici equilibrata e ben guidabile, non troppo lontana dai miei standard abituali.

Altre limitazioni restano, per caratteristiche immodificabili o semplicemente perché non ritengo valga la pena di intervenire. I freni restano V-brakes (la bici nasceva coi cantilever) perché sul telaio mancano gli attacchi per i freni a disco. Potrei montarne uno singolo anteriormente, ma non mi piace l’idea di un mix. Il cambio posteriore rimane a sette velocità, perlomeno finché non si renderà necessaria, in futuro, la sostituzione delle leve.

Update

(Gennaio 2022)
Nel corso dell’autunno ho montato un nuovo sellino e rimesso mano alla coppia di pedali flat, ripassando le filettature e sostituendo ai perni originali dei nuovi grani filettati. Segni e graffi restano, ma i pedali sono ora, in termini di funzionalità, meglio che da nuovi. Le impugnature in gomma, dopo qualche mese di utilizzo nel percorso casa-ufficio (12+12km, con parecchi tratti di sterrato), sono state sostituite con manopole Ritchey in neoprene. Non ho resistito alla tentazione di rimontarci su un bauletto ‘minimal’ a parallelepipedo, una concessione al gusto vintage ed a mode ormai passate

Recuperata infine la forcella ad aria che equipaggiava la bici di Emanuela (una Marzocchi Bomber dei primi anni ‘2000, smontata in seguito alla crepatura del relativo telaio), ho provveduto alla sostituzione. Oltre ad un modesto miglioramento della performance, anche l’equilibrio cromatico della bici ne ha giovato: il blu della forcella riprende quello delle scritte sul telaio. A breve conto di sostituire anche le leve dei freni, più per un fatto estetico che per necessità funzionali. L’aspetto provvisorio è il seguente.

Conclusioni

Ha senso perder tempo ad aggiornare una vecchia bicicletta? Se le intenzioni sono di usarla, se vi divertite a fare gli interventi in prima persona e se non avrete pretese troppo spinte, la risposta è sì. Non otterrete una bicicletta strepitosa e performante come quelle all’ultimo grido, ma recupererete un attrezzo solido ed affidabile, ancora capace di accompagnarvi in giro per il mondo. Una bici vissuta, che non dovrete preoccuparvi troppo se finisce un po’ maltrattata, se si prende un acquazzone, o se si aggiunge un nuovo graffio ai mille che avrà già.

Importante è essere in grado di stabilire se l’intervento potrà restituirvi una bici comoda, ergonomica, affidabile e godibile. Per quel che mi riguarda sono soddisfatto del risultato. Testata per diversi mesi sul percorso casa-ufficio, un misto asfalto-sterrato di oltre una ventina di chilometri complessivi, la bici si è dimostrata all’altezza delle aspettative. Rispetto alle altre che ho rimane sì un po’ rigida, ma è terribilmente comoda e trasmette una piacevole sensazione di solidità.

E, d’altro canto, quando passi un quarto di secolo a mettere a punto una bicicletta, correggendo e collaudando per mesi ed anni posizioni e geometrie, il minimo che puoi aspettarti è che la bici ti calzi come un guanto. E questa bici ormai è così: ci salgo sopra e me la dimentico, niente è fuori posto, nemmeno di un millimetro. Il processo di reciproco adattamento ha finito col produrre un ibrido uomo-macchina perfettamente affiatato.

Alla fine, dopo tutte queste trasformazioni, la bici si è guadagnata un nuovo nome. Dopo aver rischiato di chiamarsi ‘Accanimento Terapeutico’, la scelta è inevitabilmente caduta su Patchwork!


[1] – Velociraptor

[2] – Girando il Mondo con la mia Bianchina (Facebook gallery)

[3] – Una bionda disibridata

[4] – A Pianello

[5] – Un vintage inatteso

[6] – Orange is the new Black

Tirando i remi in barca

In questo post descriverò la totale assenza di aspettative che nutro nei confronti della prossima tornata di elezioni amministrative. Al fine di consentire ai miei tre lettori di calarsi meglio nel ragionamento, inizierò con un breve racconto di fantasia.

Foto di Steve Buissinne da Pixabay

Un uomo, raggiunta la maturità ed una adeguata stabilità economica, decide di lasciare la città e costruirsi una casa in collina. Acquista un terreno con affaccio panoramico ed inizia a scavare per mettere in posa le fondamenta della sua nuova casa. Scavando, a meno di un metro di profondità trova un terreno instabile, pronto a sfaldarsi ed inadatto alla posa di fondamenta. Allora scava ancora più in profondità, e scopre una discarica di rifiuti tossici. Dopo averla fatta bonificare, a proprie spese, raggiunge finalmente lo strato roccioso sottostante. Le necessarie analisi geologiche evidenziano livelli di radioattività naturale incompatibili con l’idea di stabilirsi in prossimità. L’uomo abbandona il progetto di costruire la propria casa in collina, dopo aver dilapidato mesi di tempo e buona parte dei propri risparmi, e si rassegna a vivere in città”


Ecco, se devo descrivere i miei ultimi decenni da cicloattivista, questo è il paragone più calzante: quello di un uomo che più scava e peggio trova, al punto da finire con l’abbandonare ogni illusione di cambiamento. Una vicenda che si conclude con tutte le risorse iniziali (età, tempo, volontà, passione, entusiasmo) inutilmente dilapidate ed ormai non più recuperabili.

Senza andare troppo indietro nel tempo, poco meno di dieci anni fa, nel lontano 2012, la campagna #salvaiciclisti [1] aveva smosso l’attenzione collettiva. Poco dopo, l’elezione del sindaco Ignazio Marino, un ciclista, aveva acceso le speranze del movimento cicloattivista romano. Furono speranze di breve respiro, dal momento che l’operato di Marino fu definitivamente affossato dal suo stesso partito, palesemente contrario agli intenti riformatori del proprio primo cittadino. Un ‘suicidio politico’ che, possiamo immaginare, fu considerato il necessario prezzo da pagare per la salvaguardia di interessi consolidati.

L’impresentabilità delle destre, conseguente al malgoverno del precedente sindaco Alemanno, e la malaugurata scelta del centrosinistra di far fuori il proprio stesso sindaco, fecero spazio ad una terza forza, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che stravinse le elezioni portando a casa una maggioranza assoluta nel consiglio comunale e tredici amministrazioni municipali su quindici. Un ‘bottino’ destinato a perder pezzi in breve tempo.

Il Movimento appariva ispirato da ideali ambientalisti, e questo ci fece sperare nel tanto atteso ‘cambiamento’. Diversi fra noi cicloattivisti finirono integrati nella macchina amministrativa, come assessori o bike-manager, avviando (o almeno così pensavamo) la trasformazione della città. Ma il primo ‘terreno sdrucciolevole’ che incontrammo fu proprio la parte politica.

Il Movimento, per propria scelta, non era composto da politici di professione, e questa caratteristica fu in principio valutata positivamente. Di fatto, però, l’assenza di linee guida preconfezionate’ sulle azioni da intraprendere fece sì che per ogni intervento proposto si generassero interminabili discussioni e distinguo tra favorevoli e contrari. Venne a galla quella che a tutti apparve come un’impreparazione degli eletti, ma che era in realtà da imputarsi agli organi del Movimento, che per ottenere maggiori consensi avevano lasciato nel vago pressoché ogni indirizzo.

Nell’esperienza locale, buona parte di questa impasse mi fu risparmiata dalla determinazione della presidente del Municipio, che mi aveva incaricato delle competenze sulla mobilità. Per il resto, a parte pochi referenti preparati ed attenti alle tematiche di vivibilità urbana, la maggior parte degli eletti pareva non sapere nemmeno di che si stesse parlando. All’interno del municipio riuscii a sviluppare un minimo di formazione e didattica, al di fuori poco o nulla.

Esclusa la parte politica, il maggior responsabile della disastrosa situazione della mobilità cittadina è poi risultato essere l’apparato burocratico [2]. Dirigenti e tecnici fossilizzati su concezioni obsolete come la ‘fluidificazione del traffico’, la ‘salvaguardia della sosta’, o i margini di arbitrarietà per lasciare le automobili in doppia fila. Negli uffici ho avuto modo di incontrare funzionari pronti ad ostacolare ogni possibile trasformazione, relativamente inamovibili dalle proprie posizioni dirigenziali e, non deve sorprendere, sostituibili solo con personaggi altrettanto ostativi.

Ma ancora più a monte di tutto questo, a rendere possibile l’esistenza di un apparato amministrativo votato alla cura degli interessi privati ed indifferente alla gestione del bene pubblico, è risultato essere proprio l’impianto regolatorio e normativo della legislazione nazionale [3], che con la sua cavillosità, i suoi bizantinismi retorici e la sostanziale vetustà di visione consente ampi margini all’arbitrio ed allo stravolgimento delle priorità di volta in volta indicate dalla parte politica.

Perché se è vero che i progetti sviluppati in questi anni sono anch’essi pieni zeppi di scelte sbagliate o discutibili, è la normativa stessa ad offrire il fianco all’errore ed a consentire alla parte tecnica di ‘sbagliare’. I morti e feriti da incidentalità stradale discendono dai regolamenti imposti dal codice della strada e dalle modalità che quest’ultimo permette di implementare. Per non parlare di tutto il resto, dalle norme urbanistiche a quelle che di fatto ostacolano la repressione di crimini e forme di illegalità.

E se tutto questo ancora non bastasse i fondi a bilancio, di norma, non bastano nemmeno a coprire le necessità manutentive di tutto quanto costruito e bellamente inaugurato in passato. Migliaia di chilometri di rete stradale in malora, parchi di periferia abbandonati a se stessi, infrastrutture iniziate e mai finite. Un enorme caos da inseguire e rappezzare, con personale insufficiente, spesso inefficiente e non di rado latitante, con fondi inadeguati e procedure formali lente, farraginose e dall’esito incerto.

Abbiamo perciò un intreccio perverso tra normative cervellotiche, ampi margini di arbitrio dell’apparato burocratico, assegnazioni di fondi solitamente mirate a tamponare singole criticità e, ad intorbidare il tutto, il potere corruttivo degli interessi economici [4]. Un complesso di fattori che, insieme, concorrono nel dar corpo ad una gestione disfunzionale della città, dove l’azione politica risulta inefficace e di corto respiro. Anche amministratori di buona volontà, una volta inseriti in un tale meccanismo, hanno di fronte ben poche scelte.

Un tale sistema tende a metabolizzare i corpi estranei, oppure ad espellerli. Chi accetta di collaborare, diventandone un consapevole ingranaggio, viene premiato e diventa parte integrante dell’apparato. Chi risulta irriducibile e prova a far valere le proprie posizioni, ne viene semplicemente espulso. Sorte toccata non solo al sottoscritto ma anche a buona parte degli altri ‘attivisti’ arruolati a seguito della vittoria elettorale, in ciò includendo i ‘cambi di casacca’ di diversi esponenti politici.

L’ultima cosa che ho tardivamente compreso, quella che avrei dovuto realizzare fin dall’inizio, è che un sistema complesso non emerge dal caso. Nella mia ingenuità, ho abbracciato una narrazione ottimista e falsata, finendo col credere che la situazione contingente fosse facilmente reversibile. Che bastasse, cioè, evidenziarne le problematiche ed i limiti, ed indicare possibili alternative, per innescare una volontà diffusa di trasformazione.

Al contrario (come ho finalmente, troppo tardi, realizzato), il sistema attuale è il risultato di volontà ed azioni mirate, di investimenti economici, di interferenze culturali, di un concerto di interventi strettamente finalizzati a produrre esattamente il disastro attuale. È necessario un notevole investimento in termini di tempo, denaro ed energie per convincere le persone a sacrificare salute, incolumità fisica e qualità della vita. Un investimento massivo e pervasivo che, in ultima istanza, restituisce indietro reddito ed incremento del fatturato.

Questo risultato si è ottenuto martellando la popolazione con quello che può essere definito come un pensiero unico semplificato, appiattito e acritico. Una narrazione elaborata e capillare, veicolata attraverso ogni varietà di mass media, capace di farci percepire l’esistente come unica ragionevole possibilità, e parimenti di indurci ad ignorare e rigettare ogni possibile visione alternativa.

A posteriori, si sa, tutto appare più chiaro ed evidente. Se un modello economico è in grado di estrarre profitto per alcuni soggetti, genererà inevitabilmente ricadute negative per altri. Elemento chiave, nel successo del modello economico stesso, sono le modalità comunicative capaci di esaltarne le positività e, simmetricamente, far sparire le negatività dall’orizzonte percepito. In questo caso l’apparente neutralità o inevitabilità di determinate scelte finisce con l’essere parte integrante della mistificazione.

L’esclusione delle voci critiche dai canali comunicativi, l’enfatizzazione di vantaggi spesso effimeri o forieri di ulteriori sconquassi, la mistificazione sistematica, la ‘normalizzazione’ di fenomeni drammatici come l’incidentalità stradale o il degrado delle periferie, sono tutti elementi del processo di fabbricazione di una realtà percepita che, nell’intento di massimizzare i guadagni di chi ne controlla la narrazione, deve essere necessariamente slegata dalla realtà oggettiva. È parimenti indispensabile che una tale manipolazione non venga percepita.

Siamo stati indotti a credere che questo modello di sfruttamento economico fosse solo uno fra tanti scenari possibili, che si sarebbe potuto scardinare facendo appello all’intelligenza dei cittadini, che la prospettiva di una trasformazione dell’organizzazione urbana sarebbe stata accolta con curiosità ed interesse, ed avrebbe portato ad un tanto atteso ‘cambiamento’. Sul piano strettamente personale, in quest’illusione ci sono cascato dentro con tutti e due i piedi.

A distanza di cinque anni dalle elezioni, il Movimento 5 Stelle sembra aver perso la sua battaglia per imporre la propria volontà e visione politica all’apparato burocratico. Quello stesso apparato che, a norma di legge, avrebbe dovuto supportarne l’azione riformatrice, ha mantenuto ben saldo il timone contribuendo alla conservazione degli interessi e degli assetti preesistenti.

Trasporto pubblico e raccolta dei rifiuti annaspano, anche a causa dei limiti delle aziende partecipate, AMA ed ATAC, e sono due tra i cattivi risultati più evidenti dell’azione amministrativa. È facile gioco, per la stampa al soldo di palazzinari e potentati economici, far discendere da una responsabilità politica l’inefficienza di questi servizi. Per il resto ben poco è cambiato, dalla gestione del verde alle trasformazioni urbane, per tutta una serie di freni, ostacoli ed impasse abilmente gestiti dal comparto tecnico.

La prossima tornata elettorale si svolgerà, molto probabilmente, tra un centrodestra a guida leghista e un centrosinistra a guida PD, entrambi più che pronti a rimettere le mani sulla città e a nascondere, dietro una cortina fumogena di iniziative sociali e culturali (specifiche per ognuno), la distruzione del tessuto urbano e i favori alle diverse lobby economiche.

Quanto a me, in questi anni, quel poco che era nelle mie possibilità ho cercato di farlo. Purtroppo non è bastato, e nemmeno avrebbe potuto, muovendo da presupposti erronei. Non sono stato abbastanza accorto da comprendere che stavo agendo nel luogo, nel modo e nel momento sbagliati. Ho sprecato tempo ed energie, finendo col perdere lo slancio che mi animava, ed ancor più la convinzione.

Da ultimo pesa il dato anagrafico. Dopo aver trascorso decenni a lottare per ottenere solo briciole, per di più transitorie, quanto senso può avere continuare a sbattersi?
In una prospettiva realistica si può sperare di ottenere, al più, troppo poco e troppo tardi. Un riallineamento delle priorità di vita appare necessario.


[1] – #salvaiciclisti

[2] – Conversazione tra un politico e un burocrate

[3] – Sulla reale efficacia delle regole

[4] – Capitalismo vs Democrazia

Un paese mummificato

Ho appena iniziato ai seguire la registrazione del webinar “La progettazione della sicurezza stradale in ambito urbano”, organizzato da Polinomia in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia. È sempre un piacere ascoltare l’architetto Matteo Dondé, anche se questa volta, come mai prima, mi pesa addosso la disperante sensazione di aver buttato via altri anni preziosi.

Gli spunti sono tanti, a cominciare dalla frase “…qui togliere un posto auto può far cadere una giunta…” perché “…i cittadini si percepiscono come automobilisti”. È un concetto che non pare troppo strano. E in fondo non può apparire tale, vivendo da sempre dentro questa cultura. Eppure andrebbe ragionato! Come mai finiamo con l’identificarci, individualmente e collettivamente, con l’oggetto automobile ed il suo utilizzo?

La conclusione a cui sono giunto è che, nel corso degli anni, sia stata operata una sostituzione: alcune cose ci sono state tolte, altre ci sono state lasciate. Col risultato che, possedendo solo queste ultime, solo a queste ci siamo legati affettivamente, solo con queste ci siamo identificati Dal dopoguerra ad oggi ci sono stati chiesti sacrifici, lavoro, fiducia, ci sono stati tolti spazi per camminare, per giocare all’aria aperta, per socializzare, in cambio ci hanno riempito di denaro, di calcio, di automobili, di case perse nel nulla.

Chiaramente qualcuno ci ha guadagnato, altri ci hanno rimesso, noi tutti abbiamo perso moltissimo e siamo rimasti con in mano una manciata di perline colorate: scatole rotolanti a motore da dover cambiare ogni pochi anni (ma che bella l’automobile nuova, ci hanno raccontato), mentre diventavamo sempre più pigri, più sedentari, più tristi, più ignoranti e, inevitabilmente, più stupidi.

Deve essere stato relativamente facile far breccia in una popolazione ingenua e sprovveduta come la nostra, pompare modelli di autoaffermazione rudimentali ed egoistici, inondare il mercato di Fiat, di Ferrari, di Alfa Romeo, di Maserati, mostrarle sui giornali, nei libri, al cinema, in televisione, fino a consolidare una narrazione collettiva basata sull’individualismo ed il possesso di oggetti di status.

Quello che ci ritroviamo ora è un paese mummificato, aggrappato ad un feticcio che ingoia vite, risorse, natura e persone, senza più alcuna capacità di riottenere ciò che gli è stato tolto. Una popolazione che ha subìto una lobotomia frontale, e non ricorda più chi era, cosa aveva, cosa desiderava, ma vede ormai soltanto quello che ha sotto gli occhi uscendo di casa: un deserto di lamiere.

L’altra considerazione, ancora più amara, riguarda me, la mia generazione e tutti quelli che hanno cercato di arginare questa deriva. È evidente che abbiamo fallito, che nulla è cambiato. Comincio a pensare che il nostro errore sia stato un errore di scala. Un madornale errore di scala. Avremmo dovuto comprendere che il poco che riuscivamo ad ottenere, il pochissimo che ci veniva concesso, non solo non avrebbe cambiato la realtà in maniera significativa, ma nel complesso non avrebbe cambiato praticamente nulla.

A un certo punto della conferenza ho avuto un’epifania: mi sono visto di nuovo ai tempi della scuola, quando il maestro si stancava di insegnare e diceva a tutta la classe: “ora prendete l’album e le matite, e ciascuno faccia un disegno a piacere”. E come eravamo bravi a disegnare, quanto ci piaceva!

Da un certo punto di vista, stiamo facendo da anni la stessa cosa: disegnare un mondo di fantasia che non si avvererà mai. Non tanto perché non può avverarsi, quanto perché non deve. Ogni tanto qualcuno riceve un premio dal maestro, un bel voto, una pista ciclabile che fa il giro dell’isolato, destinata a decomporsi e cadere a pezzi insieme alle speranze che aveva suscitato. Ma poi che importanza ha? A quanti, nella vita, servirà saper disegnare?

Tutto il resto rimane immobile, paralizzato, inalterabile. D’altronde non siamo già al top? Siamo un modello per il mercato, abbiamo il massimo numero di automobili acquistate pro-capite. Spremere ancor più denaro dalle nostre tasche non deve sembrare possibile. La priorità, ad oggi, è che questa ‘bonanza’ non smetta. Che nulla cambi e che tutto resti com’è.

Una vacanza bici+mare

Quest’estate, tra covid ed altre beghe, io e mia moglie abbiamo optato per una vacanza in relativo relax, riuscendo a conciliare la sua passione per il mare con la mia per la bicicletta. Non potendo spostarci all’estero, dove questa forma di turismo è ben più sviluppata, e soprattutto non volendo imbarcarci in un viaggio itinerante in un paese, il nostro, che non ha attenzione per la sicurezza dei viaggiatori su due ruote, abbiamo cercato una destinazione ‘bike-friendly’. La scelta è infine caduta sulla Via Verde della Costa dei Trabocchi. Non essendo la ciclovia ancora completata, ragionando sui segmenti già operativi abbiamo stabilito di cercare alloggio in un punto intermedio del tratto fruibile più a nord, quello tra Ortona e Fossacesia, in modo da sfruttare il tracciato ciclabile per spostarci ogni giorno in una spiaggia diversa. La scelta è caduta su Marina di San Vito Chietino, dove abbiamo affittato un appartamento con affaccio sul mare a breve distanza dalla ciclovia.

La ciclovia
Il percorso si snoda sul sedime dismesso della ferrovia Ortona-Vasto, il cui tracciato, a causa della continua erosione operata dal mare, è stato spostato più nell’entroterra. Dopo la rimozione dei binari si è scelto di destinare il sedime dismesso a pista ciclabile, realizzando un tappeto di asfalto e ristrutturando le gallerie. Sebbene il lavoro sia ancora incompleto e la ciclovia non interamente percorribile, allo stato attuale il tracciato risulta ugualmente molto fruibile, consentendo uno sfruttamento ottimale di un lungo tratto di costa prima reso difficilmente raggiungibile proprio dalla presenza della linea ferroviaria. Dal punto di vista ciclistico, pedalare in sicurezza a pochi metri dal mare, con gli affacci sulle spiaggette e sui trabocchi che si susseguono senza soluzione di continuità, rappresenta un’immersione nella bellezza difficilmente descrivibile. L’estrema regolarità del percorso, unita all’assenza di dislivelli tipica dei tracciati ferroviari, consente di chiacchierare amabilmente mentre si percorre la pista alla ricerca della spiaggia ideale. Unica nota dolente l’assenza di illuminazione delle gallerie, prevedibile considerando il fatto che non fossero ancora aperte al pubblico transito.

Situazioni problematiche
A questo riguardo va detto che nei primi giorni della nostra vacanza abbiamo trovato diverse gallerie sbarrate da recinzioni… ostacoli che sono stati poi rimossi, apparentemente, ‘a furor di popolo’. Fatto prevedibile, dato che la domanda di mobilità ciclistica e pedonale, sulla tratta, si è dimostrata estremamente consistente. Gallerie che, nei primi giorni, risultavano sbarrate o di difficile accesso, a fine settimana venivano serenamente percorse da decine di bagnanti che non hanno ritenuto di dover attendere il collaudo di agibilità. Il tratto più affollato, e di gente a piedi più che di biciclette, è risultato proprio quello in prossimità del paese dove alloggiavamo. Mentre a Fossacesia la pista passa più lontano dal mare, ed il transito dei villeggianti si svolge sulle strade a ridosso della spiaggia, a Marina di San Vito i bagnanti provenienti dal borgo affollano il tracciato percorrendo a piedi la ciclovia anche per lunghi tratti. In prossimità di Ortona il rifacimento del fondo asfaltato non era ancora stato completato. Oltre a questo, la galleria detta dell’Acquabella, molto più lunga delle altre e con una curva a metà che impedisce di sfruttare la luce in entrata dal lato opposto, ha richiesto l’impiego di lampade per il transito (cosa che non ha ostacolato più di tanto il significativo viavai di ciclisti e pedoni in ogni occasione in cui l’abbiamo percorsa). Ad Ortona il sedime si riduce ad una pietraia e termina sotto uno svincolo stradale. Ho scoperto solo in seguito che il tracciato, ben sistemato, prosegue ancora oltre, ma le due tratte non sono al momento collegate. Dal lato opposto, oltre Fossacesia la ciclovia prosegue asfaltata ma in mezzo al verde, lontano dalla riva, fino a Torino di Sangro, poi per alcune centinaia di metri il sedime è di nuovo una pietraia sconnessa, fino al punto in cui è totalmente assente, franato a causa dell’aggressione dei marosi. Più oltre la ciclovia prosegue ancora fino a Vasto, ma la distanza da San Vito e l’impossibilità di riallacciarsi al tracciato senza percorrere tratti di strada fortemente trafficati ci hanno dissuaso dall’esplorazione.

Il mare
La costa abruzzese, almeno nel tratto da noi esplorato, è risultata estremamente bella e pulita, oltreché ricca di pesci a farci compagnia nelle sessioni di snorkeling. Le spiagge sono quasi tutte a ciottoli, problema aggirabile con le apposite calzature ‘da scoglio’. Le uniche spiagge sabbiose le abbiamo trovate ad Ortona e Fossacesia. In alcuni punti, sugli scogli e nel fondale, abbiamo riscontrato la presenza di anemoni, che abbiamo avuto cura di evitare di toccare. In una singola nuotata ci ha fatto compagnia una medusa solitaria, che è stata molto bella da vedere… a debita distanza.

Dotazione logistica
Sulle biciclette avevamo una coppia di borse da viaggio per trasportare il necessario: asciugamani, pranzo al sacco, maschere da sub ed una tendina aperta che ha degnamente sostituito il tradizionale ombrellone (potendo oltretutto richiudersi in un sacchetto di dimensioni poco superiori a quelle di un avambraccio), oltre alle suddette calzature da scoglio e ad una piccola telecamera con custodia impermeabile per le riprese subacquee.

Conclusioni
Sicuramente una proposta di vacanza adatta alle esigenze di coppie e famiglie cui piaccia muoversi in bicicletta, senza doversi sobbarcare l’impegno di un vero cicloviaggio. La presenza di una abbondante offerta ristorativa in loco, di ottima qualità ed a prezzi contenuti, ci ha consentito di fare (quasi) del tutto a meno dell’automobile, la cui unica funzione è stata di portarci a destinazione e riportarci a casa, restando poi parcheggiata ed inutilizzata per l’intera settimana.

Saldamente incatenati agli anni ‘50

Perché non riusciamo davvero ad imporre una svolta, una trasformazione, alle nostre città? Perché gli interventi di ammodernamento procedono col contagocce, riuscendo a risultare insufficienti fin dal momento stesso del loro completamento? Perché, sostanzialmente, siamo immobilizzati in un eterno presente che si trascina, sempre più a fatica, dall’epoca del boom economico?

Il problema principale, per quel che posso vedere, consiste nel non aver mai realmente voluto fare i conti con le contraddizioni prodotte da un sistema di mobilità basato sull’automobile privata. Modello al quale siamo saldamente ed entusiasticamente incatenati, senza la minima possibilità di evadere.

Fin dal suo apparire l’automobile è stata narrata come un simbolo di modernità, di libertà, di affrancamento dalla fatica, e come tale è stata culturalmente metabolizzata. Un assunto privo di fondamento ma a tal punto martellato, ribadito, ripetuto, con ogni singolo strumento mediatico disponibile, da far sì che sia ormai percepito alla stregua di una realtà oggettiva, non discutibile, per la maggioranza di noi. Sebbene molti dei lati negativi prodotti della mobilità privata fossero evidenti in partenza, a cominciare dall’elevato tasso di mortalità stradale, si scelse di ignorarli.

Ora di tempo ne è trascorso parecchio, ed i problemi causati dalla fascinazione collettiva per l’automobile si sono andati accumulando, anziché risolversi. L’automobile, da simbolo di libertà di movimento, è diventata la causa prima della paralisi dei centri città, e già solo questa semplice evidenza dovrebbe indurre un ripensamento. Tuttavia il dibattito politico su questi temi è totalmente assente, e sempre lo è stato, a destra come a sinistra.

Il paese appare immobilizzato in una visione arcaica, immutata dagli anni ‘50, in cui l’automobile soddisfa un diritto alla mobilità individuale che gli organi istituzionali sono tenuti a garantire. Tale visione è attualmente portata avanti con maggior vigore, direi paradossalmente, proprio dai partiti di sinistra (PD in testa), che invece di preoccuparsi della qualità della vita dei cittadini si concentrano nel salvaguardare un indifendibile ‘diritto al possesso ed all’uso dell’automobile’.

Inutile dire che ciò rappresenta un errore prospettico enorme, perché l’automobile privata, per dimensioni, ingombri ed esigenze di spazi per la movimentazione e la sosta, non è più compatibile (ammesso che lo sia mai stata) con la maturata domanda di mobilità propria della dimensione urbana.

Il principale appunto che devo fare all’amministrazione attuale, M5S, riguarda proprio la totale assenza di un dibattito pubblico su questi temi. Si è partiti a costruire infrastrutture ciclabili senza aver prima costruito una comprensione, un consenso popolare, senza aver spiegato adeguatamente per quali motivi le si stavano realizzando. Probabilmente illudendosi che una popolazione come la nostra, bombardata per decenni unicamente da propaganda a favore dell’automobile, avrebbe fatto da sé il salto culturale necessario.

Evidentemente ciò non è avvenuto, come dimostrano le discussioni sui social ed i comitati che quotidianamente si oppongono a qualsiasi intervento sulla viabilità. Quello che è stato ragionato e compreso, in realtà meno culturalmente fossilizzate della nostra (situate in prevalenza nel Nord Europa), è che proprio l’utilizzo dell’auto privata, anziché aumentare la capacità individuale di spostamento, rappresenta un collo di bottiglia per la mobilità dei cittadini all’interno degli spazi urbani.

Le automobili private ingombrano gli spazi pubblici, li rendono insicuri per pedoni, ciclisti ed utenti ‘deboli’ come anziani e disabili, intasano i corridoi stradali rallentando il trasporto pubblico, producono rumore ed inquinamento e richiedono sistemazioni (asfalto+cemento) che confliggono con la presenza di alberature, la cui ombra riduce il calore diurno rendendo le strade più piacevoli da vivere e da percorrere a piedi e in bicicletta.

Nelle realtà urbanisticamente più progredite si sta portando avanti un lavoro di progressiva riduzione degli spazi e dei servizi destinati alla mobilità privata, destinando quegli stessi spazi e servizi per usi pubblici: eliminazione di sosta e parcheggio, riduzione delle possibilità di transito in aree particolarmente affollate (pedonalizzazioni, ZTL e ‘zone 30’), limitazione, mediante tariffazione, degli accessi alle aree centrali.

Il nuovo paradigma della città moderna punta il focus sulla mobilità dei cittadini, non dei veicoli, mettendo al centro gli spostamenti delle persone anziché delle automobili. E dove si colloca l’Italia in questo processo? In coda, evidentemente. Il percorso di elaborazione culturale sulla compatibilità tra spazio pubblico e mobilità privata qui non è mai iniziato: siamo fermi, saldamente inchiavardati ad una visione vecchia di settant’anni, che vuole l’automobile al centro della vita urbana.

L’ideologia della modernità, che l’automobile ha incarnato fin dalla sua comparsa, ha tra i suoi pilastri fondanti l’idea che ad ogni problema si troverà soluzione, in un futuro più o meno lontano, grazie ad invenzioni non ancora disponibili al momento attuale. Gli ideologi del futuro dell’automobile stanno riempendo le proprie narrazioni di veicoli futuristici, auto a guida autonoma, elettriche, ad idrogeno, cercando ostinatamente di nascondere l’evidenza.

L’evidenza, inconfutabile, che l’automobile stessa è un mezzo di trasporto obsoleto ed antimoderno, noto per causare più problemi di quanti ne risolva e tale da contribuire pesantemente al degrado dei centri urbani. Non a caso, le città dove si vive peggio, nel mondo, sono proprio quelle dove circolano più automobili.

Quando riusciremo a sbarazzarci di questa visione stantia e disfunzionale della vivibilità urbana? La sensazione è che passeranno altri decenni. Il dominio economico del comparto automotive sui mass media è evidente, e tanto basta a mettere la sordina alle voci in grado di produrre un cambiamento culturale. La macchina statale è totalmente appiattita e complice, destinando fondi pubblici ad una varietà infinita di incentivi e sovvenzioni all’attuale sistema di produzione e mobilità. La politica tace o balbetta.

Il patto faustiano siglato dall’Italia col culto dell’auto privata, e firmato col sangue delle vittime della strage stradale, non sarà certo annullato per scelta della mefistofelica controparte, né combattuto da una classe politica incapace di vedere al di là del proprio naso né, in ultima istanza, sciolto da una volontà popolare che appare, ancora oggi, totalmente assente e distratta.