Ho iniziato a spostarmi in bicicletta sul finire degli anni ‘80. All’epoca ero uno spensierato ventenne pieno di energie, e l’utilizzo della bici mi consentiva di evadere dal grigiore cittadino e da un’esistenza tutto sommato prevedibile.
La crescita della città, unita all’aumento del numero di veicoli pro-capite, ha finito nel tempo col saturare la rete viaria, soffocandola e rendendola via via sempre più ostile ai mezzi ‘leggeri’, nella totale assenza di volontà, da parte della politica, di arginare il fenomeno o anche solo di realizzare tracciati da poter percorrere in sicurezza.
In assenza di percorsi sicuri mi sono messo a cercarli. Nel corso di tre decadi ho messo insieme una piccola rete di itinerari che mi consentono di raggiungere numerosi quartieri, anche lontani, utilizzando spazi ‘marginali’ della città: parchi, argini fluviali, sentieri, marciapiedi sottoutilizzati ed una manciata di piste ciclabili. Ho imparato, in buona sostanza, a muovermi ‘fuori dai radar’, a ricavarmi spazi alternativi, a spostarmi sfruttando le ‘pieghe’ della città.
Questa strategia ha funzionato per decenni, e continua a funzionare, quello che è cambiato, negli ultimi tempi, è il suo portato emotivo. In passato riuscivo a considerare questa capacità acquisita di muovermi fuori dalla rete veicolare come una sorta di super-potere. Col passare degli anni ho piuttosto finito col viverla come una sconfitta. Un conto è arrabattarsi in attesa di tempi migliori, un altro arrabattarsi tutta la vita senza vedere miglioramenti significativi [1].
Nel percorso che separa la mia abitazione dall’ufficio, distante una dozzina di chilometri, è presente un tratto di strada molto trafficato, che non ho modo di evitare. Pochi giorni fa, mentre lo percorrevo in bici, sfiorato a poca distanza da SUV, furgoni ed autoarticolati, letali ed indifferenti, mi è capitato di pensare: “se non do fondo a tutte le mia abilità, qui mi schiacciano come una formica”.
Nel più classico dei cortocircuiti mentali mi sono visto, in quel momento, nei panni di Ant-Man, il supereroe partorito dalla fantasia di Stan Lee, un personaggio immaginario dotato del potere di rimpicciolirsi fino alle dimensioni di una formica, pur conservando la forza di un normale essere umano [2].
Questa capacità di ridurre le proprie dimensioni consente al personaggio tutta una serie di azioni spettacolari, come ad esempio sparire apparentemente nel nulla, attraversare porte chiuse scivolandoci sotto, o direttamente passando dentro le serrature, o penetrare in luoghi inaccessibili e strettamente sorvegliati.
I paralleli con la mia personale esperienza di utilizzo urbano della bicicletta sono numerosi e diversi. Posso attraversare strade bloccate da ingorghi continuando a muovermi su spazi marginali, senza rimanere bloccato nel traffico. La ridotta dimensione della bici rispetto ai veicoli a motore apre opportunità di spostamento alternative, multimodali, inaccessibili agli utenti motorizzati. Per contro, la bicicletta mi rende piccolo e fragile nei confronti della massa di veicoli circolanti sulle strade, corazzati ed inscalfibili, che sciamano aggressivi a reclamare l’intera rete viaria.
Siamo piccoli eroi, noi ciclisti. Rifuggiamo comportamenti omologati e distruttivi, nei confronti degli altri e del pianeta che ci ospita, pagandone le conseguenze sulla nostra pelle e nello spirito. Il solo sfidare le norme comportamentali imposte dal modello economico dominante mette a rischio le nostre stesse vite.
Muoversi, banalmente, da un luogo all’altro della città, espone al rischio di finire stritolati sotto le ruote di un furgone, come è successo nel 2017 ad un campione famoso, Michele Scarponi [3]. O di un autoarticolato, come accaduto nei mesi scorsi ad un ex-professionista, Davide Rebellin [4]. O di una betoniera, come Cristina Scozia, trentanovenne madre di una bimba di sei anni, travolta e uccisa in pieno centro di Milano nelle scorse settimane [5].
Quando queste tragedie accadono l’opinione pubblica se ne dimentica in fretta, attuando meccanismi di rimozione facilitati dai mass-media, che ci bombardano di informazioni inutili per meglio distrarci dalla realtà. Ad esserne colpita è in massima parte la comunità dei ciclisti, che si scoprono fragili, esposti all’indifferenza e alla distrazione dei conducenti di veicoli a motore, e trattati dai mezzi di informazione con superficialità e malcelato fastidio.
Quella che immaginavo essere una strategia temporanea, in attesa di soluzioni strutturali, si è tramutata in una modalità di resistenza passiva, che non vede progressi. Gli spazi marginali dove posavo le mie ruote trent’anni fa, tali sono rimasti. L’umanità domesticata [6] si affeziona alle proprie gabbie, fisiche e mentali [7], ed oppone una resistenza passiva ad ogni possibile trasformazione.
E questo è, in fondo, il parallelo finale tra la mia personale esperienza e quella dell’immaginario Uomo-Formica. Un personaggio che, come tutti gli eroi di carta, dopo innumerevoli battaglie e atti di eroismo ottiene unicamente di salvare il mondo preesistente, senza riuscire a migliorarlo di una virgola. Una parabola esistenziale decisamente poco entusiasmante.
L’associazione Salvaiciclisti-Roma ha deciso di organizzare una serie di seminari per i neoeletti amministratori romani, chiedendo a cicloattivisti con esperienze nella P.A. di tenere dei mini-webinar sulle problematiche dell’amministrare la città.
Giusto ieri ho deciso di fare un salto all’incontro organizzato dall’associazione #Salvaiciclisti [1] assieme ad altre realtà dell’associazionismo cicloattivista e cicloambientalista [2]. L’intenzione era, molto banalmente, incontrare un po’ di amici (che ormai vedo raramente) e chiacchierare un po’ dei temi che ci appassionano. La mia presenza ha coinciso col momento di auto-presentazione di alcuni candidati alla prossima tornata elettorale, appartenenti a diversi schieramenti, tutti accomunati da un sentire dichiaratamente pro-ciclabilità.
Mentre ascoltavo i diversi interventi e le dichiarazioni d’intenti dei candidati non ho potuto fare a meno di riandare al mio personale percorso di amministratore, durato il breve volgere di un paio d’anni, a cavallo tra 2016 e 2018 [3]. Mi sono tornate alla memoria le molte situazioni in cui i processi di trasformazione erano andati ad infrangersi contro impedimenti burocratici [4] ed all’improvviso ho messo a fuoco l’esistenza di un vuoto.
Di norma, quando si studia una realtà complessa, è già faticoso concentrarsi su quello che già esiste, con le sue articolazioni e problematiche. Dato un sufficiente grado di complessità, risulta estremamente difficile individuare, oltre a quello che c’è, anche quello che manca. Il motivo è molto semplice: si cercano difetti nei singoli processi, quando il difetto è dato semplicemente dall’assenza di una parte essenziale del meccanismo.
Il processo decisionale, in questo caso, vede fronteggiarsi da un lato una volontà politica di trasformazione (quantomeno proclamata, non di rado più sbandierata che reale…), e dall’altro quella che potremmo definire come una ‘non volontà burocratica’, una contro-spinta che tende ad appiattire ogni tentativo politico di trasformazione dell’esistente e ad operare in chiave di conservazione.
La parte politica, da par suo, sconta l’incompetenza (inevitabile) rispetto ad una pletora di tecnicismi legislativi: normative e cavilli che vengono tipicamente agiti da pezzi dell’apparato burocratico per impedire e sovvertire la volontà politica. Questo meccanismo, formalizzato dalla legislazione corrente, mi è a lungo sembrato impossibile da scardinare. Lo strumento necessario a disarticolarlo è proprio il ‘pezzo mancante’ della narrazione. Quel qualcosa di cui, finché non ti accorgi che manca, non puoi nemmeno immaginare l’esistenza.
Anni fa pubblicai un articolo, molto arrabbiato, intitolato ‘Vigliaccheria politica’[5]. In quel post raccontavo la situazione di Londra, e la maniera in cui la volontà degli amministratori di prendersi cura della salute dei cittadini era stata tradotta in una serie di interventi di ampio respiro proprio nell’ambito della mobilità. Perché, mi domandavo, la politica nostrana non era capace di emulare un simile approccio?
La prima risposta, non del tutto sbagliata, puntava il dito su un’assenza di volontà della politica stessa (la ‘vigliaccheria’ del titolo). Ragionandoci meglio, però, anche data una forte volontà politica, come si sarebbe potuto tradurla in interventi reali? La volontà politica, nel processo amministrativo attuale, viene direttamente trasferita al comparto burocratico, che il più delle volte la restituisce tritata in pezzettini finissimi assieme alla conclusione, a fronte di una realtà cittadina ormai consolidata, che nessun intervento sarebbe realmente utile, finendo col proporre uno spolverìo di aggiustamenti cosmetici ed inefficaci.
Come si smonta questo meccanismo perverso? Inserendo il famoso ‘pezzo mancante’. Se l’apparato burocratico responsabile della realtà attuale non ha le capacità, o la volontà, di immaginare una realtà differente, si assegna il compito ‘immaginativo’, quello di tradurre il mandato politico in un ventaglio di interventi reali ed efficaci, ad un diverso ente. Un ente che incorpori sia una componente immaginativa, sia le competenze tecniche e legali per disegnare una transizione efficace e percorribile.
Di che tipo di ente stiamo parlando? Non saprei esattamente, ma immagino che la parte politica sia in grado di definire un indirizzo facilmente comprensibile ai più (che so, la riduzione dell’incidentalità stradale) e possa procedere a nominare una commissione di esperti di diversa provenienza, anche con esperienze in realtà estere. Tale gruppo di lavoro avrebbe il mandato di elaborare un piano globale, comprensivo dell’analisi dello stato di fatto, dell’individuazione dei principali elementi di criticità e della proposta di soluzioni applicabili in tempi e modi certi.
Uno studio capillare che, una volta completato, venga restituito alla parte politica, la quale dovrà approvarlo (presentandolo agli elettori come documento tecnico elaborato da esperti sulla base delle priorità indicate), e procedere a finanziare gli interventi in esso descritti. Perché interventi straordinari necessitano di percorsi diversi dall’ordinaria amministrazione della città, e non possono essere pretesi, o commissionati, a chi già si occupa della gestione dell’esistente.
Che è poi quello che, a posteriori, immagino sia avvenuto nella redazione del documento ‘Improving the health of Londoners’, pubblicato dalla città di Londra [6] e citato nel post già menzionato. Un lavoro radicale ed immaginativo necessita di risorse, umane e culturali, diverse da quelle responsabili di aver posto in essere l’esistente. “Non possiamo risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato per crearlo”, affermava Albert Einstein. Operare un salto di qualità necessita di strumenti, ed intenti, diversi da quelli che operano a garantire la continuità di quanto esistente.
Sarà in grado, l’amministrazione che emergerà dalle prossime elezioni cittadine, di avviare la trasformazione radicale di una città in declino ormai da decenni, resistendo alle pressioni di interessi fortemente consolidati? O non preferirà piuttosto continuare a scaldare le poltrone, lasciar correre, chiudere occhi ed orecchie, far finta di lavorare ed intascare le prebende? Non chiedetelo a me, preferisco non esprimermi (…o, forse, l’ho già fatto [7]).
Da appassionato ciclo-escursionista di lunga data, e con una spiccata tendenza ad affezionarmi agli oggetti ed alle memorie che portano con sé, finisco col ritrovarmi sul groppone biciclette ‘d’annata’, che qualcuno potrebbe addirittura considerare vetuste. Quella di cui scriverò oggi è una bianchi XC-311, fabbricata nella seconda metà degli anni ‘90, ovvero in circolazione da un quarto di secolo.
Passato
La Bianchi ‘gialla’ entra a far parte della mia scuderia fra il ‘97 e il ‘98, già usata e ‘vissuta’, con una interessante (per l’epoca) forcella ammortizzata ad elastomeri al posto dell’originale forcella rigida. È la mia seconda mountain-bike e rimane la bici ‘top’ per un altro paio d’anni o giù di lì, fino all’arrivo della prima biammortizzata [1]. In seguito al declassamento, la Bianchi diventa la mia bici da viaggio [2], di conseguenza portapacchi e cavalletto entrano a farne parte in pianta stabile (il cavalletto è temporaneamente smontato, ma pronto a tornare al suo posto).
La bici subisce, nel corso degli anni, una varietà di rimaneggiamenti. Il primo e più importante riguarda un ulteriore cambio di forcella [3]. Selle diverse vanno e vengono, non di rado prese già usate; gli originali pedali a gabbiette vengono sostituiti prima da una coppia di SPD, quindi dagli universali ‘flat’; il cambio ‘grip-shift’ cede il passo alle levette push-pull, mantenendo le originarie sette velocità; diverse impugnature si avvicendano negli anni. Da ultimo finisco col cambiare anche manubrio e ‘pipetta’ riciclandoli da altre bici, per correggere l’impostazione originaria ed ottenere un miglior controllo su terreni sconnessi.
Negli ultimi anni, trovandomi con un parco bici ridondante, la vecchia Bianchi è finita in prestito ad amici, che l’hanno utilizzata per viaggi e passeggiate. Da pochi mesi l’ho recuperata, con l’intenzione di lasciarla in pianta stabile al paesello nelle Marche [4]. Risalendoci in sella, ho realizzato come l’esperienza con diverse altre biciclette abbia finito col modificare il mio modo di pedalare al punto da richiedere una ulteriore revisione dell’assetto.
Presente
Nel decidere di ristrutturare una bicicletta occorre partire da un’idea abbastanza precisa di come la si utilizzerà, e di cosa sarà possibile aspettarsi. In questo caso, l’effettiva anzianità del veicolo non consentirà le prestazioni cui è abituato un utente della seconda decade del terzo millennio. Nel mio parco bici, tuttavia, restava scoperta una specifica nicchia, quella della bici tuttofare, pronta a servire per esigenze diverse, per l’utilizzo quotidiano casa-ufficio e non da ultimo finalizzata ai lunghi viaggi (attività, ahimè, scarsamente praticata, in tempi recenti…).
Il secondo punto critico riguarda l’ottimizzazione del mezzo, e la scelta delle parti da sostituire. Trovandomi ormai da un po’ perfettamente a mio agio con ‘Blue Raptor’, la bici riemersa dal recupero degli avanzi della mia prima biammortizzata su un vecchio/nuovo telaio [5] e rivelatasi inaspettatamente performante, ho cercato per quanto possibile di riprodurre sulla vecchia Bianchi un assetto analogo. Ciò ha implicato lo scendere a patti con la concezione arcaica della geometria del telaio.
Le bici moderne nascono per ospitare ruote più grandi (27,5” e 29”) forcelle ammortizzate dalla corsa generosa, che da sole producono il sollevamento della piega manubrio e una significativa modifica dell’assetto di guida. Questa trasformazione ha quindi portato allo sviluppo di geometrie ‘sloping’, nelle quali il tubo orizzontale risulta fortemente ribassato per consentire di scendere al volo, ove necessario.
Questa Bianchi del secolo scorso emerge in una fase ancora immatura nella transizione dai telai da corsa a quelli da fuoristrada, nasce per muoversi su strade bianche più che sui sentieri ‘tecnici’ e precede di molto l’avvento delle geometrie sloping. Di conseguenza non consente di montare una forcella dalla corsa superiore ai 60~80mm, pena un’inclinazione ingestibile della forcella stessa, potenzialmente distruttiva per il telaio stesso. Oltre a ciò, il rialzo della serie sterzo per accogliere la corsa di una forcella ammortizzata induce un ulteriore sollevamento del tubo orizzontale, già alto di suo.
Quello che è molto cambiato, dalle MTB anni ‘90 ad oggi, è il tipo di utilizzo. Appena nate, le bici da fuoristrada venivano principalmente usate per ‘correre sugli sterrati’, un adattamento delle discipline sportive stradali alle strade bianche. Le prime modifiche consistettero in ruote più larghe, sistemi frenanti diversi (obbligati dai copertoni maggiorati), manubri dritti e comandi del cambio al manubrio; mentre le geometrie dei telai, almeno all’inizio, non differivano più di tanto da quelle delle bici da strada.
Col tempo il range di utilizzo di queste biciclette si è progressivamente esteso ai sentieri di montagna, caratterizzati da una maggior difficoltà tecnica, e la forma delle biciclette si è adeguata alle nuove esigenze: i manubri sono arretrati più in prossimità dell’asse di sterzo, per ottenere un miglior controllo sui passaggi tecnici, inoltre sono diventati più larghi e sollevati, per meglio gestire la distribuzione dei pesi sulle discese ripide. Nel complesso, l’intero assetto delle bici attuali risulta meno orientato alla velocità nuda e cruda e più alle esigenze di controllo nei passaggi tecnici a bassa velocità.
Ho personalmente percorso questo trend evolutivo nella, purtroppo breve, stagione da freerider, realizzando la differenza essenziale di manovrabilità dei nuovi assetti. L’esperienza con la Santacruz Chameleon [6] mi ha definitivamente portato a preferire manubri larghi ed arretrati (l’esatto contrario di quanto predicavo negli anni ‘90), al punto da spingermi a replicare questo tipo di impostazione anche nella bici poi emersa dalle ceneri della Specialized[5].
Su questa bici, la sostituzione dell’originale forcella rigida con una ammortizzata (al momento anche questa ‘antica’ ed a corsa molto breve), ha comportato un’inevitabile alterazione dell’assetto originario, con diversi effetti. Il manubrio si è sollevato (fattore positivo, perché da tempo non sono più un fautore dell’assetto ‘corsaiolo’); il movimento centrale si è sollevato (fattore neutro: da un lato si rischia meno di sbattere su pietre sporgenti, dall’altro si obbliga la sella ad una posizione più rialzata) ed avanzato (fattore positivo, perché compensabile avanzando il sellino, col risultato di ottenere un telaio leggermente più ‘corto’ dell’originale).
Come risultato complessivo la bici, in origine già di taglia Large, risulta al termine della modifica lievemente più alta e leggermente accorciata in orizzontale. Una dimensione quasi ottimale per la mia altezza di 1,74m, corrispondente ad una taglia M/L (Medio/Large).
Per l’altezza del manubrio ho ritenuto necessario recuperare recuperare centimetri ancora mancanti, procedendo all’acquisto di una piega manubrio larga (700mm) e leggermente rialzata (+50mm), mentre per l’arretramento della stessa ho montato un nuovo attacco di soli 40mm di lunghezza, corredato di spessori per sollevare il tutto fin dove possibile. A questi ritocchi geometrici si sono aggiunti una coppia di copertoni nuovi da cross-country (a tassellatura leggera ma di larghezza abbondante: 2,20”) e la sostituzione delle impugnature, ricavando una bici equilibrata e ben guidabile, non troppo lontana dai miei standard abituali.
Altre limitazioni restano, per caratteristiche immodificabili o semplicemente perché non ritengo valga la pena di intervenire. I freni restano V-brakes (la bici nasceva coi cantilever) perché sul telaio mancano gli attacchi per i freni a disco. Potrei montarne uno singolo anteriormente, ma non mi piace l’idea di un mix. Il cambio posteriore rimane a sette velocità, perlomeno finché non si renderà necessaria, in futuro, la sostituzione delle leve.
Update
(Gennaio 2022) Nel corso dell’autunno ho montato un nuovo sellino e rimesso mano alla coppia di pedali flat, ripassando le filettature e sostituendo ai perni originali dei nuovi grani filettati. Segni e graffi restano, ma i pedali sono ora, in termini di funzionalità, meglio che da nuovi. Le impugnature in gomma, dopo qualche mese di utilizzo nel percorso casa-ufficio (12+12km, con parecchi tratti di sterrato), sono state sostituite con manopole Ritchey in neoprene. Non ho resistito alla tentazione di rimontarci su un bauletto ‘minimal’ a parallelepipedo, una concessione al gusto vintage ed a mode ormai passate
Recuperata infine la forcella ad aria che equipaggiava la bici di Emanuela (una Marzocchi Bomber dei primi anni ‘2000, smontata in seguito alla crepatura del relativo telaio), ho provveduto alla sostituzione. Oltre ad un modesto miglioramento della performance, anche l’equilibrio cromatico della bici ne ha giovato: il blu della forcella riprende quello delle scritte sul telaio. A breve conto di sostituire anche le leve dei freni, più per un fatto estetico che per necessità funzionali. L’aspetto provvisorio è il seguente.
Conclusioni
Ha senso perder tempo ad aggiornare una vecchia bicicletta? Se le intenzioni sono di usarla, se vi divertite a fare gli interventi in prima persona e se non avrete pretese troppo spinte, la risposta è sì. Non otterrete una bicicletta strepitosa e performante come quelle all’ultimo grido, ma recupererete un attrezzo solido ed affidabile, ancora capace di accompagnarvi in giro per il mondo. Una bici vissuta, che non dovrete preoccuparvi troppo se finisce un po’ maltrattata, se si prende un acquazzone, o se si aggiunge un nuovo graffio ai mille che avrà già.
Importante è essere in grado di stabilire se l’intervento potrà restituirvi una bici comoda, ergonomica, affidabile e godibile. Per quel che mi riguarda sono soddisfatto del risultato. Testata per diversi mesi sul percorso casa-ufficio, un misto asfalto-sterrato di oltre una ventina di chilometri complessivi, la bici si è dimostrata all’altezza delle aspettative. Rispetto alle altre che ho rimane sì un po’ rigida, ma è terribilmente comoda e trasmette una piacevole sensazione di solidità.
E, d’altro canto, quando passi un quarto di secolo a mettere a punto una bicicletta, correggendo e collaudando per mesi ed anni posizioni e geometrie, il minimo che puoi aspettarti è che la bici ti calzi come un guanto. E questa bici ormai è così: ci salgo sopra e me la dimentico, niente è fuori posto, nemmeno di un millimetro. Il processo di reciproco adattamento ha finito col produrre un ibrido uomo-macchina perfettamente affiatato.
Alla fine, dopo tutte queste trasformazioni, la bici si è guadagnata un nuovo nome. Dopo aver rischiato di chiamarsi ‘Accanimento Terapeutico’, la scelta è inevitabilmente caduta su Patchwork!
In questo post descriverò la totale assenza di aspettative che nutro nei confronti della prossima tornata di elezioni amministrative. Al fine di consentire ai miei tre lettori di calarsi meglio nel ragionamento, inizierò con un breve racconto di fantasia.
“Un uomo, raggiunta la maturità ed una adeguata stabilità economica, decide di lasciare la città e costruirsi una casa in collina. Acquista un terreno con affaccio panoramico ed inizia a scavare per mettere in posa le fondamenta della sua nuova casa. Scavando, a meno di un metro di profondità trova un terreno instabile, pronto a sfaldarsi ed inadatto alla posa di fondamenta. Allora scava ancora più in profondità, e scopre una discarica di rifiuti tossici. Dopo averla fatta bonificare, a proprie spese, raggiunge finalmente lo strato roccioso sottostante. Le necessarie analisi geologiche evidenziano livelli di radioattività naturale incompatibili con l’idea di stabilirsi in prossimità. L’uomo abbandona il progetto di costruire la propria casa in collina, dopo aver dilapidato mesi di tempo e buona parte dei propri risparmi, e si rassegna a vivere in città”
Ecco, se devo descrivere i miei ultimi decenni da cicloattivista, questo è il paragone più calzante: quello di un uomo che più scava e peggio trova, al punto da finire con l’abbandonare ogni illusione di cambiamento. Una vicenda che si conclude con tutte le risorse iniziali (età, tempo, volontà, passione, entusiasmo) inutilmente dilapidate ed ormai non più recuperabili.
Senza andare troppo indietro nel tempo, poco meno di dieci anni fa, nel lontano 2012, la campagna #salvaiciclisti[1] aveva smosso l’attenzione collettiva. Poco dopo, l’elezione del sindaco Ignazio Marino, un ciclista, aveva acceso le speranze del movimento cicloattivista romano. Furono speranze di breve respiro, dal momento che l’operato di Marino fu definitivamente affossato dal suo stesso partito, palesemente contrario agli intenti riformatori del proprio primo cittadino. Un ‘suicidio politico’ che, possiamo immaginare, fu considerato il necessario prezzo da pagare per la salvaguardia di interessi consolidati.
L’impresentabilità delle destre, conseguente al malgoverno del precedente sindaco Alemanno, e la malaugurata scelta del centrosinistra di far fuori il proprio stesso sindaco, fecero spazio ad una terza forza, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che stravinse le elezioni portando a casa una maggioranza assoluta nel consiglio comunale e tredici amministrazioni municipali su quindici. Un ‘bottino’ destinato a perder pezzi in breve tempo.
Il Movimento appariva ispirato da ideali ambientalisti, e questo ci fece sperare nel tanto atteso ‘cambiamento’. Diversi fra noi cicloattivisti finirono integrati nella macchina amministrativa, come assessori o bike-manager, avviando (o almeno così pensavamo) la trasformazione della città. Ma il primo ‘terreno sdrucciolevole’ che incontrammo fu proprio la parte politica.
Il Movimento, per propria scelta, non era composto da politici di professione, e questa caratteristica fu in principio valutata positivamente. Di fatto, però, l’assenza di linee guida ‘preconfezionate’ sulle azioni da intraprendere fece sì che per ogni intervento proposto si generassero interminabili discussioni e distinguo tra favorevoli e contrari. Venne a galla quella che a tutti apparve come un’impreparazione degli eletti, ma che era in realtà da imputarsi agli organi del Movimento, che per ottenere maggiori consensi avevano lasciato nel vago pressoché ogni indirizzo.
Nell’esperienza locale, buona parte di questa impasse mi fu risparmiata dalla determinazione della presidente del Municipio, che mi aveva incaricato delle competenze sulla mobilità. Per il resto, a parte pochi referenti preparati ed attenti alle tematiche di vivibilità urbana, la maggior parte degli eletti pareva non sapere nemmeno di che si stesse parlando. All’interno del municipio riuscii a sviluppare un minimo di formazione e didattica, al di fuori poco o nulla.
Esclusa la parte politica, il maggior responsabile della disastrosa situazione della mobilità cittadina è poi risultato essere l’apparato burocratico [2]. Dirigenti e tecnici fossilizzati su concezioni obsolete come la ‘fluidificazione del traffico’, la ‘salvaguardia della sosta’, o i margini di arbitrarietà per lasciare le automobili in doppia fila. Negli uffici ho avuto modo di incontrare funzionari pronti ad ostacolare ogni possibile trasformazione, relativamente inamovibili dalle proprie posizioni dirigenziali e, non deve sorprendere, sostituibili solo con personaggi altrettanto ostativi.
Ma ancora più a monte di tutto questo, a rendere possibile l’esistenza di un apparato amministrativo votato alla cura degli interessi privati ed indifferente alla gestione del bene pubblico, è risultato essere proprio l’impianto regolatorio e normativo della legislazione nazionale [3], che con la sua cavillosità, i suoi bizantinismi retorici e la sostanziale vetustà di visione consente ampi margini all’arbitrio ed allo stravolgimento delle priorità di volta in volta indicate dalla parte politica.
Perché se è vero che i progetti sviluppati in questi anni sono anch’essi pieni zeppi di scelte sbagliate o discutibili, è la normativa stessa ad offrire il fianco all’errore ed a consentire alla parte tecnica di ‘sbagliare’. I morti e feriti da incidentalità stradale discendono dai regolamenti imposti dal codice della strada e dalle modalità che quest’ultimo permette di implementare. Per non parlare di tutto il resto, dalle norme urbanistiche a quelle che di fatto ostacolano la repressione di crimini e forme di illegalità.
E se tutto questo ancora non bastasse i fondi a bilancio, di norma, non bastano nemmeno a coprire le necessità manutentive di tutto quanto costruito e bellamente inaugurato in passato. Migliaia di chilometri di rete stradale in malora, parchi di periferia abbandonati a se stessi, infrastrutture iniziate e mai finite. Un enorme caos da inseguire e rappezzare, con personale insufficiente, spesso inefficiente e non di rado latitante, con fondi inadeguati e procedure formali lente, farraginose e dall’esito incerto.
Abbiamo perciò un intreccio perverso tra normative cervellotiche, ampi margini di arbitrio dell’apparato burocratico, assegnazioni di fondi solitamente mirate a tamponare singole criticità e, ad intorbidare il tutto, il potere corruttivo degli interessi economici [4]. Un complesso di fattori che, insieme, concorrono nel dar corpo ad una gestione disfunzionale della città, dove l’azione politica risulta inefficace e di corto respiro. Anche amministratori di buona volontà, una volta inseriti in un tale meccanismo, hanno di fronte ben poche scelte.
Un tale sistema tende a metabolizzare i corpi estranei, oppure ad espellerli. Chi accetta di collaborare, diventandone un consapevole ingranaggio, viene premiato e diventa parte integrante dell’apparato. Chi risulta irriducibile e prova a far valere le proprie posizioni, ne viene semplicemente espulso. Sorte toccata non solo al sottoscritto ma anche a buona parte degli altri ‘attivisti’ arruolati a seguito della vittoria elettorale, in ciò includendo i ‘cambi di casacca’ di diversi esponenti politici.
L’ultima cosa che ho tardivamente compreso, quella che avrei dovuto realizzare fin dall’inizio, è che un sistema complesso non emerge dal caso. Nella mia ingenuità, ho abbracciato una narrazione ottimista e falsata, finendo col credere che la situazione contingente fosse facilmente reversibile. Che bastasse, cioè, evidenziarne le problematiche ed i limiti, ed indicare possibili alternative, per innescare una volontà diffusa di trasformazione.
Al contrario (come ho finalmente, troppo tardi, realizzato), il sistema attuale è il risultato di volontà ed azioni mirate, di investimenti economici, di interferenze culturali, di un concerto di interventi strettamente finalizzati a produrre esattamente il disastro attuale. È necessario un notevole investimento in termini di tempo, denaro ed energie per convincere le persone a sacrificare salute, incolumità fisica e qualità della vita. Un investimento massivo e pervasivo che, in ultima istanza, restituisce indietro reddito ed incremento del fatturato.
Questo risultato si è ottenuto martellando la popolazione con quello che può essere definito come un pensiero unico semplificato, appiattito e acritico. Una narrazione elaborata e capillare, veicolata attraverso ogni varietà di mass media, capace di farci percepire l’esistente come unica ragionevole possibilità, e parimenti di indurci ad ignorare e rigettare ogni possibile visione alternativa.
A posteriori, si sa, tutto appare più chiaro ed evidente. Se un modello economico è in grado di estrarre profitto per alcuni soggetti, genererà inevitabilmente ricadute negative per altri. Elemento chiave, nel successo del modello economico stesso, sono le modalità comunicative capaci di esaltarne le positività e, simmetricamente, far sparire le negatività dall’orizzonte percepito. In questo caso l’apparente neutralità o inevitabilità di determinate scelte finisce con l’essere parte integrante della mistificazione.
L’esclusione delle voci critiche dai canali comunicativi, l’enfatizzazione di vantaggi spesso effimeri o forieri di ulteriori sconquassi, la mistificazione sistematica, la ‘normalizzazione’ di fenomeni drammatici come l’incidentalità stradale o il degrado delle periferie, sono tutti elementi del processo di fabbricazione di una realtà percepita che, nell’intento di massimizzare i guadagni di chi ne controlla la narrazione, deve essere necessariamente slegata dalla realtà oggettiva. È parimenti indispensabile che una tale manipolazione non venga percepita.
Siamo stati indotti a credere che questo modello di sfruttamento economico fosse solo uno fra tanti scenari possibili, che si sarebbe potuto scardinare facendo appello all’intelligenza dei cittadini, che la prospettiva di una trasformazione dell’organizzazione urbana sarebbe stata accolta con curiosità ed interesse, ed avrebbe portato ad un tanto atteso ‘cambiamento’. Sul piano strettamente personale, in quest’illusione ci sono cascato dentro con tutti e due i piedi.
A distanza di cinque anni dalle elezioni, il Movimento 5 Stelle sembra aver perso la sua battaglia per imporre la propria volontà e visione politica all’apparato burocratico. Quello stesso apparato che, a norma di legge, avrebbe dovuto supportarne l’azione riformatrice, ha mantenuto ben saldo il timone contribuendo alla conservazione degli interessi e degli assetti preesistenti.
Trasporto pubblico e raccolta dei rifiuti annaspano, anche a causa dei limiti delle aziende partecipate, AMA ed ATAC, e sono due tra i cattivi risultati più evidenti dell’azione amministrativa. È facile gioco, per la stampa al soldo di palazzinari e potentati economici, far discendere da una responsabilità politica l’inefficienza di questi servizi. Per il resto ben poco è cambiato, dalla gestione del verde alle trasformazioni urbane, per tutta una serie di freni, ostacoli ed impasse abilmente gestiti dal comparto tecnico.
La prossima tornata elettorale si svolgerà, molto probabilmente, tra un centrodestra a guida leghista e un centrosinistra a guida PD, entrambi più che pronti a rimettere le mani sulla città e a nascondere, dietro una cortina fumogena di iniziative sociali e culturali (specifiche per ognuno), la distruzione del tessuto urbano e i favori alle diverse lobby economiche.
Quanto a me, in questi anni, quel poco che era nelle mie possibilità ho cercato di farlo. Purtroppo non è bastato, e nemmeno avrebbe potuto, muovendo da presupposti erronei. Non sono stato abbastanza accorto da comprendere che stavo agendo nel luogo, nel modo e nel momento sbagliati. Ho sprecato tempo ed energie, finendo col perdere lo slancio che mi animava, ed ancor più la convinzione.
Da ultimo pesa il dato anagrafico. Dopo aver trascorso decenni a lottare per ottenere solo briciole, per di più transitorie, quanto senso può avere continuare a sbattersi? In una prospettiva realistica si può sperare di ottenere, al più, troppo poco e troppo tardi. Un riallineamento delle priorità di vita appare necessario.
Ho appena iniziato ai seguire la registrazione del webinar “La progettazione della sicurezza stradale in ambito urbano”, organizzato da Polinomia in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia. È sempre un piacere ascoltare l’architetto Matteo Dondé, anche se questa volta, come mai prima, mi pesa addosso la disperante sensazione di aver buttato via altri anni preziosi.
Gli spunti sono tanti, a cominciare dalla frase “…qui togliere un posto auto può far cadere una giunta…” perché “…i cittadini si percepiscono come automobilisti”. È un concetto che non pare troppo strano. E in fondo non può apparire tale, vivendo da sempre dentro questa cultura. Eppure andrebbe ragionato! Come mai finiamo con l’identificarci, individualmente e collettivamente, con l’oggetto automobile ed il suo utilizzo?
La conclusione a cui sono giunto è che, nel corso degli anni, sia stata operata una sostituzione: alcune cose ci sono state tolte, altre ci sono state lasciate. Col risultato che, possedendo solo queste ultime, solo a queste ci siamo legati affettivamente, solo con queste ci siamo identificati Dal dopoguerra ad oggi ci sono stati chiesti sacrifici, lavoro, fiducia, ci sono stati tolti spazi per camminare, per giocare all’aria aperta, per socializzare, in cambio ci hanno riempito di denaro, di calcio, di automobili, di case perse nel nulla.
Chiaramente qualcuno ci ha guadagnato, altri ci hanno rimesso, noi tutti abbiamo perso moltissimo e siamo rimasti con in mano una manciata di perline colorate: scatole rotolanti a motore da dover cambiare ogni pochi anni (ma che bella l’automobile nuova, ci hanno raccontato), mentre diventavamo sempre più pigri, più sedentari, più tristi, più ignoranti e, inevitabilmente, più stupidi.
Deve essere stato relativamente facile far breccia in una popolazione ingenua e sprovveduta come la nostra, pompare modelli di autoaffermazione rudimentali ed egoistici, inondare il mercato di Fiat, di Ferrari, di Alfa Romeo, di Maserati, mostrarle sui giornali, nei libri, al cinema, in televisione, fino a consolidare una narrazione collettiva basata sull’individualismo ed il possesso di oggetti di status.
Quello che ci ritroviamo ora è un paese mummificato, aggrappato ad un feticcio che ingoia vite, risorse, natura e persone, senza più alcuna capacità di riottenere ciò che gli è stato tolto. Una popolazione che ha subìto una lobotomia frontale, e non ricorda più chi era, cosa aveva, cosa desiderava, ma vede ormai soltanto quello che ha sotto gli occhi uscendo di casa: un deserto di lamiere.
L’altra considerazione, ancora più amara, riguarda me, la mia generazione e tutti quelli che hanno cercato di arginare questa deriva. È evidente che abbiamo fallito, che nulla è cambiato. Comincio a pensare che il nostro errore sia stato un errore di scala. Un madornale errore di scala. Avremmo dovuto comprendere che il poco che riuscivamo ad ottenere, il pochissimo che ci veniva concesso, non solo non avrebbe cambiato la realtà in maniera significativa, ma nel complesso non avrebbe cambiato praticamente nulla.
A un certo punto della conferenza ho avuto un’epifania: mi sono visto di nuovo ai tempi della scuola, quando il maestro si stancava di insegnare e diceva a tutta la classe: “ora prendete l’album e le matite, e ciascuno faccia un disegno a piacere”. E come eravamo bravi a disegnare, quanto ci piaceva!
Da un certo punto di vista, stiamo facendo da anni la stessa cosa: disegnare un mondo di fantasia che non si avvererà mai. Non tanto perché non può avverarsi, quanto perché non deve. Ogni tanto qualcuno riceve un premio dal maestro, un bel voto, una pista ciclabile che fa il giro dell’isolato, destinata a decomporsi e cadere a pezzi insieme alle speranze che aveva suscitato. Ma poi che importanza ha? A quanti, nella vita, servirà saper disegnare?
Tutto il resto rimane immobile, paralizzato, inalterabile. D’altronde non siamo già al top? Siamo un modello per il mercato, abbiamo il massimo numero di automobili acquistate pro-capite. Spremere ancor più denaro dalle nostre tasche non deve sembrare possibile. La priorità, ad oggi, è che questa ‘bonanza’ non smetta. Che nulla cambi e che tutto resti com’è.
Quest’estate, tra covid ed altre beghe, io e mia moglie abbiamo optato per una vacanza in relativo relax, riuscendo a conciliare la sua passione per il mare con la mia per la bicicletta. Non potendo spostarci all’estero, dove questa forma di turismo è ben più sviluppata, e soprattutto non volendo imbarcarci in un viaggio itinerante in un paese, il nostro, che non ha attenzione per la sicurezza dei viaggiatori su due ruote, abbiamo cercato una destinazione ‘bike-friendly’. La scelta è infine caduta sulla Via Verde della Costa dei Trabocchi. Non essendo la ciclovia ancora completata, ragionando sui segmenti già operativi abbiamo stabilito di cercare alloggio in un punto intermedio del tratto fruibile più a nord, quello tra Ortona e Fossacesia, in modo da sfruttare il tracciato ciclabile per spostarci ogni giorno in una spiaggia diversa. La scelta è caduta su Marina di San Vito Chietino, dove abbiamo affittato un appartamento con affaccio sul mare a breve distanza dalla ciclovia.
La ciclovia Il percorso si snoda sul sedime dismesso della ferrovia Ortona-Vasto, il cui tracciato, a causa della continua erosione operata dal mare, è stato spostato più nell’entroterra. Dopo la rimozione dei binari si è scelto di destinare il sedime dismesso a pista ciclabile, realizzando un tappeto di asfalto e ristrutturando le gallerie. Sebbene il lavoro sia ancora incompleto e la ciclovia non interamente percorribile, allo stato attuale il tracciato risulta ugualmente molto fruibile, consentendo uno sfruttamento ottimale di un lungo tratto di costa prima reso difficilmente raggiungibile proprio dalla presenza della linea ferroviaria. Dal punto di vista ciclistico, pedalare in sicurezza a pochi metri dal mare, con gli affacci sulle spiaggette e sui trabocchi che si susseguono senza soluzione di continuità, rappresenta un’immersione nella bellezza difficilmente descrivibile. L’estrema regolarità del percorso, unita all’assenza di dislivelli tipica dei tracciati ferroviari, consente di chiacchierare amabilmente mentre si percorre la pista alla ricerca della spiaggia ideale. Unica nota dolente l’assenza di illuminazione delle gallerie, prevedibile considerando il fatto che non fossero ancora aperte al pubblico transito.
Situazioni problematiche A questo riguardo va detto che nei primi giorni della nostra vacanza abbiamo trovato diverse gallerie sbarrate da recinzioni… ostacoli che sono stati poi rimossi, apparentemente, ‘a furor di popolo’. Fatto prevedibile, dato che la domanda di mobilità ciclistica e pedonale, sulla tratta, si è dimostrata estremamente consistente. Gallerie che, nei primi giorni, risultavano sbarrate o di difficile accesso, a fine settimana venivano serenamente percorse da decine di bagnanti che non hanno ritenuto di dover attendere il collaudo di agibilità. Il tratto più affollato, e di gente a piedi più che di biciclette, è risultato proprio quello in prossimità del paese dove alloggiavamo. Mentre a Fossacesia la pista passa più lontano dal mare, ed il transito dei villeggianti si svolge sulle strade a ridosso della spiaggia, a Marina di San Vito i bagnanti provenienti dal borgo affollano il tracciato percorrendo a piedi la ciclovia anche per lunghi tratti. In prossimità di Ortona il rifacimento del fondo asfaltato non era ancora stato completato. Oltre a questo, la galleria detta dell’Acquabella, molto più lunga delle altre e con una curva a metà che impedisce di sfruttare la luce in entrata dal lato opposto, ha richiesto l’impiego di lampade per il transito (cosa che non ha ostacolato più di tanto il significativo viavai di ciclisti e pedoni in ogni occasione in cui l’abbiamo percorsa). Ad Ortona il sedime si riduce ad una pietraia e termina sotto uno svincolo stradale. Ho scoperto solo in seguito che il tracciato, ben sistemato, prosegue ancora oltre, ma le due tratte non sono al momento collegate. Dal lato opposto, oltre Fossacesia la ciclovia prosegue asfaltata ma in mezzo al verde, lontano dalla riva, fino a Torino di Sangro, poi per alcune centinaia di metri il sedime è di nuovo una pietraia sconnessa, fino al punto in cui è totalmente assente, franato a causa dell’aggressione dei marosi. Più oltre la ciclovia prosegue ancora fino a Vasto, ma la distanza da San Vito e l’impossibilità di riallacciarsi al tracciato senza percorrere tratti di strada fortemente trafficati ci hanno dissuaso dall’esplorazione.
Il mare La costa abruzzese, almeno nel tratto da noi esplorato, è risultata estremamente bella e pulita, oltreché ricca di pesci a farci compagnia nelle sessioni di snorkeling. Le spiagge sono quasi tutte a ciottoli, problema aggirabile con le apposite calzature ‘da scoglio’. Le uniche spiagge sabbiose le abbiamo trovate ad Ortona e Fossacesia. In alcuni punti, sugli scogli e nel fondale, abbiamo riscontrato la presenza di anemoni, che abbiamo avuto cura di evitare di toccare. In una singola nuotata ci ha fatto compagnia una medusa solitaria, che è stata molto bella da vedere… a debita distanza.
Dotazione logistica Sulle biciclette avevamo una coppia di borse da viaggio per trasportare il necessario: asciugamani, pranzo al sacco, maschere da sub ed una tendina aperta che ha degnamente sostituito il tradizionale ombrellone (potendo oltretutto richiudersi in un sacchetto di dimensioni poco superiori a quelle di un avambraccio), oltre alle suddette calzature da scoglio e ad una piccola telecamera con custodia impermeabile per le riprese subacquee.
Conclusioni Sicuramente una proposta di vacanza adatta alle esigenze di coppie e famiglie cui piaccia muoversi in bicicletta, senza doversi sobbarcare l’impegno di un vero cicloviaggio. La presenza di una abbondante offerta ristorativa in loco, di ottima qualità ed a prezzi contenuti, ci ha consentito di fare (quasi) del tutto a meno dell’automobile, la cui unica funzione è stata di portarci a destinazione e riportarci a casa, restando poi parcheggiata ed inutilizzata per l’intera settimana.
Perché non riusciamo davvero ad imporre una svolta, una trasformazione, alle nostre città? Perché gli interventi di ammodernamento procedono col contagocce, riuscendo a risultare insufficienti fin dal momento stesso del loro completamento? Perché, sostanzialmente, siamo immobilizzati in un eterno presente che si trascina, sempre più a fatica, dall’epoca del boom economico?
Il problema principale, per quel che posso vedere, consiste nel non aver mai realmente voluto fare i conti con le contraddizioni prodotte da un sistema di mobilità basato sull’automobile privata. Modello al quale siamo saldamente ed entusiasticamente incatenati, senza la minima possibilità di evadere.
Fin dal suo apparire l’automobile è stata narrata come un simbolo di modernità, di libertà, di affrancamento dalla fatica, e come tale è stata culturalmente metabolizzata. Un assunto privo di fondamento ma a tal punto martellato, ribadito, ripetuto, con ogni singolo strumento mediatico disponibile, da far sì che sia ormai percepito alla stregua di una realtà oggettiva, non discutibile, per la maggioranza di noi. Sebbene molti dei lati negativi prodotti della mobilità privata fossero evidenti in partenza, a cominciare dall’elevato tasso di mortalità stradale, si scelse di ignorarli.
Ora di tempo ne è trascorso parecchio, ed i problemi causati dalla fascinazione collettiva per l’automobile si sono andati accumulando, anziché risolversi. L’automobile, da simbolo di libertà di movimento, è diventata la causa prima della paralisi dei centri città, e già solo questa semplice evidenza dovrebbe indurre un ripensamento. Tuttavia il dibattito politico su questi temi è totalmente assente, e sempre lo è stato, a destra come a sinistra.
Il paese appare immobilizzato in una visione arcaica, immutata dagli anni ‘50, in cui l’automobile soddisfa un diritto alla mobilità individuale che gli organi istituzionali sono tenuti a garantire. Tale visione è attualmente portata avanti con maggior vigore, direi paradossalmente, proprio dai partiti di sinistra (PD in testa), che invece di preoccuparsi della qualità della vita dei cittadini si concentrano nel salvaguardare un indifendibile ‘diritto al possesso ed all’uso dell’automobile’.
Il principale appunto che devo fare all’amministrazione attuale, M5S, riguarda proprio la totale assenza di un dibattito pubblico su questi temi. Si è partiti a costruire infrastrutture ciclabili senza aver prima costruito una comprensione, un consenso popolare, senza aver spiegato adeguatamente per quali motivi le si stavano realizzando. Probabilmente illudendosi che una popolazione come la nostra, bombardata per decenni unicamente da propaganda a favore dell’automobile, avrebbe fatto da sé il salto culturale necessario.
Evidentemente ciò non è avvenuto, come dimostrano le discussioni sui social ed i comitati che quotidianamente si oppongono a qualsiasi intervento sulla viabilità. Quello che è stato ragionato e compreso, in realtà meno culturalmente fossilizzate della nostra (situate in prevalenza nel Nord Europa), è che proprio l’utilizzo dell’auto privata, anziché aumentare la capacità individuale di spostamento, rappresenta un collo di bottiglia per la mobilità dei cittadini all’interno degli spazi urbani.
Le automobili private ingombrano gli spazi pubblici, li rendono insicuri per pedoni, ciclisti ed utenti ‘deboli’ come anziani e disabili, intasano i corridoi stradali rallentando il trasporto pubblico, producono rumore ed inquinamento e richiedono sistemazioni (asfalto+cemento) che confliggono con la presenza di alberature, la cui ombra riduce il calore diurno rendendo le strade più piacevoli da vivere e da percorrere a piedi e in bicicletta.
Nelle realtà urbanisticamente più progredite si sta portando avanti un lavoro di progressiva riduzione degli spazi e dei servizi destinati alla mobilità privata, destinando quegli stessi spazi e servizi per usi pubblici: eliminazione di sosta e parcheggio, riduzione delle possibilità di transito in aree particolarmente affollate (pedonalizzazioni, ZTL e ‘zone 30’), limitazione, mediante tariffazione, degli accessi alle aree centrali.
Il nuovo paradigma della città moderna punta il focus sulla mobilità dei cittadini, non dei veicoli, mettendo al centro gli spostamenti delle persone anziché delle automobili. E dove si colloca l’Italia in questo processo? In coda, evidentemente. Il percorso di elaborazione culturale sulla compatibilità tra spazio pubblico e mobilità privata qui non è mai iniziato: siamo fermi, saldamente inchiavardati ad una visione vecchia di settant’anni, che vuole l’automobile al centro della vita urbana.
L’ideologia della modernità, che l’automobile ha incarnato fin dalla sua comparsa, ha tra i suoi pilastri fondanti l’idea che ad ogni problema si troverà soluzione, in un futuro più o meno lontano, grazie ad invenzioni non ancora disponibili al momento attuale. Gli ideologi del futuro dell’automobile stanno riempendo le proprie narrazioni di veicoli futuristici, auto a guida autonoma, elettriche, ad idrogeno, cercando ostinatamente di nascondere l’evidenza.
L’evidenza, inconfutabile, che l’automobile stessa è un mezzo di trasporto obsoleto ed antimoderno, noto per causare più problemi di quanti ne risolva e tale da contribuire pesantemente al degrado dei centri urbani. Non a caso, le città dove si vive peggio, nel mondo, sono proprio quelle dove circolano più automobili.
Quando riusciremo a sbarazzarci di questa visione stantia e disfunzionale della vivibilità urbana? La sensazione è che passeranno altri decenni. Il dominio economico del comparto automotive sui mass media è evidente, e tanto basta a mettere la sordina alle voci in grado di produrre un cambiamento culturale. La macchina statale è totalmente appiattita e complice, destinando fondi pubblici ad una varietà infinita di incentivi e sovvenzioni all’attuale sistema di produzione e mobilità. La politica tace o balbetta.
Il patto faustiano siglato dall’Italia col culto dell’auto privata, e firmato col sangue delle vittime della strage stradale, non sarà certo annullato per scelta della mefistofelica controparte, né combattuto da una classe politica incapace di vedere al di là del proprio naso né, in ultima istanza, sciolto da una volontà popolare che appare, ancora oggi, totalmente assente e distratta.
Approfittando in parte del ponte del 29 giugno, io ed Emanuela siamo riusciti a coronare un sogno che inseguivamo da lungo tempo: effettuare il primo viaggio in bici con nostra figlia, che al momento ha otto anni e mezzo. La meta (l’unica praticabile individuata fin qui) è stata l’Umbria, per la precisione la ciclovia Spoleto–Assisi. Requisito essenziale: evitare di percorrere tratti su strade destinate al traffico veicolare.
Per ovvie esigenze logistiche, il tracciato di 50km è stato spezzato in due tratte, inframmezzate da un pernotto in agriturismo a Bevagna. A parte il caldo siamo stati molto bene (un po’ di foto le potete trovare in coda a questo post), ma abbiamo dovuto fronteggiare tutta una serie di problemi e complicazioni dovuti al mancato sviluppo della ciclabilità in questo paese. Problemi di cui non eravamo pienamente consapevoli, e di cui abbiamo avuto contezza solo in seguito alla decisione di intraprendere un cicloviaggio in compagnia di un minore.
Emanuela ed io siamo abituati a gestire le problematiche di un viaggio in bicicletta, e sappiamo bene che non è mai semplice. Lei è molto brava nella fase organizzativa, io risulto più efficace nella soluzione di problemi immediati e nella gestione meccanica delle biciclette. Questo ci ha consentito di percorrere itinerari in molti paesi diversi, dalla Spagna all’Albania, dalla Repubblica Ceca al Canada, affrontando e risolvendo le diverse problematiche man mano che ci si presentavano.
Quello che abbiamo realizzato, nel provare a ripetere le stesse esperienze assieme a nostra figlia, è stata la quantità di difficoltà, fatica inutile e stress che vengono stolidamente scaricate sulle spalle di chi voglia anche solo provare un’esperienza di questo tipo. E quel che è peggio (siccome sono solito associare il mio muovermi su ruote alla condizione dei disabili motori), quale assurda mole di problemi e difficoltà finisca ad opprimere la vita di persone che, a differenza di noi ciclisti, non hanno possibilità di scelta.
Ma veniamo alla nostra esperienza. La prima questione da risolvere per percorrere un itinerario in bici riguarda il raggiungimento del punto di partenza, che richiede per solito il trasporto su vettori a lunga percorrenza. Per raggiungere le zone dell’Umbria interessate dalla ciclovia i treni regionali sono una valida alternativa, quindi il problema si riduce all’arrivare alla stazione di partenza (nel nostro caso Termini). Si ‘riduce’ per modo di dire, non risiedendo noi nelle immediate prossimità.
L’idea di spostarci fino alla stazione direttamente in bicicletta è stata valutata e scartata per l’assenza di percorsi ciclabili sicuri per una bambina di otto anni pedalante in autonomia. La distanza sarebbe anche breve (6 km circa), ma l’impossibilità di evitare tratti di strade trafficate ci costringe ad escludere questa ipotesi. Un problema che, avendo fin qui viaggiato solo in due, non ci eravamo mai posti.
L’assenza di percorsi ciclabili ci fa optare per il trasporto pubblico. Scegliamo quindi di utilizzare la linea Metro A salendo a Porta Furba e scendendo a Termini. Ora il problema si riduce al raggiungere la vicina stazione della metropolitana, che dista da casa nostra meno di 500 metri. Anche così, l’assenza di un percorso ciclabile in sicurezza ci obbliga ad utilizzare i marciapiedi, stretti, malandati ed ingombri di erbacce e spazzatura, per condurre in sicurezza la nostra bimba fino al treno.
In questo caso la difficoltà è minima, essendo la ragazza avvezza ad utilizzare tale tracciato per raggiungere i parchi dove siamo soliti portarla a sgambettare in sella alla sua bici. Nondimeno ci basta mettere il naso fuori dal portone per precipitare in uno status di “cittadinanza di serie B”, una consapevolezza che non ci lascerà più fino al rientro a casa.
Arrivati alla stazione di Porta Furba il secondo problema da risolvere è come raggiungere il treno, ci ritroviamo davanti delle rampe di scale. Anche questa non è una novità, essendo la situazione immutata da che vivo in questo quartiere (la metà degli anni ottanta, o 35 anni fa…). La stazione non ha rampe di discesa né ascensori, benché sia consentito l’accesso delle bici per il trasporto sui treni. Di norma mettersi una bici in spalla e scendere le scale non rappresenta un grosso sforzo, ma in questo caso abbiamo due bici da adulto, di cui una caricata con le borse da viaggio, più la bici della bambina (che non è evidentemente in grado di portarla giù da sola).
Inizia quindi un via vai in cui le bici vengono portate giù, una rampa di scale alla volta, quindi fatte passare per i tornelli, quindi ancora scese al piano inferiore, al livello della banchina del treno. E nel far questo sbocciano in testa tutta una serie di domande. Per esempio, perché non esistono rampe a scivolo ma solo scale?
Quarant’anni fa non esistevano i disabili in carrozzina? Non esistevano le mamme coi passeggini? Evidentemente sì! E allora perché nessuno ha pensato ad implementare una soluzione tecnologica che la nostra specie padroneggia perlomeno da tutto il neolitico: il piano inclinato? Quale era l’intenzione dietro una simile dimenticanza? E, seconda domanda, perché in un arco quarantennale dall’apertura del servizio, non si è stati in grado di risolvere questa grave mancanza? Mistero!
Saliamo quindi sul treno, dove (ovviamente!) non ci sono spazi predisposti al posizionamento delle biciclette, nonostante il trasporto sia consentito ormai da oltre un decennio. Anche qui ci viene ricordato che siamo cittadini di serie B: ospitati, tollerati, non emarginati, ma ancora privi di un pieno status di diritto. Ed obbligati a stare in piedi, a reggere le nostre biciclette che potrebbero andare in giro se non tenute, soggetti a sguardi di disprezzo e disapprovazione da parte degli altri passeggeri.
Scendiamo a Termini ed inizia un altro pellegrinaggio per raggiungere la banchina dei treni. Nostra figlia ha paura degli ascensori, e in ogni caso non credo possa entrarci la bici con le borse montate, quindi affrontiamo impavidi la sfida delle scale mobili. Su questo va fatto un ulteriore appunto. Nel 2002, durante un viaggio in Germania, mi resi conto che il trasporto delle bici sulle scale mobili era considerato assolutamente normale. Intere comitive di attempati cicloturisti, uomini e donne, con bici robuste e cariche di bagagli, le utilizzavano senza pensarci due volte avendo l’unica accortezza di tenere i freni tirati durante il trasporto.
In Italia, invece, il trasporto delle bici sulle scale mobili è sistematicamente vietato. Con tutta evidenza i nostri normatori, oltre a non avere la minima cognizione di cosa siano le biciclette (perché dovrebbero, poi… il trasporto intermodale è molto meno noto del teletrasporto di Star Trek!), evidentemente non ritengono il cervello degli italiani abbastanza sviluppato da poter padroneggiare una gestualità complessa come il tirare i freni della bici mentre si viaggia su una scala mobile.
Una modalità comportamentale talmente articolata e difficile da gestire che, incredibile a dirsi, nostra figlia di otto anni è riuscita a mettere in atto immediatamente e con successo. Da ciò desumo che la nostra famiglia sia composta da esemplari di popolazione del tutto eccezionali. Il morale ci si risolleva brevemente, solo per scontrarsi con la consapevolezza che stiamo comunque commettendo un’illegalità, resa obbligata dal nostro status di cittadini di serie B.
Ulteriori evitabili vicissitudini nell’acquisto dei biglietti (app malfunzionanti, emettitrici malfunzionanti…) ritardano il nostro accesso al treno. Sappiamo già che il piano delle vetture è rialzato e richiede la salita di gradini (e anche qui, gli sconosciuti piani inclinati, tecnologia persa nella transizione dal neolitico alla modernità) ed un simpatico cartello che vieta l’accesso al vano bici. Sistemiamo le bici in altri spazi, assieme ad una piccola comitiva di ciclisti, solo per farci riprendere dal capotreno, che le fa spostare nuovamente nella vettura semipilota.
Facciamo presente la contraddizione col cartello di divieto, che viene liquidata con la frase: “il divieto sta lì sennò ci entrano tutti”. Poteva essere individuata una soluzione più chiara? Ovviamente sì. Meritiamo noi ciclisti, in quanto clienti paganti, che tale soluzione venga messa in atto? Ovviamente no. Hai visto mai finissimo col considerarci cittadini di serie A…
Il viaggio procede, a velocità supersonica in uscita da Roma, poi a velocità di calesse del Far West man mano che ci si addentra tra le colline umbre. Stavolta condividiamo la percezione di utenza negletta estesa a tutti gli utenti del trasporto regionale, e ci stringiamo in un fraterno abbraccio ai pendolari del trasporto regionale, i cui diritti sono stati sacrificati allo sviluppo dell’alta velocità, che consente ai supermanager di rinunciare all’aereo per andare da Roma a Milano, ma nulla può per chi deve recarsi a Perugia. O meglio può, in negativo, condannarti all’arretratezza di materiale ferroviario ed orari da dopoguerra.
Scendiamo dal treno e dobbiamo affrontare un nuovo problema: trovare l’imbocco della ciclovia. Che, inutile dirlo, non si collega alle due stazioni di partenza e di arrivo per evitare, è l’unica ipotesi che mi viene in mente, di attirare eccessivi flussi turistici. Comincia a materializzarsi nella mia testa l’idea che, in fondo in fondo, lo sviluppo di un settore che altrove muove miliardi di euro qui non interessi proprio. Meglio fingere di aver fatto qualcosa, che ritrovarsi a dover gestire un’opportunità reale.
E se poi la cosa funzionasse? Se poi in tanti decidessero di esplorare questa modalità di vacanza come facciamo noi? Sarebbe il disastro, un sistema al collasso! Bisognerebbe modificare i treni per accogliere più ciclisti, far sorgere strutture ristorative e ricettive, soddisfare le richieste di un pubblico pagante ed esigente. Invece si fa il possibile per non far nulla, continuare a campare di produzioni agricole sovvenzionate dallo stato e dalla comunità europea. Vivacchiare e lamentarsi, lamentarsi e vivacchiare.
Per trovare la ciclabile ricorriamo alla rete internet, che ospita i tracciati di chi ha già percorso la pista, oltre alle mappe satellitari ed alle viste del livello stradale. Tutte informazioni ricavate da servizi commerciali, niente di niente prodotto dallo stato italiano. Riusciamo così, perlomeno, a muoverci con relativa sicurezza ed a lasciare il prima possibile il vialone trafficato che ci accoglie all’uscita dello scalo. Anche qui dobbiamo accollarci le bici per superare due rampe di scale risalenti all’età del ferro, epoca in cui la tecnologia del piano inclinato si era evidentemente già perduta.
Consumiamo un frugale ma gustosissimo panino al bicigrill “Le Mattonelle”, unici avventori, quindi ci immettiamo sulla sede ciclabile, unici fruitori. La ‘ciclovia’ attraversa aree agricole lontano da paesi, città e altre vie di comunicazione. Nei trenta chilometri che separano Spoleto da Bevagna non incontriamo nulla, né un paese, né un bar, né una fontanella d’acqua.
Come il piano inclinato, le opere idriche sono un’invenzione del neolitico, ma sebbene il tracciato viaggi in gran parte sugli argini rilevati di fiumi e canali, realizzazioni tipiche delle antiche civiltà idrauliche, le opere idriche più moderne come le fontane distributrici di acqua potabile non sono presenti. E non stiamo parlando dell’Appalachian Trail, ma di un territorio fortemente antropizzato fin dall’antichità, costeggiato da case che hanno sicuramente una fornitura di acqua potabile. Quando si dice la non volontà. Altra opportunità di offerta turistica ad un pubblico europeo pagante e motivato che se ne va in fumo.
In realtà una manciata fontanelle d’acqua basterebbero ad attirare l’utenza locale, ma è la brevità del tracciato il limite maggiore perché il percorso funga da attrattore per un pubblico europeo. Quando, trent’anni fa, partii da Roma per il mio primo ciclo-viaggio sulla Ciclabile del Danubio la prospettiva era di percorrere 400km in una settimana o poco più. Non sarei andato all’estero con l’idea di percorrere 50km in serenità per poi ritrovarmi abbandonato in balìa di strade trafficate e stili di guida assassini, in assenza di qualsiasi indicazione e/o segnalazione.
Ma il bello è che le rive ed i canali sui quali si sviluppa il percorso Assisi-Spoleto rientrano nel bacino fluviale del Tevere, che qualche centinaio di km più a sud sfocia accanto a casa mia. In un altro paese, in un’altra cultura, in un’altra civiltà, la Ciclovia del Tevere sarebbe realtà già da decenni, e muoverebbe quotidianamente molti più visitatori di quella del Danubio, perché il nostro patrimonio di storia, arte e cultura è di un ordine di grandezza superiore al loro. Purtroppo non lo è la nostra lungimiranza.
“Se fossimo in Germania” ragionavo con Emanuela sul treno del ritorno “la ciclovia del Tevere esisterebbe già da trenta o quarant’anni. Avrebbero portato noi, ad otto anni, a percorrerla in bici. Invece nostra figlia deve ancora oggi accontentarsi di un mozzicone qua e uno là”.
Quindi andiamo, fra paesaggi piacevolissimi, con una bambina entusiasta dell’esperienza mai vissuta prima, mentre l’acqua fresca nei termos finisce, e ci lascia a dissetarci (per modo di dire) con quella delle borracce, calda come il té ed al retrogusto di plastica, finché non finiamo anche quella… per fortuna in prossimità della tappa intermedia di Bevagna. Altro appunto per il prossimo viaggio, per noi ciclisti cazzuti e determinati, cittadini di serie B: portare più acqua fresca all’interno di contenitori termici, che dovremo procurarci a nostre spese e finiranno con lo zavorrare ancora di più il bagaglio (check!).
Ripartiamo da Bevagna la mattina successiva, per la tappa finale di 20km fino ad Assisi. In questo tratto la pista è ancora ben tracciata e sfrutta diversi argini, ma il fondo è spesso in terra battuta e macadam, e l’ombra manca quasi del tutto. L’ultima incognita riguarda il tratto finale. Le varie ‘tracce’ (in formato GPX) trovate in rete finiscono col percorrere, in prossimità della stazione, tratti su strade pesantemente trafficate. Le verifiche effettuate con Google Maps e lo strumento Street View confermano le mie preoccupazioni.
Prima della partenza mi sono messo quindi a verificare un nuovo tracciato in grado di evitare la maggior parte dei problemi, con l’inclusione di alcuni marciapiedi ed un brevissimo tratto contromano su una stradina secondaria. Il percorso si è quindi rivelato sicuro ed efficacissimo (per gli interessati lo condivido QUI, mentre la traccia GPX può essere scaricata da QUI), ma ancora una volta ho la sensazione di esser stato abbandonato a risolvere da solo un problema non banale come la sicurezza di una bambina in bicicletta.
Quanto poteva essere complicato portare la ciclabile fino alla stazione del treno? Perché non è stato fatto? Che idea di fruizione avevano in testa quelli che l’hanno realizzata? Come potranno regolarsi altri cicloviaggiatori, privi della mia esperienza trentennale nella tracciatura di percorsi in bici? L’unica cosa certa è a chi sarà data la colpa per eventuali incidenti occorsi ai ciclisti finiti su strade pericolose: a chi si sarà fatto male.
E arriviamo così al gran finale. Siamo in stazione, i pannelli informativi sono guasti, i treni non vengono annunciati e non abbiamo modo di sapere con certezza su quale binario passerà il treno. Non è un problema da poco, perché il treno passerà probabilmente sul binario 2, che è raggiungibile solo attraverso un sottopasso, indovinate un po’, con le scale!
Quindi se il treno arriva e siamo sul binario sbagliato ci toccherà fare una corsa su e giù per le scale, con tre biciclette e due borse da viaggio, quindi raggiungere la testa (o la coda) del treno, perché in trent’anni da che il servizio è in funzione questa preziosa informazione si ottiene solo nel momento in cui il treno entra nella stazione, distinguendo a vista la motrice dalla vettura semipilota, non prima. Potenza delle tecnologie informatiche!
Mi allungo con la mia bici zavorrata in cerca di un attraversamento a raso, lo trovo ad un’estremità della stazione, presidiato da un cartello che afferma “Vietato l’accesso agli estranei al servizio”. Che vorrà dire? Il servizio è evidentemente il servizio di trasporto passeggeri, a cui non sono estraneo in quanto fruitore del servizio stesso. Concludo che, per quanto posso desumere dalla conoscenza della lingua italiana, il cartello non mi impedisce di passare.
Mia moglie e mia figlia sono intanto transitate, di propria sponte, dal sottopasso pedonale. Emanuela mi domanda quanto sia complicato predisporre delle canaline per la discesa delle biciclette a fianco delle scale. La complicazione è nulla, basterebbe volerlo fare. In trent’anni Ferrovie dello Stato, poi Trenitalia/RFI, non è riuscita a volerlo fare. E penso che continuerà a non volerlo fare, come continuerà a vivere con fastidio la presenza e le sacrosante richieste dei propri passeggeri/clienti.
Alla fine il treno arriva, e la semipilota, col suo vano bici, si ferma ovviamente lontanissimo da noi, che siamo rimasti al centro della banchina non potendo sapere da che lato correre una volta che la posizione esatta si fosse disvelata. Saliamo in sella alle bici e commettiamo l’ultimo strappo alle regole, pedalando sulla banchina per evitare di far tardare il treno (o di rimanere chiusi fuori). È una forma di maltrattamento alla quale ho fatto il callo, vivendola da trent’anni sulla mia pelle.
Lo so che c’è, so anche che non posso farci niente, come niente ha potuto farci la FIAB o altre realtà che si sono attivate per la promozione del cicloturismo e dell’uso della bicicletta. Ripenso ai vagoni attrezzati dell’Austria, della Svizzera, della Germania, esempi di una civiltà che qui non meritiamo, che possiamo solo sognare. Quindi ci adagiamo sui sedili per il ritorno, consapevoli che a Termini ci attendono altre scale mobili, altri disguidi (il lettore contactless che non accetta di farmi pagare due biglietti con la stessa carta, per dire…), altre rampe di scale alla stazione di uscita, altri marciapiedi invasi dalla spazzatura.
Ne è valsa la pena? Sì, ne è valsa la pena, per trovarsi immersi nei paesaggi della campagna umbra, per la gioia di mia figlia, per la passeggiata serale a Bevagna, per gli aironi, per i girasoli, per la Porziuncola ad Assisi. Ma se “uno su mille ce la fa”, gli altri novecentonovantanove sono persi per strada, fiaccati e dissuasi dall’infinita sequenza di ostacoli da superare, dal bullismo di Trenitalia/RFI, dall’indifferenza delle istituzioni, dall’ignavia dell’italica plebe.
Possibile che tutto questo sia solo l’effetto di incapacità e cialtroneria? Fatico a crederlo. Siamo un popolo molto brillante nel perseguire gli interessi personali. Guadagnar soldi sviluppando forme di turismo sostenibile non deve rientrare tra gli interessi della politica o delle dirigenze dei grandi servizi di stato.
E d’altronde perché dovrebbe? Dirigenti e dipendenti continuano a percepire stipendi e benefit anche se il servizio declina da decenni. La politica si riempe la bocca di interventi appariscenti ed effimeri, non supportati da manutenzione o piani di sviluppo. I cittadini si bevono quello che passa il convento, così si risparmiano la fatica di pensare e combattere.
Restiamo noi, ridotti a quattro gatti, umiliati e spelacchiati, pronti ad affrontare una corsa ad ostacoli di cui non si vede la fine pur di ottenere quello che ci siamo intestarditi a volere: una pedalata nella natura, sotto al sole, l’aria pulita, il profumo della libertà.
Il racconto di Richard Matheson “Io sono leggenda” riemerge periodicamente nelle mie riflessioni. La vicenda propone un rovesciamento del tema classico della lotta tra uomini e mostri: il protagonista si ritrova a fronteggiare, da solo, l’epidemia di un morbo che rende le persone simili a vampiri. Di notte si barrica in casa, di giorno gira per la città uccidendo i mostri addormentati.
Col passare del tempo, però, emerge una nuova civiltà composta da semi-vampiri, esseri notturni con le proprie leggi, abitudini, regole e leggende. In una di queste leggende si racconta di una creatura da incubo, che si nasconde di notte ed esce di giorno per uccidere le persone nel sonno. Il nostro protagonista realizza solo a quel punto di non essere più un ‘cacciatore di mostri’. Nel nuovo mondo il mostro è lui, è lui la ‘leggenda’.
Perché una storia immaginaria mi risulta tanto inquietante? Come si lega questo racconto al mio vissuto personale? Di fondo il protagonista soffre di una errata percezione della realtà. Vorrebbe salvare il mondo, ma vive in un mondo che non vuole essere salvato, un mondo che vuole solo essere lasciato in pace.
Traducendo la vicenda dalla metafora alla realtà possiamo descrivere l’errore del personaggio come un ‘pregiudizio cognitivo’, nello specifico di quello che viene definito come ‘bias di proiezione’ (traggo la definizione da qui: https://www.stateofmind.it/tag/bias/)
Bias di proiezione: (…) pensiamo che la maggior parte delle persone la pensi come noi. Questo errore cognitivo si correla al bias del falso consenso per il quale riteniamo che le persone non solo la pensino come noi, ma anche che siano d’accordo con noi! In sostanza è unbias cognitivo che ci induce a sopravvalutare la “normalità” e la “tipicità”.
La vicenda del protagonista riecheggia, in chiave di metafora, il mio personale tentativo di ‘salvare il mondo’ dal traffico, dall’inquinamento e dall’incidentalità stradale (in ultima istanza dal consumismo), ed offre una chiave di lettura alla conseguente percezione di una assenza di progressi in tal senso. Il dubbio, riferito a me, è che il ‘bias di proiezione’ abbia offuscato fin dall’inizio la mia lettura della realtà, inducendomi a proiettare sull’intera popolazione esigenze che erano, di fondo, soltanto mie e di pochi altri.
Come Cicloattivisti abbiamo combattuto per decenni i ‘mostri’ del traffico, dell’incidentalità, dell’inquinamento, senza renderci pienamente conto che il mondo era, ed è tutt’ora, un mondo di mostri, nel quale queste ‘mostruosità’ vengono percepite come naturali, necessarie, inevitabili. E che questo è il loro mondo, non il nostro. Il mondo che i mostri vogliono, mentre del nostro non sanno cosa farsene.
Quelli che, semplificando, chiamo mostri, ovviamente percepiscono se stessi come ‘normali’, mentre i ‘mostri’ che li tormentano sono quelli come me, come noi, che vogliono costringerli a cambiare abitudini di vita, a spostarsi in bicicletta, a fare sport, a sudare, che vogliono togliergli il posto auto sotto casa, che vogliono pedonalizzare le strade, che vogliono donar loro un ‘benessere’ che essi non possono, o non vogliono, comprendere.
Una tale consapevolezza solleva questioni pesanti. La battaglia cicloattivista non è più descrivibile come una lotta di liberazione, perché la maggioranza dei cittadini non vuole essere liberata. “We don’t want freedom, we don’t want justice” (trad.: non vogliamo libertà, non vogliamo giustizia), facevano dire i Talking Heads all’abitante tipo della provincia americana, impersonato da John Goodman nel film True Stories.
Alla luce di quest’analisi, perfino i pochi risultati che abbiamo ottenuto fin qui non sono descrivibili come conquiste, ma piuttosto come imposizioni, dal momento che la maggior parte dei cittadini non li desidera. Non vogliono piste ciclabili ed aree pedonali, non vogliono trasformazioni. Il ‘cittadino medio’ è abituato a questa realtà, e non vuole cambiarla. Magari la desidera un po’ più ordinata, un po’ più pulita, un po’ più ‘decorosa’, ma non diversa.
Pertanto l’unica speranza di conservare e rendere permanenti i piccoli pezzetti di trasformazione che siamo riusciti ad ottenere è che col tempo riescano a farsi normalità. Ma a quelli come me anche questo non basterà. Non possiamo fermarci, non possiamo accontentarci.
Noi siamo i ‘mostri’ che sfidano la normalità, incapaci di farsi bastare ciò che passa il convento. Siamo solitari e fastidiosi, a tramare per sovvertire lo status quo deciso dai meccanismi macroeconomici. Noi siamo quelli sbagliati. Noi siamo ‘leggende’.