La corsa ad ostacoli del cicloturismo italiano

Approfittando in parte del ponte del 29 giugno, io ed Emanuela siamo riusciti a coronare un sogno che inseguivamo da lungo tempo: effettuare il primo viaggio in bici con nostra figlia, che al momento ha otto anni e mezzo. La meta (l’unica praticabile individuata fin qui) è stata l’Umbria, per la precisione la ciclovia SpoletoAssisi. Requisito essenziale: evitare di percorrere tratti su strade destinate al traffico veicolare.

Per ovvie esigenze logistiche, il tracciato di 50km è stato spezzato in due tratte, inframmezzate da un pernotto in agriturismo a Bevagna. A parte il caldo siamo stati molto bene (un po’ di foto le potete trovare in coda a questo post), ma abbiamo dovuto fronteggiare tutta una serie di problemi e complicazioni dovuti al mancato sviluppo della ciclabilità in questo paese. Problemi di cui non eravamo pienamente consapevoli, e di cui abbiamo avuto contezza solo in seguito alla decisione di intraprendere un cicloviaggio in compagnia di un minore.

Emanuela ed io siamo abituati a gestire le problematiche di un viaggio in bicicletta, e sappiamo bene che non è mai semplice. Lei è molto brava nella fase organizzativa, io risulto più efficace nella soluzione di problemi immediati e nella gestione meccanica delle biciclette. Questo ci ha consentito di percorrere itinerari in molti paesi diversi, dalla Spagna all’Albania, dalla Repubblica Ceca al Canada, affrontando e risolvendo le diverse problematiche man mano che ci si presentavano.

Quello che abbiamo realizzato, nel provare a ripetere le stesse esperienze assieme a nostra figlia, è stata la quantità di difficoltà, fatica inutile e stress che vengono stolidamente scaricate sulle spalle di chi voglia anche solo provare un’esperienza di questo tipo. E quel che è peggio (siccome sono solito associare il mio muovermi su ruote alla condizione dei disabili motori), quale assurda mole di problemi e difficoltà finisca ad opprimere la vita di persone che, a differenza di noi ciclisti, non hanno possibilità di scelta.

Ma veniamo alla nostra esperienza. La prima questione da risolvere per percorrere un itinerario in bici riguarda il raggiungimento del punto di partenza, che richiede per solito il trasporto su vettori a lunga percorrenza. Per raggiungere le zone dell’Umbria interessate dalla ciclovia i treni regionali sono una valida alternativa, quindi il problema si riduce all’arrivare alla stazione di partenza (nel nostro caso Termini). Si ‘riduce’ per modo di dire, non risiedendo noi nelle immediate prossimità.

L’idea di spostarci fino alla stazione direttamente in bicicletta è stata valutata e scartata per l’assenza di percorsi ciclabili sicuri per una bambina di otto anni pedalante in autonomia. La distanza sarebbe anche breve (6 km circa), ma l’impossibilità di evitare tratti di strade trafficate ci costringe ad escludere questa ipotesi. Un problema che, avendo fin qui viaggiato solo in due, non ci eravamo mai posti.

L’assenza di percorsi ciclabili ci fa optare per il trasporto pubblico. Scegliamo quindi di utilizzare la linea Metro A salendo a Porta Furba e scendendo a Termini. Ora il problema si riduce al raggiungere la vicina stazione della metropolitana, che dista da casa nostra meno di 500 metri. Anche così, l’assenza di un percorso ciclabile in sicurezza ci obbliga ad utilizzare i marciapiedi, stretti, malandati ed ingombri di erbacce e spazzatura, per condurre in sicurezza la nostra bimba fino al treno.

In questo caso la difficoltà è minima, essendo la ragazza avvezza ad utilizzare tale tracciato per raggiungere i parchi dove siamo soliti portarla a sgambettare in sella alla sua bici. Nondimeno ci basta mettere il naso fuori dal portone per precipitare in uno status di “cittadinanza di serie B”, una consapevolezza che non ci lascerà più fino al rientro a casa.

Arrivati alla stazione di Porta Furba il secondo problema da risolvere è come raggiungere il treno, ci ritroviamo davanti delle rampe di scale. Anche questa non è una novità, essendo la situazione immutata da che vivo in questo quartiere (la metà degli anni ottanta, o 35 anni fa…). La stazione non ha rampe di discesa né ascensori, benché sia consentito l’accesso delle bici per il trasporto sui treni. Di norma mettersi una bici in spalla e scendere le scale non rappresenta un grosso sforzo, ma in questo caso abbiamo due bici da adulto, di cui una caricata con le borse da viaggio, più la bici della bambina (che non è evidentemente in grado di portarla giù da sola).

Inizia quindi un via vai in cui le bici vengono portate giù, una rampa di scale alla volta, quindi fatte passare per i tornelli, quindi ancora scese al piano inferiore, al livello della banchina del treno. E nel far questo sbocciano in testa tutta una serie di domande. Per esempio, perché non esistono rampe a scivolo ma solo scale?

Quarant’anni fa non esistevano i disabili in carrozzina? Non esistevano le mamme coi passeggini? Evidentemente sì! E allora perché nessuno ha pensato ad implementare una soluzione tecnologica che la nostra specie padroneggia perlomeno da tutto il neolitico: il piano inclinato? Quale era l’intenzione dietro una simile dimenticanza? E, seconda domanda, perché in un arco quarantennale dall’apertura del servizio, non si è stati in grado di risolvere questa grave mancanza? Mistero!

Saliamo quindi sul treno, dove (ovviamente!) non ci sono spazi predisposti al posizionamento delle biciclette, nonostante il trasporto sia consentito ormai da oltre un decennio. Anche qui ci viene ricordato che siamo cittadini di serie B: ospitati, tollerati, non emarginati, ma ancora privi di un pieno status di diritto. Ed obbligati a stare in piedi, a reggere le nostre biciclette che potrebbero andare in giro se non tenute, soggetti a sguardi di disprezzo e disapprovazione da parte degli altri passeggeri.

Scendiamo a Termini ed inizia un altro pellegrinaggio per raggiungere la banchina dei treni. Nostra figlia ha paura degli ascensori, e in ogni caso non credo possa entrarci la bici con le borse montate, quindi affrontiamo impavidi la sfida delle scale mobili. Su questo va fatto un ulteriore appunto. Nel 2002, durante un viaggio in Germania, mi resi conto che il trasporto delle bici sulle scale mobili era considerato assolutamente normale. Intere comitive di attempati cicloturisti, uomini e donne, con bici robuste e cariche di bagagli, le utilizzavano senza pensarci due volte avendo l’unica accortezza di tenere i freni tirati durante il trasporto.

In Italia, invece, il trasporto delle bici sulle scale mobili è sistematicamente vietato. Con tutta evidenza i nostri normatori, oltre a non avere la minima cognizione di cosa siano le biciclette (perché dovrebbero, poi… il trasporto intermodale è molto meno noto del teletrasporto di Star Trek!), evidentemente non ritengono il cervello degli italiani abbastanza sviluppato da poter padroneggiare una gestualità complessa come il tirare i freni della bici mentre si viaggia su una scala mobile.

Una modalità comportamentale talmente articolata e difficile da gestire che, incredibile a dirsi, nostra figlia di otto anni è riuscita a mettere in atto immediatamente e con successo. Da ciò desumo che la nostra famiglia sia composta da esemplari di popolazione del tutto eccezionali. Il morale ci si risolleva brevemente, solo per scontrarsi con la consapevolezza che stiamo comunque commettendo un’illegalità, resa obbligata dal nostro status di cittadini di serie B.

Ulteriori evitabili vicissitudini nell’acquisto dei biglietti (app malfunzionanti, emettitrici malfunzionanti…) ritardano il nostro accesso al treno. Sappiamo già che il piano delle vetture è rialzato e richiede la salita di gradini (e anche qui, gli sconosciuti piani inclinati, tecnologia persa nella transizione dal neolitico alla modernità) ed un simpatico cartello che vieta l’accesso al vano bici. Sistemiamo le bici in altri spazi, assieme ad una piccola comitiva di ciclisti, solo per farci riprendere dal capotreno, che le fa spostare nuovamente nella vettura semipilota.

Facciamo presente la contraddizione col cartello di divieto, che viene liquidata con la frase: “il divieto sta lì sennò ci entrano tutti”. Poteva essere individuata una soluzione più chiara? Ovviamente sì. Meritiamo noi ciclisti, in quanto clienti paganti, che tale soluzione venga messa in atto? Ovviamente no. Hai visto mai finissimo col considerarci cittadini di serie A…

Il viaggio procede, a velocità supersonica in uscita da Roma, poi a velocità di calesse del Far West man mano che ci si addentra tra le colline umbre. Stavolta condividiamo la percezione di utenza negletta estesa a tutti gli utenti del trasporto regionale, e ci stringiamo in un fraterno abbraccio ai pendolari del trasporto regionale, i cui diritti sono stati sacrificati allo sviluppo dell’alta velocità, che consente ai supermanager di rinunciare all’aereo per andare da Roma a Milano, ma nulla può per chi deve recarsi a Perugia. O meglio può, in negativo, condannarti all’arretratezza di materiale ferroviario ed orari da dopoguerra.

Scendiamo dal treno e dobbiamo affrontare un nuovo problema: trovare l’imbocco della ciclovia. Che, inutile dirlo, non si collega alle due stazioni di partenza e di arrivo per evitare, è l’unica ipotesi che mi viene in mente, di attirare eccessivi flussi turistici. Comincia a materializzarsi nella mia testa l’idea che, in fondo in fondo, lo sviluppo di un settore che altrove muove miliardi di euro qui non interessi proprio. Meglio fingere di aver fatto qualcosa, che ritrovarsi a dover gestire un’opportunità reale.

E se poi la cosa funzionasse? Se poi in tanti decidessero di esplorare questa modalità di vacanza come facciamo noi? Sarebbe il disastro, un sistema al collasso! Bisognerebbe modificare i treni per accogliere più ciclisti, far sorgere strutture ristorative e ricettive, soddisfare le richieste di un pubblico pagante ed esigente. Invece si fa il possibile per non far nulla, continuare a campare di produzioni agricole sovvenzionate dallo stato e dalla comunità europea. Vivacchiare e lamentarsi, lamentarsi e vivacchiare.

Per trovare la ciclabile ricorriamo alla rete internet, che ospita i tracciati di chi ha già percorso la pista, oltre alle mappe satellitari ed alle viste del livello stradale. Tutte informazioni ricavate da servizi commerciali, niente di niente prodotto dallo stato italiano. Riusciamo così, perlomeno, a muoverci con relativa sicurezza ed a lasciare il prima possibile il vialone trafficato che ci accoglie all’uscita dello scalo. Anche qui dobbiamo accollarci le bici per superare due rampe di scale risalenti all’età del ferro, epoca in cui la tecnologia del piano inclinato si era evidentemente già perduta.

Consumiamo un frugale ma gustosissimo panino al bicigrill “Le Mattonelle”, unici avventori, quindi ci immettiamo sulla sede ciclabile, unici fruitori. La ‘ciclovia’ attraversa aree agricole lontano da paesi, città e altre vie di comunicazione. Nei trenta chilometri che separano Spoleto da Bevagna non incontriamo nulla, né un paese, né un bar, né una fontanella d’acqua.

Come il piano inclinato, le opere idriche sono un’invenzione del neolitico, ma sebbene il tracciato viaggi in gran parte sugli argini rilevati di fiumi e canali, realizzazioni tipiche delle antiche civiltà idrauliche, le opere idriche più moderne come le fontane distributrici di acqua potabile non sono presenti. E non stiamo parlando dell’Appalachian Trail, ma di un territorio fortemente antropizzato fin dall’antichità, costeggiato da case che hanno sicuramente una fornitura di acqua potabile. Quando si dice la non volontà. Altra opportunità di offerta turistica ad un pubblico europeo pagante e motivato che se ne va in fumo.

In realtà una manciata fontanelle d’acqua basterebbero ad attirare l’utenza locale, ma è la brevità del tracciato il limite maggiore perché il percorso funga da attrattore per un pubblico europeo. Quando, trent’anni fa, partii da Roma per il mio primo ciclo-viaggio sulla Ciclabile del Danubio la prospettiva era di percorrere 400km in una settimana o poco più. Non sarei andato all’estero con l’idea di percorrere 50km in serenità per poi ritrovarmi abbandonato in balìa di strade trafficate e stili di guida assassini, in assenza di qualsiasi indicazione e/o segnalazione.

Ma il bello è che le rive ed i canali sui quali si sviluppa il percorso Assisi-Spoleto rientrano nel bacino fluviale del Tevere, che qualche centinaio di km più a sud sfocia accanto a casa mia. In un altro paese, in un’altra cultura, in un’altra civiltà, la Ciclovia del Tevere sarebbe realtà già da decenni, e muoverebbe quotidianamente molti più visitatori di quella del Danubio, perché il nostro patrimonio di storia, arte e cultura è di un ordine di grandezza superiore al loro. Purtroppo non lo è la nostra lungimiranza.

Se fossimo in Germania” ragionavo con Emanuela sul treno del ritorno “la ciclovia del Tevere esisterebbe già da trenta o quarant’anni. Avrebbero portato noi, ad otto anni, a percorrerla in bici. Invece nostra figlia deve ancora oggi accontentarsi di un mozzicone qua e uno là”.

Quindi andiamo, fra paesaggi piacevolissimi, con una bambina entusiasta dell’esperienza mai vissuta prima, mentre l’acqua fresca nei termos finisce, e ci lascia a dissetarci (per modo di dire) con quella delle borracce, calda come il té ed al retrogusto di plastica, finché non finiamo anche quella… per fortuna in prossimità della tappa intermedia di Bevagna. Altro appunto per il prossimo viaggio, per noi ciclisti cazzuti e determinati, cittadini di serie B: portare più acqua fresca all’interno di contenitori termici, che dovremo procurarci a nostre spese e finiranno con lo zavorrare ancora di più il bagaglio (check!).

Ripartiamo da Bevagna la mattina successiva, per la tappa finale di 20km fino ad Assisi. In questo tratto la pista è ancora ben tracciata e sfrutta diversi argini, ma il fondo è spesso in terra battuta e macadam, e l’ombra manca quasi del tutto. L’ultima incognita riguarda il tratto finale. Le varie ‘tracce’ (in formato GPX) trovate in rete finiscono col percorrere, in prossimità della stazione, tratti su strade pesantemente trafficate. Le verifiche effettuate con Google Maps e lo strumento Street View confermano le mie preoccupazioni.

Prima della partenza mi sono messo quindi a verificare un nuovo tracciato in grado di evitare la maggior parte dei problemi, con l’inclusione di alcuni marciapiedi ed un brevissimo tratto contromano su una stradina secondaria. Il percorso si è quindi rivelato sicuro ed efficacissimo (per gli interessati lo condivido QUI, mentre la traccia GPX può essere scaricata da QUI), ma ancora una volta ho la sensazione di esser stato abbandonato a risolvere da solo un problema non banale come la sicurezza di una bambina in bicicletta.

Quanto poteva essere complicato portare la ciclabile fino alla stazione del treno? Perché non è stato fatto? Che idea di fruizione avevano in testa quelli che l’hanno realizzata? Come potranno regolarsi altri cicloviaggiatori, privi della mia esperienza trentennale nella tracciatura di percorsi in bici? L’unica cosa certa è a chi sarà data la colpa per eventuali incidenti occorsi ai ciclisti finiti su strade pericolose: a chi si sarà fatto male.

E arriviamo così al gran finale. Siamo in stazione, i pannelli informativi sono guasti, i treni non vengono annunciati e non abbiamo modo di sapere con certezza su quale binario passerà il treno. Non è un problema da poco, perché il treno passerà probabilmente sul binario 2, che è raggiungibile solo attraverso un sottopasso, indovinate un po’, con le scale!

Quindi se il treno arriva e siamo sul binario sbagliato ci toccherà fare una corsa su e giù per le scale, con tre biciclette e due borse da viaggio, quindi raggiungere la testa (o la coda) del treno, perché in trent’anni da che il servizio è in funzione questa preziosa informazione si ottiene solo nel momento in cui il treno entra nella stazione, distinguendo a vista la motrice dalla vettura semipilota, non prima. Potenza delle tecnologie informatiche!

Mi allungo con la mia bici zavorrata in cerca di un attraversamento a raso, lo trovo ad un’estremità della stazione, presidiato da un cartello che afferma “Vietato l’accesso agli estranei al servizio”. Che vorrà dire? Il servizio è evidentemente il servizio di trasporto passeggeri, a cui non sono estraneo in quanto fruitore del servizio stesso. Concludo che, per quanto posso desumere dalla conoscenza della lingua italiana, il cartello non mi impedisce di passare.

Mia moglie e mia figlia sono intanto transitate, di propria sponte, dal sottopasso pedonale. Emanuela mi domanda quanto sia complicato predisporre delle canaline per la discesa delle biciclette a fianco delle scale. La complicazione è nulla, basterebbe volerlo fare. In trent’anni Ferrovie dello Stato, poi Trenitalia/RFI, non è riuscita a volerlo fare. E penso che continuerà a non volerlo fare, come continuerà a vivere con fastidio la presenza e le sacrosante richieste dei propri passeggeri/clienti.

Alla fine il treno arriva, e la semipilota, col suo vano bici, si ferma ovviamente lontanissimo da noi, che siamo rimasti al centro della banchina non potendo sapere da che lato correre una volta che la posizione esatta si fosse disvelata. Saliamo in sella alle bici e commettiamo l’ultimo strappo alle regole, pedalando sulla banchina per evitare di far tardare il treno (o di rimanere chiusi fuori). È una forma di maltrattamento alla quale ho fatto il callo, vivendola da trent’anni sulla mia pelle.

Lo so che c’è, so anche che non posso farci niente, come niente ha potuto farci la FIAB o altre realtà che si sono attivate per la promozione del cicloturismo e dell’uso della bicicletta. Ripenso ai vagoni attrezzati dell’Austria, della Svizzera, della Germania, esempi di una civiltà che qui non meritiamo, che possiamo solo sognare. Quindi ci adagiamo sui sedili per il ritorno, consapevoli che a Termini ci attendono altre scale mobili, altri disguidi (il lettore contactless che non accetta di farmi pagare due biglietti con la stessa carta, per dire…), altre rampe di scale alla stazione di uscita, altri marciapiedi invasi dalla spazzatura.

Ne è valsa la pena? Sì, ne è valsa la pena, per trovarsi immersi nei paesaggi della campagna umbra, per la gioia di mia figlia, per la passeggiata serale a Bevagna, per gli aironi, per i girasoli, per la Porziuncola ad Assisi. Ma se “uno su mille ce la fa”, gli altri novecentonovantanove sono persi per strada, fiaccati e dissuasi dall’infinita sequenza di ostacoli da superare, dal bullismo di Trenitalia/RFI, dall’indifferenza delle istituzioni, dall’ignavia dell’italica plebe.

Possibile che tutto questo sia solo l’effetto di incapacità e cialtroneria? Fatico a crederlo. Siamo un popolo molto brillante nel perseguire gli interessi personali. Guadagnar soldi sviluppando forme di turismo sostenibile non deve rientrare tra gli interessi della politica o delle dirigenze dei grandi servizi di stato.

E d’altronde perché dovrebbe? Dirigenti e dipendenti continuano a percepire stipendi e benefit anche se il servizio declina da decenni. La politica si riempe la bocca di interventi appariscenti ed effimeri, non supportati da manutenzione o piani di sviluppo. I cittadini si bevono quello che passa il convento, così si risparmiano la fatica di pensare e combattere.

Restiamo noi, ridotti a quattro gatti, umiliati e spelacchiati, pronti ad affrontare una corsa ad ostacoli di cui non si vede la fine pur di ottenere quello che ci siamo intestarditi a volere: una pedalata nella natura, sotto al sole, l’aria pulita, il profumo della libertà.

La storia dell’umanità alla luce del processo di auto-domesticazione

Quando qualcosa non mi torna, sono solito pensare che la sto osservando da una prospettiva sbagliata. Quindi cerco di cambiare prospettiva, per vedere se i meccanismi di causa-effetto agiscono in termini diversi. lo scoglio principale, come ho riscontrato nel corso degli anni, riguarda quelli che ho definito ‘bias culturali’, ovvero abitudini di pensare ed interpretare la realtà che acquisiamo dalla nostra cultura, e che rappresentano delle forzanti capaci di farci fraintendere quasi ogni cosa.

Ad esempio, tempo fa mi sono ritrovato a proporre la seguente, solo apparentemente paradossale, affermazione: “l’idea che, coi nostri comportamenti, stiamo distruggendo la vita sul pianeta è comprensibile anche ai bambini. Non è evidente, tuttavia, agli adulti. Questo perché è solo crescendo che si impara a non capire”.

Crescendo si impara a non capire’ è l’esatta sintesi del concetto di bias culturale: le nozioni che acquisiamo, i modi di pensare che la scuola e la società ci inculcano, molto spesso finiscono col renderci incapaci di vedere la semplicità dei fatti reali, incastrandoli e trasfigurandoli all’interno di ideologie delle quali, in genere, non siamo minimamente consapevoli, perché non le percepiamo come tali.

Da dove hanno origine le ideologie? La risposta che mi sono dato fin qui è che discendono in linea diretta dall’utilizzo che facciamo del nostro cervello altamente evoluto. Nel momento in cui la specie Homo inizia ad utilizzare le idee alla stesso modo in cui utilizza i propri strumenti, ovvero quando il ragionamento astratto diventa un utensile capace di operare sulla realtà e facilitare la sopravvivenza di individui e gruppi, blocchi di idee si amalgamano necessariamente in strutture complesse ed interrelate: le ideologie.

Un esempio di ideologie che si sono dimostrate efficaci per garantire il successo dei primi gruppi umani sono le credenze religiose. Da un lato l’idea di una vita dopo la morte risulta utile e funzionale alla sopravvivenza di singoli e gruppi, dall’altro, l’assenza di evidenze fattuali obbliga a costruire ragionamenti astratti a supporto di tali tesi, mediante l’elaborazione di edifici di credenze tipicamente molto complessi, che non di rado prendono la forma di culti misterici, in cui le ‘verità finali’ sono appannaggio di una ristretta casta di sacerdoti che non le condividono con la massa dei fedeli.

Le ideologie, pur assolvendo ad un compito essenziale per la sopravvivenza umana, sono tipicamente intrise di bias culturali, perché veicolano modelli comportamentali strettamente legati al momento storico ed alla cultura dalla quale sono state formulate, avendo tra le funzioni primarie la stabilizzazione della cultura stessa, ed il porre un freno ad ulteriori trasformazioni.

Per comprendere l’influenza delle ideologie sullo sviluppo della nostra specie dobbiamo tornare indietro, all’alba dei tempi, e rileggere tutta la nostra storia alla luce del concetto di auto-domesticazione, che solo di recente ho cominciato a padroneggiare.

La domesticazione è un processo per mezzo del quale gli appartenenti ad una specie selvatica vengono costretti in cattività e limitati nella loro libertà in cambio di cibo e comfort vari (sicurezza, protezione dalle intemperie). Normalmente siamo abituati a pensare che la domesticazione sia stata praticata dalla specie Homo nei confronti di varietà animali e vegetali che utilizziamo per la nostra alimentazione, per la produzione di cibo e tessuti e per il lavoro.

Di fatto, però, l’intero percorso storico che siamo soliti definire ‘progresso’ può essere descritto come un processo di auto-domesticazione umana, nel corso del quale la nostra specie ha spontaneamente rinunciato alla vita selvatica, nomade, ed a parte delle libertà che questa consentiva, in cambio di maggior cibo, comfort e sicurezza.

L’uomo domestico, quello che siamo soliti definire ‘moderno’, emerge a partire dall’invenzione dell’agricoltura (domesticazione di specie vegetali), processo che, a fronte di una disponibilità più continua di cibo, obbliga alla stanzialità e porta alla costruzione di abitazioni che col tempo si trasformano in villaggi e città. La trasformazione procede con lo sviluppo dell’allevamento (domesticazione di specie animali), quindi dello sfruttamento dell’energia animale a fini agricoli (aratura), che da ultimo consente ai nostri predecessori di esportare le tecniche agricole al di fuori dei delta fluviali, dove la fertilità era garantita dalle esondazioni annuali dei fiumi (Nilo, Tigri ed Eufrate, Indo e Huang Ho).

Ci sono evidenti parallelismi tra la domesticazione animale e l’auto-domesticazione umana. La crescita numerica delle popolazioni dei primi villaggi e delle prime città favorì l’evolversi di strutture gerarchiche: sistemi sociali in cui gli individui più intelligenti e determinati occupavano i vertici decisionali, quelli più versati nell’esercizio della violenza si occupavano di mantenere l’ordine e di combattere le guerre, e tutti gli altri praticavano un ventaglio di lavori, manuali ed intellettuali, che si è ulteriormente diversificato nel corso del tempo.

In buona sostanza, lo stesso trattamento riservato dalla nostra specie ad animali e vegetali è stato riprodotto sulla scala delle società umane, con una grande fetta della popolazione asservita al lavoro manuale, ed una piccola élite occupata a governarla, sfruttando la manodopera militare. Un’organizzazione piramidale del tutto analoga (e spero che nessuno si offenda per il parallelo) a quella che legava insieme il pastore, i cani ed il gregge. Questa strutturazione, nelle società antiche, è risultata vincente grazie all’efficacia nel garantire ricchezza e benessere ai popoli che la adottavano.

Le dimensioni delle società umane sono andate aumentando nel tempo. Dalle prime città stato sumere si è passati agli imperi, in un processo che ha visto le città più efficienti nel produrre ricchezza e nell’accrescere la propria popolazione, sconfiggere ed asservire le proprie concorrenti. Un semplice meccanismo che, proiettato su un arco temporale di millenni, ha finito col dar vita al mondo contemporaneo.

Nel tempo si sono resi necessari degli aggiustamenti, man mano che la crescita di scala e complessità delle società umane cominciava ad evidenziare i limiti dell’originale, rudimentale, strutturazione. Il problema principale da gestire, nelle forme di governo dell’antichità, discendeva dalle discontinuità causate dalla variabilità genetica indotta dalla riproduzione sessuata.

Ogni re, generale o conquistatore, al termine della propria vita, aspirava a consegnare la macchina statale alla propria discendenza. Le leggi della genetica, tuttavia, non consentono di trasmettere intatte le proprie capacità intellettuali alla prole. Il risultato era che a re molto capaci e brillanti potevano succedere principi molto meno versati nell’arte del governo, col relativo seguito di errori, insuccessi, sconfitte, insoddisfazione diffusa, rivolte e guerre civili fra le diverse fazioni.

Nel lontano passato, ed in alcune culture, una parziale soluzione consisté nella poligamia: il re, sovrano o imperatore disponeva di numerose concubine, che gli fornivano una prole abbondante all’interno della quale poteva essere selezionato il discendente più adatto a dare continuità all’azione di governo. Anche questa soluzione presentava svantaggi, poiché tra la numerosa prole ‘regale’ potevano annidarsi altri pretendenti altrettanto capaci e determinati del ‘prescelto’, e trovare supporto in trame di corte per sostituire il regnante designato.

Ciò era ulteriormente complicato dall’assenza di un reale meccanismo di ascesa sociale, che impediva di fatto agli individui più brillanti generati dalle classi inferiori di aspirare a ruoli di potere. Sul lungo termine questo finiva col produrre strutture statali in cui il ristagno genetico delle élite dominanti causava una perdita di efficienza della funzione di governo, e prestava il fianco a rivolte o prese di potere da parte dei comandanti militari, potendo l’esercito ancora rappresentare quell’ascensore sociale capace di consentire ad individui particolarmente brillanti l’accesso a posizioni di comando.

Ma la trasformazione più significativa avviene attraverso la sostituzione del potere militare con quello economico, ovvero con la nascita di imprese su scala sovranazionale (multinazionali) in cooperazione/competizione tra loro. L’inizio di questo processo coincide con la rivoluzione industriale e segna l’inizio del declino delle forme di governo antiche, basate sull’appartenenza ad una casta nobiliare.

L’impresa capitalista è il nuovo soggetto in grado di distribuire ricchezza e benessere alle popolazioni, e si trova ben presto in competizione, per la gestione delle masse operaie, con le forme di governo classiche. Le due guerre mondiali del ventesimo secolo sono il momento in cui l’umanità realizza l’incompatibilità tra le tradizionali strutture gerarchiche e la capacità distruttiva della civiltà industriale.

Le imprese capitaliste di diversi stati europei vedono dapprima nella guerra la possibilità di massimizzare i propri guadagni, ma la faccenda gli si rivolta contro quando i ‘grandi dittatori’ trascinano le nazioni dell’Europa centrale in una distruzione mai vista prima. Al termine della seconda guerra mondiale appare evidente il fatto che occorra impedire ai singoli individui di possedere il potere di governare intere nazioni, e si provvede a sostituire, a re e dittatori, forme di democrazia più o meno controllate ed addomesticate.

Nel nuovo assetto, il potere è diversamente distribuito. Il controllo delle corporations è in mano non più a singoli ma ad oligarchie (i consigli d’amministrazione) i cui membri vengono in buona parte selezionati in base a criteri meritocratici. Il terreno di confronto si sposta dal piano militare a quello dell’innovazione, della qualità di prodotto e della capacità di influenzare pensieri e gusti delle popolazioni per mezzo dei mass media.

Per quanto riguarda la sfera politica, il succedersi di tornate elettorali, nelle quali i finanziamenti privati influenzano fortemente sia la visibilità che le probabilità di successo dei candidati, garantisce al potere economico una forte capacità manipolativa, atta ad impedire ulteriori escalations distruttive, o un sovverimento del meccanismo.

Più o meno in ogni epoca (la più antica che mi sovviene riguarda l’avvento del cristianesimo, la più recente il marxismo) intellettuali e filosofi, insoddisfatti della stratificazione sociale, che sacrifica larga parte della popolazione, si impegnano per formulare nuove elaborazioni teoriche (di fatto ulteriori ideologie), orientate a realizzare una diversa organizzazione della struttura sociale. Nella maggior parte dei casi questi tentativi ottengono soltanto di realizzare una riproposizione, con differenze minime, della medesima organizzazione di base.

Se definiamo la domesticazione come un processo in cui autonomia e libertà vengono barattate in cambio di benessere e sicurezza, il mondo che abbiamo ereditato dall’avvento del capitalismo e delle produzioni industriali è indubbiamente la massima espressione di queste due aspirazioni. La generazione dei miei nonni ha vissuto sulla propria pelle due guerre (mondiali), quella dei miei genitori una. La mia generazione, ormai in là con gli anni, nessuna.

Sembrerebbe un mondo perfetto, e ce lo raccontiamo come tale, purtroppo non è così. Un bias culturale che risale alla notte dei tempi ci porta a sopravvalutare l’importanza del benessere umano rispetto alla salute del pianeta. Il risultato di questa corsa a massimizzare benessere e numero della popolazione umana sta portando alla distruzione dei pochi habitat naturali fin qui sopravvissuti.

La sostituzione dei governi umani con entità astratte unicamente orientate al profitto ha escluso, di fatto, la possibilità di invertire questa tendenza. Se un governo autoritario ha ancora la possibilità di esprimere indirizzi lungimiranti (raramente, ma può avvenire), i poteri economici sovranazionali hanno come unico obiettivo l’accrescimento della propria ricchezza. Processo consistente in massima parte nell’organizzare lo sfruttamento di fonti di energia e materie prime presenti in quantità finite sul pianeta (minerali, suolo fertile, legname, gas combustibile), nel minor tempo possibile.

Questa evoluzione sta trascinando il mondo, col suo carico di umanità, su territori del tutto nuovi ed inesplorati, e purtroppo in assenza di una comprensione reale e diffusa delle dinamiche in atto. Dinamiche che, ad una prima analisi, risulterebbero comprensibili anche ad un bambino, ma che millenni di stratificazioni ideologiche ci impediscono di riconoscere, ed affrontare, da adulti.

Noi siamo leggende

Il racconto di Richard Matheson “Io sono leggenda” riemerge periodicamente nelle mie riflessioni. La vicenda propone un rovesciamento del tema classico della lotta tra uomini e mostri: il protagonista si ritrova a fronteggiare, da solo, l’epidemia di un morbo che rende le persone simili a vampiri. Di notte si barrica in casa, di giorno gira per la città uccidendo i mostri addormentati.

Col passare del tempo, però, emerge una nuova civiltà composta da semi-vampiri, esseri notturni con le proprie leggi, abitudini, regole e leggende. In una di queste leggende si racconta di una creatura da incubo, che si nasconde di notte ed esce di giorno per uccidere le persone nel sonno. Il nostro protagonista realizza solo a quel punto di non essere più un ‘cacciatore di mostri’. Nel nuovo mondo il mostro è lui, è lui la ‘leggenda’.

Perché una storia immaginaria mi risulta tanto inquietante? Come si lega questo racconto al mio vissuto personale? Di fondo il protagonista soffre di una errata percezione della realtà. Vorrebbe salvare il mondo, ma vive in un mondo che non vuole essere salvato, un mondo che vuole solo essere lasciato in pace.

Traducendo la vicenda dalla metafora alla realtà possiamo descrivere l’errore del personaggio come un ‘pregiudizio cognitivo’, nello specifico di quello che viene definito come ‘bias di proiezione’ (traggo la definizione da qui: https://www.stateofmind.it/tag/bias/)

Bias di proiezione: (…) pensiamo che la maggior parte delle persone la pensi come noi. Questo errore cognitivo si correla al bias del falso consenso per il quale riteniamo che le persone non solo la pensino come noi, ma anche che siano d’accordo con noi! In sostanza è un bias cognitivo che ci induce a sopravvalutare la “normalità” e la “tipicità”.

La vicenda del protagonista riecheggia, in chiave di metafora, il mio personale tentativo di ‘salvare il mondo’ dal traffico, dall’inquinamento e dall’incidentalità stradale (in ultima istanza dal consumismo), ed offre una chiave di lettura alla conseguente percezione di una assenza di progressi in tal senso. Il dubbio, riferito a me, è che il ‘bias di proiezione’ abbia offuscato fin dall’inizio la mia lettura della realtà, inducendomi a proiettare sull’intera popolazione esigenze che erano, di fondo, soltanto mie e di pochi altri.

Come Cicloattivisti abbiamo combattuto per decenni i ‘mostri’ del traffico, dell’incidentalità, dell’inquinamento, senza renderci pienamente conto che il mondo era, ed è tutt’ora, un mondo di mostri, nel quale queste ‘mostruosità’ vengono percepite come naturali, necessarie, inevitabili. E che questo è il loro mondo, non il nostro. Il mondo che i mostri vogliono, mentre del nostro non sanno cosa farsene.

Quelli che, semplificando, chiamo mostri, ovviamente percepiscono se stessi come ‘normali’, mentre i ‘mostri’ che li tormentano sono quelli come me, come noi, che vogliono costringerli a cambiare abitudini di vita, a spostarsi in bicicletta, a fare sport, a sudare, che vogliono togliergli il posto auto sotto casa, che vogliono pedonalizzare le strade, che vogliono donar loro un ‘benessere’ che essi non possono, o non vogliono, comprendere.

Una tale consapevolezza solleva questioni pesanti. La battaglia cicloattivista non è più descrivibile come una lotta di liberazione, perché la maggioranza dei cittadini non vuole essere liberata. “We don’t want freedom, we don’t want justice” (trad.: non vogliamo libertà, non vogliamo giustizia), facevano dire i Talking Heads all’abitante tipo della provincia americana, impersonato da John Goodman nel film True Stories.

Alla luce di quest’analisi, perfino i pochi risultati che abbiamo ottenuto fin qui non sono descrivibili come conquiste, ma piuttosto come imposizioni, dal momento che la maggior parte dei cittadini non li desidera. Non vogliono piste ciclabili ed aree pedonali, non vogliono trasformazioni. Il ‘cittadino medio’ è abituato a questa realtà, e non vuole cambiarla. Magari la desidera un po’ più ordinata, un po’ più pulita, un po’ più ‘decorosa’, ma non diversa.

Pertanto l’unica speranza di conservare e rendere permanenti i piccoli pezzetti di trasformazione che siamo riusciti ad ottenere è che col tempo riescano a farsi normalità. Ma a quelli come me anche questo non basterà. Non possiamo fermarci, non possiamo accontentarci.

Noi siamo i ‘mostri’ che sfidano la normalità, incapaci di farsi bastare ciò che passa il convento. Siamo solitari e fastidiosi, a tramare per sovvertire lo status quo deciso dai meccanismi macroeconomici. Noi siamo quelli sbagliati. Noi siamo ‘leggende’.