Dalla trasformazione alla conservazione

La cultura cui appartengo, per scelta, è quella della trasformazione. Sono insoddisfatto del mondo che ho ereditato e cerco, con tutte le mie energie intellettuali, di guidarlo in direzione di un miglioramento. Tale miglioramento, nelle intenzioni, dovrebbe partire dalle relazioni umane, e lo strumento scelto per invertire la direzione seguita negli ultimi decenni è il ridisegno degli spazi pubblici finalizzato alla riattivazione di una vita sociale e relazionale che è stata progressivamente marginalizzata dalla crescita urbana.

Dall’analisi degli ultimi decenni appare evidente come il processo di arricchimento individuale e collettivo seguito al boom economico abbia prodotto una progressiva disgregazione dei rapporti sociali. Da un lato la discesa dei costi delle cubature abitative ha garantito una sovrabbondanza di spazi individuali, dall’altro l’aumentata disponibilità alimentare e la diffusione dei sistemi mediatici di intrattenimento ha favorito l’autoisolamento dei cittadini negli ambiti privati.

La progressiva riduzione degli spazi di socialità ha veicolato un generale deperimento in tutto un ventaglio di aspetti dell’espressione umana che vanno dall’attivismo politico alle arti, alla letteratura. L’isolamento individuale, alimentato sia da una naturale propensione all’asocialità che dalle spinte di un sistema economico basato sui consumi, ha finito col produrre una società polverizzata, dove il principale canale di alimentazione culturale è divenuto quello verticale, dai fabbricanti di contenuti al singolo fruitore, anziché, come è stato per millenni, quello orizzontale, prodotto dallo scambio continuativo fra individui partecipanti a piccole e grandi comunità.

Non mi interessa, in questa riflessione, indagare come questo processo si integri nel modello che ho abbozzato relativo alla domesticazione umana, quanto, piuttosto, delineare una tendenza che va prendendo piede a seguito delle diverse crisi, economiche e sanitarie, che si sono susseguite nell’ultimo decennio, ed inquadrarla in una prospettiva ‘picchista’, ovvero dal punto di vista dell’ormai incontestabile evidenza della crisi delle risorse energetiche.

Nell’ultimo paio di secoli, la messa a sistema dello sfruttamento delle risorse fossili ha prodotto un’esplosione manifatturiera senza precedenti, un periodo storico che i geologi hanno ribattezzato ‘antropocene’. Questo processo ha interessato in vario modo le diverse parti del mondo, producendo trasformazioni più evidenti nei paesi e nelle città che hanno saputo drenare le porzioni maggiori di questa ricchezza.

Ma, superato il picco della ricchezza estraibile e man mano che i ritorni economici finiscono col decrescere, con il peso del debito contratto negli anni passati che grava su un’economia non più in grado di produrre i volumi di ricchezza precedentemente disponibili, una frazione sempre più ridotta di risorse resta disponibile per la trasformazione delle città e degli spazi urbani. Non solo, l’espansione sconsiderata dei decenni precedenti ha generato una quantità enorme di edifici ed infrastrutture: manufatti spesso già scadenti in origine ed ora bisognosi di interventi di manutenzione.

Spostando l’osservatorio al di fuori dell’ambito urbano possiamo vedere come il processo di costruzione ed asfaltatura di nuove strade, proseguito fino oltre metà degli anni ‘90, stia cedendo il passo ad un progressivo abbandono della rete viaria secondaria, con strade un tempo asfaltate ormai in rovina e nessun intervento mirato al loro recupero.

Quella che stiamo osservando, in questo momento storico, è probabilmente la fase di arresto delle grandi trasformazioni urbane e paesistiche, perlomeno nei paesi economicamente meno floridi come il nostro. Il momento in cui il grosso della spesa è inghiottito dalla necessità di interventi di manutenzione, riparazione, restauro dell’esistente, e non restano più che le briciole per rimetter mano alla quantità e varietà di errori commessi in un’epoca di investimenti allegri e di sconsiderato ottimismo.

Già ora osserviamo uno slittamento nelle parole d’ordine della politica: dallo slancio verso il futuro ancora presente alla fine del secolo scorso si va progressivamente spostando l’attenzione collettiva alla salvaguardia dell’esistente. Con i ponti e le infrastrutture degli anni ‘60 che iniziano a crollare ed intere porzioni di territorio rase al suolo dall’attività sismica, non pare esserci molto margine per realizzare nuove infrastrutture, o per investire in sistemi di trasporto innovativi.

Andremo avanti per un po’ a riparare e rappezzare quanto costruito nel passato recente, perdendo pezzi via via più grossi lungo la strada. Col tempo dovremo arrenderci all’evidenza che quanto di mal realizzato non potrà essere riparato indefinitamente, né tantomeno ripristinato o corretto, perché mancheranno le risorse. Infine anche lo sforzo dedicato a far funzionare l’esistente si esaurirà. Sul cosa accadrà dopo sono abbastanza preoccupato.

Sull’incomunicabilità

Qualche tempo fa mi sono imbattuto in un aforisma che suonava più o meno così:
‘più procedo nella comprensione del mondo, più trovo difficile comunicare ad altri le mie conclusioni’ (mi scuso per l’approssimazione, ma non sono più riuscito a reperire la fonte della citazione). Solo dopo un po’ ho realizzato quanto il dilemma descritto rappresentasse un problema anche mio.

Da qualche giorno ho chiuso il mio account Facebook principale, non so se e quando lo riaprirò. Il motivo che mi ha spinto a prendere questa decisione è proprio il frustrante senso di inutilità derivante da continui battibecchi senza costrutto. Gli strumenti social rendono facile l’essere d’accordo su qualcosa, ma risultano inadeguati per articolare un qualsiasi dissenso. Il motivo di ciò dipende non tanto dagli strumenti ‘social’, quanto dall’architettura che il nostro cervello sviluppa per poter gestire la realtà.

La mente umana è strutturata per organizzare la propria comprensione dell’esistente per mezzo di analogie. In molte situazioni poco familiari ci accade di non comprendere i meccanismi di causa-effetto semplicemente perché le analogie che utilizziamo non sono corrette. In buona sostanza, quando non comprendiamo qualcosa, quello che va rimesso in discussione è il nostro modello mentale del mondo, perché di sicuro è all’interno di esso che si annida il meccanismo interpretativo difettoso.

Disporre di modelli interpretativi erronei non è un’eccezione, ma piuttosto la norma. Le neuroscienze hanno evidenziato il fatto che disponiamo di un esteso ventaglio di difetti interpretativi, cui è stato dato il nome di ‘bias cognitivi’. Nel tempo ne sono stati individuati diverse decine. La spiegazione della presenza di questi errori interpretativi nella nostra corteccia cerebrale postula che, in un lontano passato, essi abbiano rappresentato un vantaggio per i nostri antenati, aumentandone la capacità di sopravvivere in situazioni critiche. Una tesi che ho già incrociato, a suo tempo, ragionando del pensiero religioso.

Appare quindi appurato che la natura, nel corso dell’evoluzione, ci abbia dotato di una predisposizione agli errori di valutazione. Ciò è spiazzante, perché già solo l’idea che un difetto interpretativo possa, a tutti gli effetti, presentare dei vantaggi rispetto alla fredda logica, basta a mettere in crisi l’ideale illuminista del primato della ragione. E tuttavia la tesi è consistente. Una trasposizione di questo paradosso nella cultura pop contemporanea la troviamo nel film “The Matrix”, che userò a mo’ di esempio.

In “The Matrix” il protagonista Neo consulta un oracolo, una donna ritenuta in grado di vedere il futuro. Le chiede se il suo amico Morpheus morirà, e l’oracolo gli risponde di sì. Nel successivo combattimento, quando Morpheus rischia di morire, il terrore che Neo prova rispetto alla prospettiva della sua morte gli consente di reagire e salvarlo. Quando Neo, in seguito, si confronta nuovamente con l’oracolo, accusandola di non aver previsto l’esatto futuro, questa ammette di avergli mentito. ‘Non ti ho detto quello che sarebbe avvenuto, ti ho detto quello che avevi bisogno di sapere per salvare il tuo amico. Se tu avessi pensato che si sarebbe salvato, non avresti fatto l’impossibile, e Morpheus sarebbe morto’.

Un secondo livello di errori interpretativi non discende da meccanismi legati alla sopravvivenza individuale, ma dalle manipolazioni culturali messe in atto per assicurare il funzionamento delle collettività. Più i gruppi umani diventano numerosi, più il collante culturale condiviso necessario a mantenerli coesi assume importanza. Ne discende che, se il benessere della collettività dipende dal sacrificio dei singoli individui, i condizionamenti culturali necessari a far accettare questo sacrificio acquistano peso ed importanza.

Con lo sviluppo delle città e dei primi imperi della storia, l’esigenza di sopraffare le popolazioni limitrofe si dimostrò la chiave per assicurare il benessere e la ricchezza degli stati aggressori. Questo richiedeva che eserciti di soldati scendessero in battaglia a rischio della propria vita ed incolumità. L’unico modo per ottenere un simile risultato (oltre alla paga) consisté nell’elaborazione di complicati sistemi di idee, costrutti culturali che oggi chiamiamo ideologie, e nella loro diffusione capillare nei diversi strati della popolazione.

Le ideologie divisero, e dividono ancor oggi, la popolazione in strati sociali: i più scaltri ed abili assurgono a posizioni di potere e governo, relegando il resto della popolazione ai lavori manuali, alla fatica, alle privazioni ed alla sofferenza. In quest’ottica, i bias cognitivi stanno al singolo individuo come i bias culturali stanno ai sovra-organismi rappresentati dalle collettività.

Possiamo dunque considerare come una condizione naturale dell’essere umano quella di disporre di interpretazioni distorte della realtà, derivanti dalla necessità contingenti, individuali, e da quelle della collettività di cui fa parte. Le ideologie sono pertanto totalmente strutturali all’esistenza di gruppi umani distinti, definiscono comportamenti da seguire, priorità individuali e collettive, validano rapporti di forza e strutturano le relazioni tra gli individui.

Tutto ciò, inutile dirlo, con l’unica finalità di garantire la coesione del gruppo sociale, la sua competitività ed in ultima istanza il suo successo, in maniera del tutto indipendente dalla realtà oggettiva. Se un gruppo sociale trae forza e coesione dal credo comune in una o più divinità, l’esistenza stessa di tali divinità all’interno di una realtà oggettiva non è rilevante quanto il fatto che gli appartenenti vi credano.

Al giorno d’oggi, il processo di globalizzazione ha portato allo sviluppo di comunità non più caratterizzate dalla prossimità fisica, come nel passato. Per definire una comunità è sufficiente che gli appartenenti abbiano avuto modo di sviluppare convinzioni e credenze condivise, non necessariamente ancorate alla realtà. Evidenze di manipolazioni in tal senso sono all’ordine del giorno, sotto forma di complottismi, negazionismi, fake-news, oltre all’onnipresente armamentario della propaganda politica. Venire a capo della realtà fattuale, in una società complessa, obbliga a disfarsi di quello stesso collante culturale che tiene insieme il proprio gruppo sociale e lo distingue dagli altri.

Nondimeno, la necessità di discutere e modificare l’impianto culturale esistente non è equamente condivisa. L’esigenza di ridefinire i confini culturali è ovviamente appannaggio delle classi disagiate, mentre i privilegiati hanno tutto l’interesse a mantenere in vita una narrazione funzionale allo status quo, disponendo oltretutto delle risorse economiche per un efficace bombardamento mediatico. Qualunque architettura culturale presta il fianco alla messa in discussione delle relative chiavi interpretative e dei conseguenti meccanismi di causa-effetto per mezzo di un approccio scientifico.

I limiti derivanti da un’erronea comprensione del mondo sono stati nei secoli indagati da filosofi e pensatori, un processo culminato nella definizione di ‘pensiero scientifico’. Descritto in maniera molto rudimentale, il pensiero scientifico afferma che, una volta definiti con precisione tutti gli elementi di un esperimento, questo può essere riprodotto ed il risultato deve essere indipendente dall’osservatore che vi assiste. Questo processo ha lo scopo di individuare gli elementi propri della ‘realtà oggettiva’, separandoli dalle interpretazioni soggettive, arbitrarie e fallaci.

Il pensiero scientifico ha dimostrato una straordinaria efficacia nel consentirci di approfondire la conoscenza del mondo, ed ha favorito un incredibile sviluppo tecnologico. Tuttavia, in quanto pensiero razionale, mal si concilia con l’ambito dell’irrazionale che ancora permea le organizzazioni sociali umane. Se infatti si possono individuare facilmente meccanismi di causa-effetto nel mondo fisico, altrettanto non è possibile per le scienze umane, perché gli imperativi biologici non hanno né una necessità né un fondamento razionale.

I corpi celesti si muovono in orbite definite dalla propria massa e velocità relative, e non possono fare altrimenti perché regolati unicamente da relazioni fisiche di natura meccanico-gravitazionale. Per contro, l’istinto di sopravvivenza degli esseri viventi non risponde ad alcun obbligo di natura fisico-meccanica, ma discende unicamente dal fatto che i processi evolutivi, e la stessa sopravvivenza, hanno avuto efficacia solo sugli individui che erano portatori di tale istinto.

Il pensiero scientifico può maneggiare con facilità processi fisico-meccanici che hanno cause ed effetti facilmente individuabili, non altrettanto i processi legati alle attività degli organismi biologici, in cui le cause (reali e percepite), gli effetti (desiderati e praticati) e il processo mentale stesso, sfuggono ad un’analisi puntuale. O, per dirla in altri termini, le informazioni necessarie e a riprodurre l’esperimento sono moltissime ed in larga parte indisponibili ed irriproducibili.

In conseguenza di ciò, mentre abbiamo modelli della materia sufficientemente affidabili da consentirci di costruire macchine straordinarie (pensiamo ai microprocessori, che da strumenti di calcolo e comunicazione sono diventati in pratica estensioni di noi stessi), non abbiamo modelli del comportamento umano tali da consentirci di anticipare le risposte delle diverse collettività all’introduzione di nuovi elementi di natura sociale e culturale.

Per questo manca anche un modello ‘scientifico’ di organizzazione politica condiviso e collettivamente accettato dalle diverse culture umane, ed ogni gruppo sociale sviluppa al proprio interno consuetudini, abitudini e relazioni, di norma mantenendo una piattaforma condivisa per quanto riguarda i comportamenti da tenere in pubblico (il corpus legislativo), e lasciando maggior libertà per quanto avviene nell’ambito privato.

Come già detto, mettere in discussione la cultura di una società umana non è impossibile: si possono ragionare le incongruenze, risalire alle relazioni di causa-effetto e ridefinirle. E tuttavia, più si procede in questa direzione, più ci si allontana dal pensiero collettivamente condiviso, col risultato che diventa vieppiù difficile trasferire ad altri questo tipo di comprensione, perché i nuovi pezzi di ragionamento proposti non si incastrano nelle vecchie architetture cognitive.

Un esempio estremo di questo tipo di situazione è rappresentato dallo sviluppo del pensiero scientifico. Quando Galileo tolse la Terra dal centro dell’Universo, la Chiesa si vide ridimensionata l’importanza della creazione divina (e mise lo scienziato sotto processo). Quando Isaac Newton descrisse il moto dei corpi celesti in termini di equazioni e campi gravitazionali, sollevò Dio dalla necessità di provvedere al moto della sfera celeste (Newton, per sua fortuna, viveva in Inghilterra). Quando Darwin illustrò i meccanismi biologici che portano le specie viventi a trasformarsi nel corso del tempo, l’intervento divino non apparve più necessario per dar vita alla varietà del ‘creato’.

Togliere a Dio queste incombenze significò rimettere in discussione anche tutte le altre, per non dire la credibilità della Bibbia. Le evidenze prodotte dagli scienziati sollevarono una domanda scomoda per chi, fino a quel momento, aveva posto Dio al centro dell’Universo, creatore ed artefice dei destini del mondo: se non c’è più nulla che richieda l’intervento divino, a che serve Dio? La chiesa aggiornò l’ambito di competenza della divinità al mondo ultraterreno, nondimeno per gli individui animati da uno spirito religioso questo rappresentò un grosso scossone.

L’avvento del pensiero scientifico obbligò buona parte dell’umanità a ragionare la realtà in maniera completamente diversa da come era stata descritta per secoli dal pensiero religioso. Impose relazioni di causa-effetto al posto dell’arbitrio divino, eliminò ogni tesi a supporto dell’esistenza di una vita oltre la morte, fece tabula rasa di buona parte dell’autorità della casta sacerdotale e del potere, anche temporale, di cui quest’ultima godeva.

Nel nostro piccolo, l’incomunicabilità si produce ugualmente in un ventaglio di situazioni che investono la sfera cognitiva, quella culturale e quella emotiva. L’esempio più tipico, per quanto mi riguarda, investe le discussioni sulla mobilità, materia dove la formazione del cittadino medio è basata sugli investimenti culturali finanziati delle case automobilistiche (giornali, cinema, televisione, direttamente o attraverso l’acquisto di spazi pubblicitari). Gli interlocutori che incontro sono per lo più inconsapevoli di questa massiccia manipolazione occulta del pensiero collettivo, e la prendono per oro colato.

In questo tipo di confronto, le informazioni che provo a fornire vengono acquisite in una forma decontestualizzata (per contestualizzarle dovrei allegarci un manuale, e non ho modo di farlo), e questo rende problematica la loro collocazione in schemi mentali che, al pari del pensiero teologico, hanno come fondamento una divinità totemica fatta a forma di automobile. Schemi in cui l’automobile stessa svolge un ruolo centrale, tanto da non poter essere ricollocata senza che crolli anche tutto il resto.

Problemi analoghi li ho incontrati discutendo di situazioni che attengono la sfera emotiva, nello specifico le questioni di genere ed i rapporti sbilanciati tra i sessi. Ho realizzato, tardivamente, che un’informazione di natura razionale, inserita in un dibattito in cui l’emotività è la chiave di interpretazione prevalente, finisce quasi sempre per essere fraintesa, perché il contesto di relazioni causa-effetto cui afferisce (di matrice freddamente logica) risulta incompatibile con uno schema interpretativo di tipo emozionale.

La lezione che ho appreso da tutti questi tentativi infruttuosi è che non è possibile una reale comprensione reciproca tra persone che non condividono un sufficiente background. Più ci si allontana da quella che è la base culturale condivisa, più faticoso e spesso infruttuoso diventa trasferire nozioni e descrizioni sistemiche a persone che non hanno le strutture mentali adatte ad accogliere ed integrare tali informazioni.

La conseguenza ultima di questa nuova consapevolezza è che sto limitando molto le mie interazioni al di fuori degli spazi, e dei contesti, in cui i miei interventi hanno qualche speranza di essere compresi. Confido di recuperare così tempo e risorse per fare cose più utili del cercare, vanamente, di far cambiare opinione ad occasionali frequentatori di social network.

Galileo Galilei (1564-1642). Oil painting after Justus Wellcome L0021979