Reboot


Fino a poco tempo fa il termine "reboot" serviva a definire un’unica operazione: il riavvio di un computer da zero, ovvero l’operazione equivalente al riaccenderlo dopo uno spegnimento. Da qualche mese a questa parte l’industria dell’intrattenimento ha prodotto una nuova accezione del termine, che ora sta a significare il riavvio "da zero" di un personaggio, o di un’intera serie.

È quello che è successo a distanza di anni con le diverse incarnazioni filmiche di Batman, ed in maniera ancor più plateale con Hulk, alla cui prima trasposizione cinematografica nel 2003 ha fatto seguito non già un "sequel", come tutti si aspettavano, ma un nuovo film con attori diversi, che ha fatto in pratica "tabula rasa" del precedente. Reboot.

Il prossimo reboot "eccellente" è quello di Star Trek, stranota serie televisiva degli anni ’60, rinata negli anni ’80 con la serie sequel "The Next Generation" e proseguita con attori diversi, astronavi diverse, location diverse ma sempre nella stessa "continuity" fino al volgere del millennio. L’ultimo tentativo di rivitalizzare l’universo "Trek" è stato fatto con "Enterprise", un "prequel" ambientato temporalmente prima della "serie classica" di Kirk, Spock e compagnia.

Spremere a questa maniera un filone per centinaia di puntate, sfruttando ogni possibile trama sviluppabile (il concetto di "continuity" pretende che le nuove vicende non contraddicano le precedenti, il che pone vincoli via via crescenti agli sceneggiatori) significa, letteralmente, esaurirne ogni possibile evoluzione. La "corazzata StarTrek" si è così mestamente arenata, gli ascolti sono calati e tutte le serie "figlie" sono state chiuse.

Ma una buona "macchina da incassi" non si rottama così facilmente: il pubblico pagante ci sarebbe ancora, quindi che si fa? Un bel "reboot". Tabula rasa di quello che è successo fin qui, si tengono i personaggi e le situazioni a cui il pubblico è affezionato, si attualizzano alle possibilità dei giorni nostri (nuovi attori, nuovi effetti speciali, nuove tecniche di regia) e si scrive una nuova storia.

Non solo. A tutto questo si aggiunga una campagna pubblicitaria "sotterranea", ad uso e consumo dei numerosissimi "fan", fatta di mezze dichiarazioni, foto "rubate dal set", spezzoni delle riprese ed informazioni disparate che circolano in rete dall’inizio della lavorazione del film. Tutto per creare attesa.

L’ultima di queste "indiscrezioni accuratamente pianificate a tavolino" è il rilascio di un trailer "provvisorio" (peraltro decisamente, se non esageratamente, spettacolare), che vi invito a visionare prima di proseguire oltre.


Visto? Bella "carrellata di stereotipi", non vi pare? Ad una velocità da "percezione subliminale" sfilano in ordine sparso: corse in auto, ribellismo giovanile, deserto, motociclette, astronavi, mostri alieni, battaglie spaziali, nemici brutti sporchi e cattivi, sesso, violenza, eroismo e via discorrendo. Esattamente quello che ci si aspetta da una megaproduzione hollywoodiana.

Il fatto è che basta cambiare i costumi, e le scene potrebbero appartenere benissimo ad un qualunque altro film d’avventura. Le esplosioni sulle astronavi sono identiche alle cannonate sui galeoni. Le scazzottate acrobatiche indistinguibili dai duelli alla sciabola. I "cattivi" identicamente brutti, sporchi e sgradevoli: il "male" più piatto ed implausibile, senza sfumature.

Ma, peggio ancora, tutto il progetto nasce alla luce di un ossimoro letale: il futuro che sorge dal passato. Parliamo di un film avveniristico basato su idee, personaggi, situazioni e stereotipi culturali vecchi ormai di quasi cinquant’anni. Il futuro di due generazioni fa. Il futuro di mio padre, accidenti!

La cosa peggiore è che basta guardarsi intorno per rendersi conto che non si tratta di un caso isolato. Molti degli ultimi film "di cassetta" sono state le trasposizioni cinematografiche dei supereroi Marvel: L’Uomo Ragno, i Fantastici Quattro, Iron Man, l’incredibile Hulk. Personaggi che stanno in giro da un bel po’, giusto? Esatto: dagli anni ’60.

La riedizione di "Io sono leggenda" (1964) è stata un successo d’incassi. A dicembre uscirà il remake di "Ultimatum alla terra" (1951). Pochi anni fa hanno provato a resuscitare addirittura "La Guerra dei Mondi" (1953, ma il romanzo è del 1898!), di H. G Wells. Cosa avranno in mente per i prossimi anni? Rifaranno "Plan 9 from Outer Space" di Ed Wood in computer grafica?

Possibile che il nostro immaginario fantascientifico sia ancora fermo agli anni ’60? Che dobbiamo rimasticare fino allo sfinimento sempre gli stessi archetipi? No, affatto. Esistono letteralmente decine, se non centinaia, di ottime storie di fantascienza che aspettano soltanto che Hollywood si degni di trasferirle sullo schermo. Qual’è il problema? Il rischio?

Probabilmente è più rischioso tentare strade nuove che continuare ad investire su uno "zoccolo duro" di appassionati che in passato si sono andati a vedere anche le schifezze, pur di poter dire: "io l’ho visto e posso, con cognizione di causa, parlarne male". Se il film è brutto si riduce comunque il rischio di non rientrare nemmeno dei costi di produzione.

Io ci leggo un segnale importante del declino culturale in cui versa la nostra epoca. L’incapacità di sognare al pari della paura di rischiare. L’avventura, perfino quella virtuale, rinchiusa in un contenitore di confortanti certezze. Eh, già, perché non ci vuole molto ad immaginare il finale di questo nuovo "Star Trek". Sarà qualcosa di molto prossimo a: "…E Vissero Tutti Felici e Contenti".

Trova il cambiamento…

"Trova il cambiamento, prima che il cambiamento trovi te."

Questa frase mi è uscita fuori mentre stavo commentando una discussione on-line su crisi, mercato e finanza. Il senso è che la nostra società, la nostra cultura, le nostre abitudini dovranno cambiare, altrimenti vi saranno comunque costrette, in maniera ben più traumatica, dall’esaurimento delle risorse. Tuttavia rimane un valido suggerimento anche se applicata alle vicende umane e personali.

La cosa interessante, a mio parere, è che nasce come considerazione seria dalla parafrasi un analogo "motto" umoristico, quel "Trova il Signore, prima che il Signore trovi te!", inventato anni fa da Corrado Guzzanti nella parodia dei predicatori televisivi. In genere avviene più spesso il contrario: dal serio all’umoristico.

Un anno fa


Oggi il Forum Cicloappuntamenti compie un anno di vita, e direi che abbiamo di che festeggiare. Come piccolo contributo alla prossima “festa di compleanno” proverò a raccontare la storia di questo “parto”, visto che forse sono l’unico in grado di farlo. Circa un anno fa (parliamo della fine del 2007) diversi processi interni al mondo cicloescursionista/cicloambientalista romano stavano giungendo a maturazione. I dissensi interni all’Associazione Ruotalibera avevano prodotto la proposizione, in sede di Assemblea annuale, di un nuovo Consiglio Direttivo “blindato”, ovvero da approvarsi con la formula “o tutti, o nessuno”. Questo aveva causato scontento e risentimento in diversi soci, che si sentivano non più rappresentati e tagliati fuori dalle fasi decisionali.Rispetto a queste dinamiche mi ero tirato fuori molto tempo prima, ma con sei anni di presidenza di RL alle spalle, ed il palesato dissenso nei confronti di diverse scelte dei membri dei passati CD, continuavo senza volerlo a catalizzare le aspettative di numerosi ciclisti scontenti della perdurante situazione.

Un mio tentativo di “cambiare le carte in tavola”, risalente all’anno prima, era già penosamente naufragato nell’indifferenza generale. Stanco della rigida sacralità del “Calendario annuale” volevo provare ad usare il sito dell’associazione per consentire agli associati di proporre iniziative estemporanee. La cosa non destò alcuna attenzione. Non fu compresa, o non la si volle comprendere.

Contemporaneamente altre realtà molto poco strutturate iniziavano a muovere i primi passi. Frammenti di Critical Mass, aggregati dall’esperienza del Ciclopicnic, stavano cominciando esperimenti cicloturistici abbastanza improvvisati, e le estemporanee uscite su strada dei partecipanti al blog Romapedala avevano da poco dato vita alla “Lokomotiv Ciclonauti“.

In questo contesto, reduci dal tour de force “matrimonio+viaggio di nozze”  io e Manu avevamo organizzato un weekend sul lago Trasimeno, coinvolgendo diversi “Ciclopicnickers”. Sentivo che esistevano aspettative ed esigenze per dar vita a qualcosa di nuovo, ma ancora non avrei saputo dire cosa.

Il problema, per me, era cercare di evitare gli errori del passato, anche a costo di farne di nuovi. Non volevo mettere in piedi una nuova associazione, perché sarebbe stata una sorta di “Ruotalibera2”, ed avrebbe riprodotto col tempo le stesse dinamiche della prima. Non volevo che questa “nuova cosa” nascesse grazie ad un Blog, perché l’esperienza di RomaPedala si era rivelata parimenti limitativa e frustrante. Non volevo basarmi semplicemente su una mailing list, come quella del Ciclopicnic, perché non la consideravo sufficientemente aperta e “visibile” all’esterno.

Su queste basi convocai un po’ di amici ad una riunione di discussione, che si tenne presso la sede dei Ciclonauti e vide la partecipazione di alcuni ciclopicnickers e di un po’ di “scontenti” di Ruotalibera. L’idea sulla quale iniziammo a lavorare era di abbattere le barriere tra gli iscritti alle diverse associazioni, che per abitudine o diffidenza finivano col formare tante piccole “sacche” poco aperte al confronto ed al dialogo.

La prima cosa che nacque da quell’incontro fu l’attuale BiciCalendario, che vide la luce come “Calendario CicloAppuntamenti“. Pensavo di suscitare interesse nei ciclisti romani partendo dal fatto che vi avrebbero trovato tutte le iniziative della propria associazione più quelle di tutte le altre. Da qui ad inserire le attività di piccoli gruppi, decise anche con breve anticipo, il passo era breve.

In realtà, va detto, fu proprio Manu a farmi notare il limite di quella soluzione. “Non è abbastanza interattivo”, mi disse, o qualcosa del genere. In effetti bisognava mettere in grado i partecipanti di comunicare tra loro, per creare uno scambio interpersonale, e di conseguenza una coesione, capaci di dar vita ad iniziative di lungo respiro.

Ci pensai un po’ su, quindi decisi di affidarmi ad uno strumento che non avevo mai usato, e di cui non sapevo quasi nulla: il Forum. Un amico ciclista mi indirizzò sulla piattaforma di ForumFree, e nacque così il “Forum CicloAppuntamenti“. Qui trovate il mio primo messaggio. Ma non tutte le ciambelle riescono col buco.

Di fatto la maggior parte dei neo iscritti ed iscritte a CicloAppuntamenti si persero poco tempo dopo, per disabitudine allo strumento forum, per problemi personali, perché in qualche caso il loro gruppo di riferimento (p.e. i Ciclopicnickers) in quella fase finì col preferire di rimanerne fuori.

Snobbato dalle associazioni, ritenuto (per non so bene quale ragione) in conflitto con RomaPedala e le sue finalità, il neonato Forum rischiava di non avere alcuna visibilità nel panorama ciclistico romano, e di morire d’inedia. È stato il momento peggiore.

A salvare la situazione intervenne un’uscita in mountain bike al monte Guadagnolo, in cui feci la conoscenza di Zorro e Filippo, oltreché di diversi altri soci di Pedalando. I miei ragionamenti sulla possibilità di effettuare escursioni completamente svincolate da tessere, calendari, gerarchie ed obblighi associativi si incontrarono con il montante scontento nei confronti della deriva agonistica di quell’associazione, regalando a questo Forum due delle sue prime colonne portanti.

Il resto è storia, una storia che chiunque lo desideri può consultare direttamente dalle pagine di CicloAppuntamenti. Una storia scritta non dai pochi, ma da tutti quelli che hanno voluto farne parte, ognuno/a a modo suo, con la propria ricchezza e sensibilità. E sono contento che questo Forum riesca ancora ad incarnare il massimo dell’orizzontalità.

Ognuno/a può proporre quello che vuole, e nessuno/a gli/le dirà mai cosa deve e/o non deve fare. Non abbiamo regole se non quelle che ci diamo noi stessi, e che desideriamo condividere con gli altri. Siamo senza governo, e ci governiamo da soli. A me questo sembra fantastico, e sono felice di aver contribuito a farlo nascere.

Buon compleanno, Cicloappuntamenti!

Se un mattino d’autunno un TG2


Se un mattino d’autunno un TG2 manda in onda un servizio di un minuto basato su una tua idea, cominci a domandarti un po’ di cose. La prima è, ovviamente, quanto dell’idea iniziale è riuscito a passare. Cosa si può dire in un minuto? Cosa riesce ad arrivare a chi ascolta? L’idea di cui stiamo parlando è il G.S.A. “Grande Sentiero Anulare”, denominazione volutamente sopra le righe per un giro ad anello, da effettuarsi in bicicletta, che cuce insieme diversi parchi e piste ciclabili romani, consentendo di passare una giornata quasi interamente immersi nel verde, “circumnavigando” il centro di Roma.

Da un certo punto di vista Daniela, la giornalista che mi ha contattato e che ha curato il servizio, ha fatto un ottimo lavoro di “impacchettamento” del prodotto, condensando le informazioni essenziali ed inserendo in sequenza molte belle immagini. Il tutto anche considerando le difficoltà di gestire la situazione “sul momento”, per lei le riprese, per me innanzitutto la soddisfazione dei partecipanti al giro.

Rimane tuttavia, a cose fatte, la sensazione di qualcosa di troppo veloce per essere realmente afferrato e compreso. Come vedersi sfrecciare davanti un ciclista senza riuscire ad individuare se è qualcuno che conosci, domandarsi da dove viene, e dove stia andando, senza trovare risposte.

C’è, da un lato, il perenne limite di veicolare esperienze reali attraverso un  qualsivoglia medium, accettando l’impoverimento e la corruzione che esso stesso impone. Dall’altro l’accettazione del fatto che proprio il medium, il formato imposto, snaturino a tal punto il senso di quello che si vuole raccontare da trasformarlo ipso facto in qualcosa d’altro.

Prendiamo l’andare in bicicletta. Togliamo il contatto fisico con manubrio, sellino e pedali. Togliamo il costante gioco di equilibrio che ci fa contemporaneamente rimanere dritti e viaggiare in avanti. Togliamo l’aria sul volto, gli odori, i suoni. Togliamo l’euforia dello sforzo per conquistare le salite ed il brivido adrenalinico delle discese. Togliamo la dilatazione temporale necessaria per apprezzare tutte le varie sfumature dell’esperienza. Cosa resta? Cosa siamo riusciti a trasmettere in quel minuto di TG? Cos’è arrivato a chi di bici non sa nulla?

Per questo non mi sento di condividere fino in fondo gli entusiasmi dei molti compagni di pedalate che si sono congratulati con me. Certo, un briciolo di attenzione è pur sempre qualcosa. Più del niente a cui siamo per solito abituati. Ma un minuto di TG, alle otto di una domenica mattina, non sposterà di un millimetro la disastrosa situazione che i ciclisti della capitale vivono ogni giorno.

“And what have you got at the end of the day?
What have you got to take away?
A bottle of whisky and a new set of lies
Blinds on the window and a pain behind the eyes”
(Dire Straits – “Private investigations”)

P.s.: per chi avesse voglia di approfondire una riflessione amara e critica sull’informazione televisiva capita “a fagiuoloil post odierno di Leonardo, scritto col suo consueto humor agrodolce al retrogusto di vetriolo.

Sull'oppressione

"Quando una minoranza opprime una maggioranza, si può chiamare in molti modi: Dittatura, Oligarchia, Tirannide…
Quando invece è una maggioranza ad opprimere una minoranza, si può anche chiamare Democrazia"
(M.P.)


Questo aforisma l’ho concepito diversi anni fa, ma fin qui non l’ho mai trovato citato a nome di altri, per cui… è mio.

Danzando sul ghiaccio sottile

"You walk upon the high wire
You’re a dancer on thin ice
You pay no heed to the danger
And less to advice"

(Dire Straits – "Love over Gold")

Alle volte ho la sensazione di vivere in un sogno, una "bolla", qualcosa di completamente irreale pronto a spezzarsi in un istante, proprio come il "ghiaccio sottile" della canzone dei Dire Straits. Ma il senso di pericolo non riguarda una situazione individuale e circoscritta, bensì l’intero pianeta. E’ come se tardassimo a risvegliarci da un sogno alcoolico, uno stordimento durato decenni, ed anche a fronte di ragionamenti del più palese buon senso continuassimo ad affidarci alle braccia di Morfeo, incuranti di quello che potrà accadere. O, al più, muti spettatori della corsa verso il disastro.

Ora l’Agenzia Internazionale per l’Energia, non certo le "solite Cassandre", dirama un rapporto assolutamente preoccupante sullo stato dell’ambiente e delle risorse energetiche, in sostanza avvalorando quanto sostenuto fin dagli anni ’70 dal Club di Roma nel "Rapporto sui limiti dello Sviluppo", ed in seguito dalle scuole di ricerca sul "Picco di Hubbert" e dai teorici della "Decrescita". Il tutto è ottimamente riassunto da Frank Galvagno sul blog di ASPO-Italia.

Cercando di riassumere: va male. Male nel senso che tutto quello che si è immotivatamente dato per scontato negli scorsi decenni, ignorando ottusamente quello che mostravano le proiezioni scientifiche, andrà rivisto, nel breve periodo. Male perché l’intera organizzazione sociale, urbanistica, territoriale e demografica planetaria si è fin qui basata su paradigmi letteralmente infondati.

Il primo paradigma è quello della "crescita". Tutta l’economia è basata sull’assunto che la "crescita" continuerà indefinitamente. E da cosa dipende la "crescita"? Sostanzialmente dall’approvvigionamento energetico. Crescerà quest’ultimo indefinitamente? Impossibile, dato che il pianeta è un "sistema finito" e stiamo bruciando risorse non rinnovabili che andranno incontro prima o poi all’esaurimento. Più prima che poi.

Allora di cosa stiamo ragionando? Lo vediamo si o no il burrone in fondo alla discesa? Vogliamo cominciare a frenare? E se sì, quando?

La verità e che vorrei essere ottimista ma non ci riesco. Il nostro paese ha una classe politica anziana ed incapace di guardare ad un futuro che si sta avvicinando a vista d’occhio e ci sbatterà addosso con l’impatto di un camion a pieno carico. I "balletti" sulla poltrona di un ente ridicolo e privo di poteri come la "commissione di viglilanza RAI" danno il segno di una perdita totale del senso delle cose e delle proporzioni.

Ho aperto con una canzone, voglio chiudere con un’altra. Chi ha più di quarant’anni se la ricorderà, è di Edoardo Bennato.

"EAA ma come andiamo forte
eaa ormai nessuno ci può fermar

EAA giù per la discesa
eaa ormai nessuno ci può fermar

EAA dritti verso il burrone
eaa ormai nessuno ci può fermar

EAA ho parlato col conducente
e mi ha detto in un orecchio
che ha i freni rotti e che non vanno più

EAA mi hanno detto che non è sua la colpa
ma che lui farà il suo dovere fino in fondo
e poi si vedrà

EAA giù per la discesa, dritti verso il burrone
ormai nessuno ci può fermar

EAA mi sono distratto per un momento
e il conducente ha premuto un bottone
e si è catapultato giù.

EAA ma chi se lo aspettava
che era un pullman così attrezzato
che quello si catapultava giù

EAA gli altri continuano a intonare cori
non si sono ancora accorti di niente
e continuano a cantar

EAA vorrei prendere io in mano il volante
però poi ripensandoci bene
ma chi me lo fa far

EAA qui le cose si mettono male
quasi quasi premo anch’io quel bottone
e mi catapulto giù

EAA ma come vanno forte
non si sono ancora accorti di niente
e continuano a cantar "

T. S. Eliot – East Coker

In my beginning is my end. In succession
Houses rise and fall, crumble, are extended,
Are removed, destroyed, restored, or in their place
Is an open field, or a factory, or a by-pass.
Old stone to new building, old timber to new fires,
Old fires to ashes, and ashes to the earth
Which is already flesh, fur and faeces,
Bone of man and beast, cornstalk and leaf.
Houses live and die: there is a time for building
And a time for living and for generation
And a time for the wind to break the loosened pane
And to shake the wainscot where the field-mouse trots
And to shake the tattered arras woven with a silent motto.

Me lo avessero detto, a scuola, che un giorno mi sarei appassionato ai poeti inglesi, penso non ci avrei creduto. Magari “appassionato” non è la parola giusta (“affascinato” è più esatto) ma mi è accaduto di scoprire versi incredibili, che raramente ho incontrato nella mia madrelingua.

Magari è semplicemente per mia ignoranza, oppure il fascino di una lingua straniera, la cui parziale comprensione apre fantasia ed immaginazione a possibilità più ampie di quelle consentite da un testo perfettamente comprensibile, o forse ancora l’affinità dei temi trattati, e della forma, con la mia personale sensibilità. Non so.

In my beginning is my end. Now the light falls
Across the open field, leaving the deep lane
Shuttered with branches, dark in the afternoon,
Where you lean against a bank while a van passes,
And the deep lane insists on the direction
Into the village, in the electric heat
Hypnotised. In a warm haze the sultry light
Is absorbed, not refracted, by grey stone.
The dahlias sleep in the empty silence.
Wait for the early owl.

Sono incappato in T. S. Eliot, o per essere più precisi in questo “East Coker”, seconda parte di “Four quartets”, quasi casualmente, diversi mesi fa, grazie ad un blog. A lettura appena iniziata mi colpì la musicalità dei versi, i suoni stessi delle parole, alcune erano note ed amiche, altre incomprensibili ed arcane, ma forse proprio per questo affascinanti.

Ricordo che, da solo, cominciai a leggerlo a voce alta solo per ascoltare quei suoni, con brandelli di significato, evocati dalle parole note, che si mescolavano in un caos turbinoso. Magari non sarà la maniera più ortodossa di approcciare la poesia, ma in quel momento un ponte era stato gettato, un’affinità sancita.

In that open field
If you do not come too close, if you do not come too close,
On a summer midnight, you can hear the music
Of the weak pipe and the little drum
And see them dancing around the bonfire
The association of man and woman
In daunsinge, signifying matrimonie—
A dignified and commodiois sacrament.
Two and two, necessarye coniunction,
Holding eche other by the hand or the arm
Whiche betokeneth concorde. Round and round the fire
Leaping through the flames, or joined in circles,
Rustically solemn or in rustic laughter
Lifting heavy feet in clumsy shoes,
Earth feet, loam feet, lifted in country mirth
Mirth of those long since under earth
Nourishing the corn. Keeping time,
Keeping the rhythm in their dancing
As in their living in the living seasons
The time of the seasons and the constellations
The time of milking and the time of harvest
The time of the coupling of man and woman
And that of beasts. Feet rising and falling.
Eating and drinking. Dung and death.

Eccoli, i miei temi: la vita, la morte, la danza delle emozioni. Quello che ho provato a raccontare, in estrema sintesi, con “creature di carne e sangue, ossa curvate dal tempo …e sogni di felicità”. Il susseguirsi dei giorni, delle stagioni, il ciclo della vita.

Dawn points, and another day
Prepares for heat and silence. Out at sea the dawn wind
Wrinkles and slides. I am here
Or there, or elsewhere. In my beginning.

Il primo movimento si chiude con l’alba, l’inizio. E ce ne sono altri quattro. Troppi per poterli anche solo raccontare senza scrivere un libro. Ascoltate come si chiude il secondo, ed inizia il terzo:

The only wisdom we can hope to acquire
Is the wisdom of humility: humility is endless.

The houses are all gone under the sea.
The dancers are all gone under the hill.

III

O dark dark dark. They all go into the dark,
The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant,
The captains, merchant bankers, eminent men of letters,
The generous patrons of art, the statesmen and the rulers,
Distinguished civil servants, chairmen of many committees,
Industrial lords and petty contractors, all go into the dark,
And dark the Sun and Moon, and the Almanach de Gotha
And the Stock Exchange Gazette, the Directory of Directors,
And cold the sense and lost the motive of action.
And we all go with them, into the silent funeral,
Nobody’s funeral, for there is no one to bury.

Questo è ciò che ci attende: la morte, la scomparsa, la perdita di tutto, anche della memoria di ciò che siamo stati. E non solo noi, ma tutto ciò che è. Le case scomparse sotto il mare, i danzatori sotto la collina. Ed anche questa, a suo modo, è una danza, quantomeno la parte finale, il compimento.

Il terzo movimento si chiude con una profezia sul passaggio, sulla necessaria perdita di tutto quello che abbiamo per giungere a ciò che ci manca, sulla necessaria perdita di sé, per poter diventare ciò che non siamo.

You say I am repeating
Something I have said before. I shall say it again.
Shall I say it again? In order to arrive there,
To arrive where you are, to get from where you are not,
You must go by a way wherein there is no ecstasy.
In order to arrive at what you do not know
You must go by a way which is the way of ignorance.
In order to possess what you do not possess
You must go by the way of dispossession.
In order to arrive at what you are not
You must go through the way in which you are not.
And what you do not know is the only thing you know
And what you own is what you do not own
And where you are is where you are not.

Il quarto movimento concerne la fede cristiana, ed è quello a me più lontano. Non sono portato per la trascendenza, ma c’è almeno una frase che mi fa riflettere: “per poter essere guarito, il nostro male deve prima peggiorare”. Nel quinto movimento c’è il ritorno al presente, la conclusione del viaggio che riporta al punto di partenza, il viaggio stesso.

Home is where one starts from. As we grow older
The world becomes stranger, the pattern more complicated
Of dead and living. Not the intense moment
Isolated, with no before and after,
But a lifetime burning in every moment
And not the lifetime of one man only
But of old stones that cannot be deciphered.
There is a time for the evening under starlight,
A time for the evening under lamplight
(The evening with the photograph album).
Love is most nearly itself
When here and now cease to matter.
Old men ought to be explorers
Here or there does not matter
We must be still and still moving
Into another intensity
For a further union, a deeper communion
Through the dark cold and the empty desolation,
The wave cry, the wind cry, the vast waters
Of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.

Penso che un giorno mi piacerebbe cimentarmi con la traduzione di questo lavoro, ma dovrò prima trovare molto, molto tempo a disposizione. Chissà… Nel frattempo, se siete arrivati fin qui, potrei anche suggerire di leggervelo in versione integrale, in tutto il suo splendore.

Analfabetismo, andata e ritorno

Nonostante gli anni e l’esperienza, continuo a sorprendermi quando scopro che i mali evidenti di questo nostro disgraziato paese sono spesso lo specchio di un disagio (ma andrebbe più propriamente definito un "disastro") ben più profondo e nascosto. Un po’ come vedere solo la punta di un iceberg ed essere completamente ciechi rispetto alla montagna di ghiaccio sottostante.

Poi accade di scorgere il disegno complessivo, ed ecco che i vari pezzi del puzzle vanno al loro posto, scoprendo il mostro che minaccia di inghiottirci tutti. Ecco che le preoccupazioni si dimostrano fondate, che le "crepe" smettono di apparire come difetti superficiali, ma si manifestano come fratture profonde, che l’intero edificio/paese in cui siamo fiduciosamente cresciuti si mostra fatiscente e prossimo al collasso strutturale.

Quando accade ciò si comincia a fare l’inventario delle risposte sbagliate. Ad esempio alla domanda sul perché in Italia si legga così poco rispetto agli altri paesi la risposta che mi sono sempre dato è "perché siamo pigri". Sbagliato. Alla domanda sul perché abbiamo una larga fetta della classe politica ignorante, incompetente e ruffiana ho sempre risposto "è una scelta degli elettori farsi rappresentare dai propri simili". Sbagliato anche questo.

Eppure i segnali sono avvertibili da tutti, evidenti come markers tumorali. Può essere che in un paese in cui la scuola è disperatamente inadeguata si taglino ulteriormente i finanziamenti? Può essere che il quotidiano più venduto sia, ormai da decenni, "la gazzetta dello sport"? Può essere che gli errori di ortografia e sintassi si moltiplichino ovunque, mentre l’aumento dei livelli di scolarizzazione avrebbe dovuto causarne la progressiva scomparsa?

Non sarà che siamo vissuti per decenni in una bolla, in un sogno? Non sarà che abbiamo date per scontate troppe cose che scontate non erano affatto, come l’istruzione diffusa e la "scolarizzazione di massa"? Non sarà che, semplicemente, dobbiamo buttare alle ortiche l’idea che avevamo, e che abbiamo, del nostro "sistema paese"?

Ad esempio spiegherebbe qualcosa la tesi che metà della popolazione italiana sia poco più che analfabeta? Lo so, sembra un’esagerazione. Quando si pronuncia il termine "analfabetismo" viene in mente l’Africa, o in genere i paesi del terzo mondo: aree geografiche in cui l’assenza di risorse da investire nella scolarizzazione si coniuga con stili di vita orientati alla mera sussistenza, che non richiedono un bagaglio culturale evoluto.

Ma qualche giorno fa, stimolato da un commento in una discussione sul sistema scolastico, ho iniziato a frugare in rete per verificare la reale consistenza dell’analfabetismo "di ritorno" nel nostro paese, e non ho tardato a trovare questa conferenza di Tullio De Mauro del 2006. È stato un po’ come quando in un giallo, verso la fine del romanzo, si scopre chi è l’assassino.

Ne copio un estratto:

L’indagine Adult Literacy and Life Skills (ALL n.d.t.) è un’indagine osservativa condotta nel 2003-04 su un campione stratificato di popolazione dai 16 ai 65 anni in diversi paesi con 5 questionari progressivi, da uno assai elementare a uno piuttosto complesso (cut). L’indagine ci dice che nella comprensione dei testi in prosa il 46,1% della popolazione italiana si trova in condizione di illetteratismo, cioè non supera il livello 1, il 35,1% si ferma al livello 2; il livello 3 è raggiunto dal 16,5%; soltanto il 2,3% della popolazione giunge ai livelli 4 e 5, di piena "letteratezza".
Agli estremi della scala vediamo che sono circa 2 milioni, pari a circa il 5% della popolazione in età postscolastica, le persone non in grado nemmeno di leggere il primo questionario. E scopriamo che più del 30% di diplomati e più del 20% di laureati (dico laureati) si trovano ai livelli uno e due del questionario, tra gli analfabeti e semianalfabeti funzionali.
(cut) Il fatto è che abbiamo in Italia, tra persone analfabete primarie, incapaci affatto di leggere, e persone in grado soltanto di compitare e firmare, il 46, 1%, quasi la metà della popolazione, largamente al di sotto della soglia di alfabetizzazione funzionale fissata dall’UNESCO più di mezzo secolo fa.
Se si aggiunge a questa massa l’altro 35,1% della popolazione che si arresta al livello 2 (definito "a rischio di analfabetismo funzionale"), l’indagine ALL conclude che soltanto un po’ meno del 20% della popolazione è in condizione di mediocre o buon possesso delle capacità alfabetiche funzionali.

Cosa vuol dire 46% della popolazione "al di sotto della soglia di alfabetizzazione funzionale"? Molto semplicemente: nel migliore dei casi sanno leggere, ma in maniera molto rudimentale, fanno fatica a decifrare i testi scritti, ed ancor di più a comprenderli. Questo cambia completamente il quadro generale: moltissimi italiani non leggono i giornali perché non ne sono in grado, altro che pigrizia!

Gli "analfabeti" sono in realtà relativamente pochi, ma gli "illetterati" sono, al contrario, milioni. Tagliati fuori da qualsiasi possibilità di accedere a conoscenze scritte, ai libri, ai giornali, condannati ad una comprensione minima e parziale di ciò che accade nella nostra ormai complessissima realtà, con la televisione come unica fonte (pseudo)informativa.

Lo confesso, per me è un modo di vivere totalmente incomprensibile, eppure non ho motivo di dubitare della validità dello studio, che oltretutto disegna un quadro molto chiaro, coerente e devo dire agghiacciante della situazione attuale.

Abbiamo una classe politica impresentabile? Che problema c’è, dal momento che quasi metà dell’elettorato non è in grado di verificare la fondatezza delle affermazioni dei governanti? Che speranza può avere un paese che si affida ciecamente a quanto gli viene raccontato dalla televisione?

Quando la civiltà ellenica formulò il concetto di democrazia, di governo del popolo, aveva in mente un popolo attento, consapevole, orgoglioso di esercitare questo diritto. Ma oggi, in Italia, democrazia è un concetto svuotato di senso, svuotato dal fatto che il popolo che dovrebbe esercitare il governo della nazione è sempre più incapace anche solo di comprendere le scelte che di volta in volta vengono operate dalla classe politica cui delega il governo del paese.

Sembra un paradosso: siamo una delle nazioni più ricche del mondo, ma la nostra cultura è sempre più povera. Cosa ce ne faremo di ricchezze e risorse se non avremo l’intelligenza ed i saperi necessari a servircene? Ci aspetta un futuro di declino sempre più accelerato, perché la scelta tra Civiltà e Barbarie, mentre eravamo distratti da chissà cos’altro, è già stata fatta.