Noi siamo il traffico

A pochi mesi dalla pubblicazione di Shift Happens, Critical Mass at 20 negli States, arriva nelle librerie la traduzione italiana: Critical Mass – Noi siamo il traffico (20 anni di Bike Revolution) a cura dell’editore Memori. L’edizione nostrana risulta “alleggerita” rispetto a quella USA di un buon terzo degli scritti, scelta editoriale volta ad evitare una levitazione eccessiva del prezzo di copertina.

Non altrettanto alleggerita, tuttavia, nei contenuti, dato che l’opera di scrematura è stata effettuata con cura certosina dall’editore assieme a Paolo Bellino aka Rotafixa, (un altro degli italiani che ha visto un suo saggio pubblicato nel volume) eliminando unicamente i contributi più ridondanti.

L’idea di Chris Carlsson, nel pubblicare il volume, era analizzare se e come le idee di Critical Mass fossero penetrate nel tessuto sociale e culturale, innescando cambiamenti nella nostra maniera collettiva di leggere, percepire ed interagire con la realtà. Ieri ho avuto l’ennesimo riscontro di quanto potente questa “vision” fosse fin dall’inizio.

Abbiamo infatti ripercorso, su proposta dell’amico Sergio Trillò, per l’ennesima volta l’anello del GSA – Grande Sentiero Anulare, in un’edizione speciale di Santo Stefano (GSSA)  a sole due settimane dalla “LACU Verbose Edition” di metà dicembre cui avevano partecipato più di 70 persone. Il dilemma di Sergio, nel riproporla, verteva sul timore di scarso afflusso, ma è stato completamente ribaltato dal risultato reale: più di cento partecipanti, un record assoluto per questo tipo di iniziativa.

Come si può guidare un gruppo di cento persone dentro una città (sia pure passando in prevalenza attraverso parchi urbani) piena di “imbuti” e rallentamenti? La risposta è semplice: non si può. L’unica alternativa è che il gruppo si guidi da solo, seguendo “quello che sta in testa” esattamente come si fa nelle Critical Mass, curando unicamente di non forzare l’andatura e di tener d’occhio non solo quelli che stanno davanti, per sapere dove andare, ma anche quelli che stanno dietro, per non perdersi pezzi del gruppo.

La sensazione che ho avuto ieri, pur senza nulla togliere alle capacità di guida di Sergio, maturate attraverso decine di escursioni nel corso degli anni, era che il gruppo letteralmente si guidasse da solo. Che una volta dato il là, ovvero creato l’appuntamento e l’aspettativa, il fatto che ci fosse o meno una guida “ufficiale” in testa al gruppo diventasse secondario. Di fatto l’aver partecipato, per molti dei presenti, alle Critical Mass mensili, ha significato far proprio quell’approccio libero e leggero.

Con tutti i distinguo e le differenze l’esperienza di ieri è stato un ulteriore passo nel colmare la distanza tra una Critical Mass ed un gruppo organizzato. La disponibilità della traccia GPS del percorso, oltre al fatto che molti dei partecipanti lo conoscessero già, ha fatto sì che anche “grumi” di ciclisti attardati potessero ricongiungersi al gruppone nelle rare soste, senza la necessità di mantenere un passo troppo lento ed uniforme che ci avrebbe rallentato eccessivamente.

Per me, in qualità di ideatore del percorso, un’ulteriore conferma del gradimento collettivo del tracciato ed un consolidamento nella speranza che un bel giorno questo itinerario possa diventare davvero fruibile all’intera cittadinanza, mediante una mappatura ufficiale, la presenza di segnaletica nelle svolte, attraversamenti semaforici dedicati ove necessari ed un po’ di pubblicità sui siti istituzionali.

Per ora accontentatevi delle foto dei fortunati coi quali l’ho condiviso ieri.

UPDATE (2013): il materiale aggiornato sul GSA è ora reperibile sul relativo blog.

Chomsky e il controllo sociale

Quanto più a lungo ti affanni a cercare di capire cosa stia succedendo al mondo che ti circonda, tanto più ti stupisci quando scopri che qualcuno l’ha già descritto e spiegato con un dettaglio ed una precisione estreme.
E più Chomsky racconta la sua America, più io ci leggo l’Italia degli ultimi vent’anni, soggiogata dalla dominazione mediatica del berlusconismo e dei suoi mostri.
Probabilmente non eravamo un grande paese nemmeno prima, altrimenti l’avremmo impedito, ma vedere come siamo ridotti oggi è semplicemente desolante.

Il Ramo di Corallo

Noam Chomsky

 

L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche.
Noam Chomsky
1 – La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo…

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I costi dell’automobile

Finalmente qualcuno che dà dei numeri reali… peccato manchino ancora i costi per la manutenzione della rete stradale, che farebbero levitare ancora di più quanto già spendiamo per i nostri bei giocattoloni a quattro ruote.

Piciclisti

Vi siete mai chiesti quanto costi davvero un’automobile?

Cioè, una volta che avete firmato il contratto con la concessionaria e avete pagato il costo per acquistarla fisicamente, quanto resta ancora da pagare?

Continua su www.senzauto.it

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Pasolini, la città e il presente

Uno dei miei sogni, fin da ragazzo, è sempre stato quello di conoscere il futuro. Oggi, da adulto, sogno di viaggiare nel futuro per poter finalmente comprendere il presente, quello che mi accade intorno. Il mondo si sta trasformando troppo in fretta, e quello che avviene oggi potrà essere compreso solo sulla distanza. Forse. Intanto continuiamo a non comprendere neppure quello che è accaduto “ieri” (m.p.).


Non più tardi di un paio di giorni fa, girando su Facebook, mi sono imbattuto in questo video di Per Paolo Pasolini, girato nel 1974, sulle dune di Sabaudia. Guardatelo, prima di proseguire nella lettura.

Eccolo lì, un fragile intellettuale con le mani in tasca sferzato dal vento, che riflette sui propri errori interpretativi, e sulla cecità che lo circonda. Quello stesso vento che porta via le sue parole e le cancella. Pasolini esprime in questo filmato un’intuizione potentissima, che non riesce tuttavia a scalfire il pensiero mainstream, non getta radici.
La conclusione del suo ragionamento è terrificante:

“Posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questo è avvenuto talmente rapidamente che in fondo non ce ne siamo resi conto. E’ avvenuto tutto in questi cinque, sei, sette, dieci anni. E’ stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. E adesso, risvegliandoci, forse, da quest’incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”

Dell’Italia che Pasolini ha visto sparire, la mia generazione, nata negli anni ’60, non ha potuto cogliere che tracce, frammenti. Il lavoro di cancellazione portato avanti nella logica del consumo e della distruzione a ritmi serrati non ci ha lasciato che briciole a cui aggrapparci, insufficienti a comprendere il quadro complessivo.

Pasolini è stato fatto sparire, nascondendo la sua grandezza dietro uno scandalo dai contorni sessuali, il suo pensiero eretico abbandonato nel dimenticatoio, mentre l’ideologia dei consumi ha continuato a marciare incontrastata completando l’opera di annientamento della memoria collettiva, di appiattimento.

Noi “baby boomers” siamo i figli del “mondo nuovo”, del consumismo, dell’errata convinzione che un passato di povertà dovesse essere cancellato e dimenticato, che il pianeta tutto dovesse avviarsi su una strada diversa, delle “magnifiche sorti e progressive”. Un pezzo alla volta siamo stati espropriati delle nostre radici e tradizioni, del nostro passato, della civiltà rurale e contadina dei nostri genitori e nonni.

Ed ora che il “nuovo” perde il suo slancio, che le promesse “inesauribili” risorse energetiche iniziano a declinare, che il territorio è stato ricoperto di cemento, ferito, massacrato. Ora che le risorse idriche sono messe in ginocchio da sprechi, prelievi forzati, cambiamenti climatici, che le città si sono rivelate giungle urbane circondate da quartieri dormitorio dove ogni socialità è negata, ora che va in crisi l’idea di futuro, in base al quale le nostre vite sono state modellate dalla società, cosa ci rimane?

Non so se faremo in tempo a morire, prima che questo ennesimo grande inganno sia disvelato in tutto il suo orrore. Non so se vivremo una serena vecchiaia o precipiteremo nell’olocausto che stiamo pazientemente, e stolidamente, costruendo con le nostre stesse mani. Non so se faremo in tempo a sparire prima che i nostri figli, e i nostri nipoti, possano chiederci ragione di tanta ottusa cecità.

Il paradosso del prigioniero

Si definisce “dilemma (o paradosso) del prigioniero” una situazione in cui, non potendo condividere e concordare con altri soggetti una soluzione ottimale, si finisce per cedere alla sfiducia ed adottare la soluzione peggiore possibile. Traggo la definizione classica da Wikipedia.

“Due criminali vengono accusati di aver commesso un reato. Gli investigatori li arrestano entrambi e li chiudono in due celle diverse, impedendo loro di comunicare. Ad ognuno di loro vengono date due scelte: confessare l’accaduto, oppure non confessare. Viene inoltre spiegato loro che:

  1. se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l’altro viene però condannato a 7 anni di carcere.
  2. se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 6 anni.
  3. se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi.”

La soluzione ottimale per entrambi sarebbe non confessare (1 anno), ma siccome questo non può essere concordato col complice, o non ci si può fidare di lui, allora la scelta probabilmente meno penalizzante diventa confessare (6 anni). Si giunge perciò al paradosso per cui si sceglie consciamente una pena maggiore della minima prevista, pur di non rischiare un ulteriore aggravio.

Uso spesso questo paradosso per spiegare come siamo arrivati all’invivibilità dei nostri centri urbani, alle code e alle congestioni da traffico che ci affliggono quotidianamente. Tutto nasce dal profondo individualismo che ci caratterizza come popolo, e dall’incapacità di una comunicazione orizzontale tra simili, completamente annientata dalla comunicazione verticale operata dai mass media.

In buona sostanza la soluzione migliore per gli spostamenti urbani è attrezzare una rete di mezzi pubblici efficiente e limitare al massimo l’utilizzo ed il possesso del mezzo privato mediante tassazione e/o la disponibilità di servizi quali il “car-sharing” diffuso. Questo equivale all’opzione “nessuno confessa” del paradosso, ovvero una soluzione collettivamente concertata che porti il massimo del risultato col minimo della spesa.

Purtroppo l’efficienza del trasporto pubblico entra direttamente in conflitto con il possesso diffuso di auto private. Il trasporto privato produce un’occupazione di spazi (vetture in movimento ed in sosta, spesso in doppia fila) incompatibile con un’efficiente gestione degli spazi urbani, e maggiormente penalizzante per il trasporto pubblico.

(questa immagine illustra con evidenza il diverso spazio occupato in strada da uno stesso numero di persone quando si muovano in bici, automobile o in autobus)

In buona sostanza, se non ci fosse trasporto privato, ma solo trasporto pubblico, potremmo percorrere uno stesso tragitto in 10 minuti, ma siccome tutti decidono, autonomamente, di acquistare un’automobile privata, allora tra il restringimento delle carreggiate prodotto dalle auto in sosta e l’intasamento prodotto da quelle in movimento si crea una condizione di ingorgo che fa allungare i tempi di percorrenza a 40 minuti per l’auto privata ed un’ora per il mezzo pubblico (penalizzato ulteriormente dalle dimensioni delle vetture e dalla necessità di effettuare fermate).

In questa condizione non c’è modo che il trasporto pubblico venga percepito come vantaggioso, di conseguenza gli utenti continuano a calare, l’introito dell’emissione di biglietti non è più sufficiente a coprire i costi di gestione e le aziende che lo gestiscono entrano in deficit.

Paradossalmente i costi (spesso occulti o non percepiti) di possesso, gestione e manutenzione dell’auto privata sono enormemente superiori a quelli connessi al trasporto pubblico, ma risultano in gran parte slegati rispetto all’utilizzo e legati al possesso. Nel momento in cui si accetta di possedere un’automobile il costo di percorrenza della singola tratta può risultare inferiore a quello necessario per l’accesso al trasporto pubblico (soprattutto a causa della levitazione del costo dei biglietti dovuta allo scarso utilizzo degli stessi).

Si arriva quindi alla paradossale conclusione per cui i tempi di percorrenza attuali, in città, pur effettuati con veicoli teoricamente capaci di velocità elevatissime, sono più lunghi di quelli che si registravano all’inizio del XX secolo, quando ci si spostava solo per mezzo di biciclette e tram elettrici. In compenso abbiamo riempito la città di scatoloni metallici a quattro ruote in sosta in ogni dove, e l’abbiamo resa pericolosa ed infruibile alle categorie più deboli, anziani e bambini in testa, oltreché ben più sporca ed inquinata.

Si poteva fare diversamente? Certo, e c’è chi l’ha fatto. Ci sono città dove il possesso dell’auto privata non è impedito, ma nemmeno incentivato come qui da noi (per fare un favore ai fabbricanti di automobili ed alle compagnie petrolifere). Città dove bisogna documentare che si dispone di un posto auto dove parcheggiare il veicolo, e la sosta in strada non è consentita.

Città dove i mezzi pubblici viaggiano puntuali, tanto che ci sono le tabelline con gli orari ad ogni fermata. Ed il servizio è a tal punto efficiente da consentire ad una buona percentuale di famiglie di non essere obbligate a possedere un’auto propria, rendendo disponibile un economico, capillare ed efficace servizio di car-sharing.

Non bisogna andare lontano, basta varcare un solo confine. Stanno in Svizzera.

Concludo con una fiaba cinese che porto con me dai tempi della scuola elementare. Parla di paradiso ed inferno, e di come la differenza tra i due possa dipendere unicamente dai nostri comportamenti e dalle nostre scelte quotidiane. E anche di come l’egoismo, in un contesto sociale, risulti dannoso.

“Un Mandarino cinese venuto a morte, mentre s’avviava al Paradiso, ebbe voglia di visitare l’Inferno. Fu accontentato e condotto al soggiorno dei dannati. Si trovò così in un’aula immensa, con tavole imbandite, su cui fumava, profumando l’aria, il cibo nazionale in enormi vassoi: il Riso, il diletto e benedetto Riso.

Attorno alle tavole sedevano innumerevoli persone, ciascuna munita di bacchette di bambù per portare il Riso alla bocca. Ogni bacchetta era lunga due metri e doveva essere impugnata a una estremità. Ma, data la lunghezza della bacchetta, i commensali, per quanto si affannassero, non riuscivano a portare il cibo alla bocca. Tutti erano furibondi, bestemmiavano e si affannavano, ma senza alcun risultato.

Colpito da quello spettacolo di fame nell’abbondanza, il Mandarino proseguì il suo cammino verso il soggiorno dei Beati. Ma quale non fu la sua sorpresa nel constatare che il Paradiso si presentava identico all’Inferno: un ampio locale con tavole imbandite, vassoi enormi di riso fumante, da mangiarsi con bacchette di bambù lunghe due metri, impugnate ad una estremità.

L’unica differenza stava nel fatto che ciascun commensale, anziché imboccare se stesso, dava da mangiare al commensale di fronte, di modo che tutti avevano modo di nutrirsi con piena soddisfazione e serenità.”

Il mondo nascosto

Ieri abbiamo percorso nuovamente il G.S.A. Ormai per me è una sorta di tormentone. Questa volta il pretesto era quello di uno “stage itinerante” per il LACU – Libero Ateneo del Ciclismo Urbano, un progetto didattico nato da una costola del movimento #salvaiciclisti.

In realtà di “didattico”, al di là della breve chiacchierata iniziale, non c’è stato moltissimo… a parte il fatto stesso di percorrere il tracciato, e vedere coi propri occhi tante realtà delle quali spesso si è solo sentito parlare, marginalizzate ed abbandonate da una crescita urbana tutta incentrata sull’uso dell’automobile.

Nonostante la gelida e ventosa giornata autunnale la proposta è stata accolta da passa sessanta persone. Fin dalla partenza mi sono reso conto di come la voglia di divertirsi fosse prevalente, e non ci fosse modo di inframmezzare noiosi ragionamenti sulla ciclabilità, a rischio oltretutto di perdere tempo prezioso nel periodo dell’anno con le giornate più corte.

Dall’inaugurazione del percorso, avvenuta nel lontano 2006 (qui in una pagina statica dell’ormai estinto blog Romapedala), pochissime cose sono cambiate, e quasi nulla è stato sistemato, fatta salva la lodevolissima eccezione del passaggio tra Tor Fiscale e parco degli Acquedotti, realizzata non già dalle istituzioni ma da un gruppo di volontari.

Nel frattempo il tempo sta avendo ragione di infrastrutture realizzate con metodi raffazzonati e materiali scadenti. In assenza di qualsivoglia cura e/o manutenzione da parte degli attuali amministratori le poche e malfatte piste ciclabili si stanno lentamente sgretolando, e le passate di vernice rossa sui marciapiedi sbiadiscono per l’esposizione alle intemperie.

Ma ci sono altre e più sottili differenze che saltano all’occhio dei più “anziani”, e forse è un po’ servita a farmele comprendere la presenza di un vecchio compagno di pedalate, Mimmo, col quale iniziai il mio percorso di cicloattivista nel 1988, all’interno di un circolo di Legambiente denominato Pedale Verde.

Trovarlo lì, tra gli altri, mi ha riportato indietro nel tempo di più di due decenni, ed ho rivisto come in un flashback persone, biciclette e modalità di quell’epoca lontana e un po’ naif. I ciclisti di oggi non solo sono cresciuti di numero, ma hanno anche acquisito competenze maggiori, hanno biciclette più tecniche, hanno imparato a convivere con la congestione del traffico urbano.

La cosa probabilmente più diversa, se ripenso agli anni ’90, è il fatto che non ci sia più alcuna necessità di “mettere in sicurezza” il gruppo, ché d’altro canto sarebbe impossibile muovendosi così in tanti. E’ una cosa che abbiamo imparato con la critical mass, ed ora ci torna utile in molte occasioni e contesti differenti.

Di fatto, arrivato di fronte alla chiesa di San Policarpo, all’uscita dal parco degli Acquedotti, e con la prospettiva di dover attraversare da un capo all’altro l’intero quartiere Tuscolano nel delirio delle compere natalizie, anziché organizzare il gruppo e spiegare come muoversi, come affrontare incroci e semafori senza sfilacciarsi, mi sono limitato a fare una cosa affatto nuova.

Ho detto semplicemente: “Ragazzi, ora c’è un pezzo brutto: bisogna bypassare il quartiere Tuscolano. La strada è questa di fronte a voi, si va sempre dritti, fra un chilometro finisce di fronte al parco di Centocelle e cento metri sulla destra comincia la ciclabile Togliatti. Ci vediamo lì. C’è anche una pista ciclabile ma è fatta malissimo, chi vuole può usarla.”

Forse è anche questo un segnale del cambiamento: non c’è più bisogno di associazioni che gestiscano e organizzino, che istruiscano le persone su cosa devono o non devono fare. I ciclisti a Roma sono cresciuti. Se non tutti almeno una parte consistente.

La giornata è scorsa via così, in leggerezza ed allegria. Abbiamo fatto una sosta fuori programma in una cornetteria al Quarticciolo, spostato un albero caduto su un sentiero nel parco dell’Aniene (spingendo e tirando in più di dieci persone), ed osato sfidare la piena del Tevere, che però ha avuto ragione di noi.

Le informazioni davano la pista percorribile, quello che non potevamo sapere è che nottetempo le chiuse a monte della città sarebbero state aperte per svuotare i bacini di scolmamento che in caso di piena hanno la funzione di mitigare la portata del fiume. La ciclabile sulle banchine è risultata interamente sommersa.

Ci siamo salutati, e separati, all’altezza di Piazza del Popolo, con un gruppo intenzionato a rientrare a Piramide, l’altro a seguire una via più veloce tagliando per il centro. Questo è il mio piccolo rammarico riguardo ad una giornata altrimenti perfetta: non aver potuto chiudere il cerchio, perdere l’effetto di straniamento.

Percorrere il G.S.A. è un po’ come nuotare sott’acqua. Ogni tanto si tira su la testa e ci si trova in un posto diverso, incongruo, fuori posizione rispetto alla geometria della città che abbiamo in testa. Alla fine ci si ritrova al punto di partenza con una bizzarra domanda in testa: “dove diavolo sono stato oggi?”

Cinquanta chilometri dentro una città passando per luoghi sconosciuti, che prima di vederli nemmeno si immagina che possano esistere, e men che meno trovarsi lì dove sono. Un viaggio intero dentro boschi e fiumi nascosti dentro una città. Può non essere sconcertante?

(photo courtesy of Giandomenico Ciampa)

UPDATE (2013): il materiale aggiornato sul GSA è ora reperibile sul relativo blog.

Che fare?

E’ una domanda che in tempi di crisi si rivolgono tutti: “che fare?”. Tipicamente ci si schiera con le posizioni più “in voga” del dibattito politico del momento. Un tempo ci si divideva tra filocomunisti e filocapitalisti, oggi che gli estremismi non vanno più di moda si prendono le parti dei “socialdemocratici” o dei “liberisti”, vuote formule atte solo a nascondere un vuoto di idee.

Le parti, dicevo, come se l’agone politico fosse riducibile ad una contesa di natura sportiva in cui tifare, per partito preso o per simpatia, l’uno o l’altro dei contendenti. Sfugge, ai più, la reale natura del contendere. Sfuggono i termini esatti della congiuntura internazionale dal momento che, in un’epoca di “vacche grasse” come quella durata ininterrottamente per almeno l’ultimo mezzo secolo, l’interesse e l’attenzione di tutti è stata scientemente dirottata sul consumo allegro e sfrenato.

Questa è la preoccupazione dell’uomo contemporaneo: cosa mi regalerò, cosa potrei comprarmi, quale nuovo vestito, quale nuova automobile, quale nuovo elettrodomestico, quale nuovo oggetto (materiale o meno) potrà meglio nascondere la mia assenza di identità e dirottare su di sé l’attenzione degli altri. Il consumo compulsivo sostituisce la definizione identitaria e diventa oggetto primo, se non unico, di interesse: prima, se non unica, ossessione condivisa.

“Se tornassero i vecchi di una volta!”… l’idea emerge di frequente nei discorsi tra mia madre ed i suoi coetanei. Persone anziane, che hanno visto cambiare completamente il mondo sotto i propri occhi ma non hanno perso la memoria di com’era “prima”. Noialtri, invece, i “baby -boomers” nati negli anni ’60 e ancor più le generazioni successive, di quel “prima” abbiamo colto solo i fantasmi in via di dissoluzione.

Com’era il “prima” non lo sappiamo più. Non solo, non abbiamo nessuna intenzione di scoprirlo, è un rimosso, un tabù collettivo. L’industria dell’intrattenimento e dello spettacolo è in questo perfettamente rappresentativa, collaborando attivamente alla riscrittura del passato: ammodernando, patinando, ammorbidendo, sfumando, raccontandoci le storie che siamo disposti ad ascoltare, quelle di cui abbiamo bisogno per addormentarci.

Di fatto viviamo in un mondo totalmente immaginario, una grande allucinazione collettiva, un “Truman show” diffuso su scala globale che va in scena tutti i giorni ed i cui protagonisti siamo noi, senza altri spettatori all’esterno. Ma quanto può durare ancora? Quanta autonomia resta a questa colossale truffa?

Che il “motore della crescita” stia rallentando è evidente già da un po’. La macchina è ben oliata ma il carburante comincia a scarseggiare, sia in termini energetici, sia delle innumerevoli materie prime di cui questo mostro si nutre. Materie prime non riciclabili di cui la nostra insipienza ritiene di non poter fare a meno.

Cambiare rotta è possibile, sempre, in qualunque momento, ma sul piano individuale si può fare ben poco. Al livello collettivo bisognerebbe cominciare almeno a ripensare quanto si è fatto fin qui, a valutare onestamente e con serenità gli scenari che ci si parano davanti, ad archiviare gli errori commessi in passato, farne tesoro ed intraprendere azioni correttive. Ma per questo occorre volontà.

Purtroppo, l’unica volontà che fin qui è stata premiata è quella delle persone che ci hanno condotto all’impasse attuale. Persone che siedono nei consigli di amministrazione delle ricche società d’affari e nei posti di potere. Persone che quotidianamente continuano a perseguire il mito della crescita indefinita ed il pensiero unico del consumismo. Persone il cui unico fine è la perpetuazione di sé e del mondo a cui hanno dato vita, anche a costo di negare l’evidenza.

Persone che instancabilmente nutrono la nostra ignavia, la nostra pigrizia mentale, il nostro vuoto, che offuscano con lustrini e paillette i nostri pensieri e le nostre aspirazioni, che tessono incessantemente la rete di menzogne che ci tiene imprigionati. Persone anziane, spesso, prigioniere esse stesse della realtà fittizia che le ha amorevolmente coccolate e nutrite.

Che fare, dunque?

Non molto, temo. Abitudini consolidate, o dovrei dire incancrenite, su un arco temporale di decenni, non cambiano spontaneamente. Realtà enormemente complesse e globalmente interconnesse non si trasformano spontaneamente nel proprio opposto: al più cercano di modificarsi il meno possibile, finché non sopravviene il collasso.

Ora quel collasso è davanti ai nostri occhi, non a decenni o a generazioni di distanza: quel collasso è dietro l’angolo. Non apparterrà alle generazioni future, sarà la nostra a doverci fare i conti. E il massimo che potremo riuscire a fare sarà provare a tirare il freno quando verrà il momento, e farlo con tutta la forza che abbiamo.

Si tratterà di ripensare un mondo intero, archiviare le abitudini di decenni, recuperare modalità relazionali dimenticate ed elaborarne di nuove, ridisegnare il territorio e le città, cominciando dai trasporti, investire sulle risorse sostenibili e dare un taglio drastico ai consumi. Cambiare la propria alimentazione, le proprie abitudini, i propri interessi, stravolgere il proprio stile di vita. Arginare l’umano egoismo per restituire al pianeta almeno una parte di quello che gli abbiamo rubato e distrutto.

Vorrei sperare che sapremo esserne capaci, ma la ragione mi induce al pessimismo.

P.s.: questa canzone di Billy Bragg mi gira in testa da un quarto di secolo ormai. Era già allora tutto evidente, ma nessuno ha mosso un dito, e chi ci ha provato ha fallito…

THE BUSY GIRL BUYS BEAUTY

The busy girl buys beauty
The pretty girl buys style
And the simple girl
buys what she’s told to buy
And she sees her world
Through the brightly lit eyes
Of the glossy romance of fashion
Where she can learn…
Top tips for the gas cook
Successful secrets of a sexual kind
The daily drill for beautiful hair
And the truth about pain

What was Anna Ford wearing?
What did Angela Rippon say?
What will you do
When you wake up one morning
To find that God’s made you plain
In a beautiful person’s world?
And all those quick recipes
Have let you down
And you’re 20 and half and not yet engaged
Will you go look for the boy who says
I love you let’s get married and have kids?

The busy girl buys beauty
The pretty girl buys style
And the simple girl
Buys what she’s told to buy
And she sees her world
Through the brightly lit eyes
Of the glossy romance of fashion
Where she can learn…
Top tips for the gas cook
Successful secrets of a sexual kind
The daily drill for beautiful hair
In a mail order paradise…