Vivere o scrivere

So di aver abituato i miei fedeli lettori (ammesso di averne davvero, a parte la sparuta manciata che di quando in quando commenta) a periodiche geremiadi sull'insufficiente attenzione che dedico a questo blog. L'ultima risale a meno di due mesi fa, eppure ad oggi non trovo nulla di più essenziale da scrivere di una ulteriore riflessione su questo inarrestabile processo.

Di fatto lo standard qualitativo che mi sono autoimposto, e che al momento non ho intenzione di cambiare, richiede una elaborazione di diverse ore per ogni singolo post. Questa consta di un periodo di riflessione pre-scrittura, del tempo necessario alla prima stesura, delle successive riletture ed integrazioni, dell'upload, della formattazione (link, foto et similia) ed insomma impatta notevolmente sulle molte e varie attività che contemporaneamente mi trovo a svolgere.

Attività che attengono spesso ad altre branche dei miei variegati ed ormai  temo ingestibili interessi: la preparazione di uscite di osservazione astronomica, le escursioni in bicicletta nel weekend, il lavoro sulla mobilità ciclabile urbana diventato ultimamente continuativo ed assorbente, oltreché disperso su più spazi di discussione on-line.

Quanto sopra solo per rimanere nell'ambito della "vita reale", ed escludendo i fatti privati e gli affetti, anch'essi ridotti (temo da sempre) a contendere spazi alle necessità di dare continuità a progetti, sociali e collettivi, energivori e divoratori di tempo ed attenzione. E non finisce qui.

L'ultimo ambito ulteriore riguarda l'approfondimento di quello che avviene "nel mondo là fuori". Molti anni fa per questo c'erano i giornali, una forma di trasmissione unidirezionale del sapere. Oggi ci sono blog e strumenti analoghi di pubblicazione on-line, nati con la caratteristica di consentire una bidirezionalità di pensieri ed idee.

Questa caratteristica evolutiva dell'informazione comporta però un prezzo da pagare. Se un tempo potevamo sbrigare in una mezz'ora o poco più la lettura di un giornale, avendo completato le possibili opzioni offerte da quel medium, oggi la possibilità di interagire attraverso i commenti richiede uno sforzo ben maggiore: ragionare la riflessione proposta, individuare le possibili integrazioni, elaborare un commento, scriverlo, controllarlo, pubblicarlo.

Oltre a ciò saremo successivamente portati a seguire l'evoluzione della relativa discussione, leggendo nei giorni seguenti quanto ulteriormente commentato sia dagli altri lettori che dallo scrivente iniziale. Insomma un meccanismo meraviglioso ad una prima lettura superficiale, che si trasforma in una macchina mangiatempo se appena uno prova ad esplorarne le reali potenzialità.

Tornando al titolo di questo post, al momento, per fortuna, "vivere" mi occupa una quantità di tempo ed attenzione incompatibile con le esigenze di un blogger degno di questo nome. "Scrivere" scivola lentamente in secondo piano e, seppur a malincuore per le sorti di questo spazio on-line, non prevedo che tale stato di fatto possa mutare drammaticamente nel prossimo futuro.

Le mattine dieci alle quattro



Ho avuto modo di assistere al lavoro teatrale che Luca De Bei propone in questi giorni al Teatro Sala Uno, "Le mattine dieci alle quattro". L’impianto scenico racconta un’anonima fermata d’autobus della periferia romana dove ogni mattina tre ragazzi si incontrano sulla via di lavori in nero e sottopagati. L’insistente (e supponente) pensiero iniziale dello spettatore romano "ok, cosa puoi raccontarmi che non sappia già?" si dissolve dopo pochi minuti.

De Bei, nel raccontare il nostro presente, ci apre gli occhi su un mondo di violenza e quotidiana sopraffazione al quale siamo ormai talmente assuefatti da non riuscire più a coglierne confini e pervasività. Lo fa con una tale semplicità, con una tale sconcertante leggerezza che lo spettatore non può fare a meno di domandarsi come sia stato possibile non rendersi conto, non vedere l’abisso nel quale stavamo precipitando, l’inferno in cui siamo sprofondati.

L’apparato scenico è ridotto all’essenziale: nude pareti grezze coi mattoni in vista, una tettoia scheletrica, nebbia, sonorità stridenti ed un "autobus" che, come mostro emerso dagli incubi, appare periodicamente ad inghiottire i personaggi e le loro povere vite.

I protagonisti sono del tutto identici ai ragazzi che ci camminano accanto sulle via dello struscio domenicale, alle commesse dei negozi, alle "sciampiste" che incontriamo dal parrucchiere. Giovani cresciuti senza istruzione e senza speranze di una vita migliore, disposti ad accettare lavori faticosi ed usuranti pur di conquistare un minimo di riscatto sociale, incastrati senza speranza in un meccanismo collettivo pronto a stritolarli senza pietà al minimo cedimento.

Li seguiamo all’inizio "bulleggiare", esibendo quel carapace di durezza ed aggressività che è la loro unica risorsa di fronte al mondo ostile, poi innamorarsi e sciogliersi, confessarsi i reciproci disagi e sofferenze: famiglie a pezzi, lavori orribili e sottopagati, le notti inutili perse in uno "sballo" scambiato per divertimento, la speranza di una vita migliore impossibile persino da immaginare.

Seguendo la vicenda monta lentamente un senso di ingiustizia per questi nuovi poveri che ci vivono accanto, le giovani vite predate, le moderne forme di schiavitù che, con distacco ed indifferenza, tolleriamo siano imposte ad altri, il brutale cinismo del mondo. Usciamo dalla rappresentazione con addosso una sensazione di sorda rabbia e disperazione.

Mancava, in questi anni di torpore culturale, un regista in grado di recuperare la lezione di Pasolini e riproporla aggiornata ai nostri tempi, in grado di raccontare il vuoto e lo squallore di periferie urbane disperate, dove giovani vite sbocciano ed appassiscono, o muoiono, nell’indifferenza più totale. De Bei prova, a modo suo, senza clamori o prese di posizione ideologiche, a smuovere le nostre coscienze narcotizzate, a restituirci la percezione del dolore e della disperazione che da sempre vivono ai margini estremi delle nostre città.

Una nota di merito va agli attori Federica Bern, Riccardo Bocci e Alessandro Casula, che riescono a dar vita a personaggi veri e perfettamente definiti, senza autocompiacimenti o inutili enfasi, e ad inserirsi alla perfezione nel testo e nella regia di De Bei. Lo spettacolo resterà in scena ancora un po’ di giorni… se potete, cercate di non farvelo scappare.

Rosarno, Italia

Assisto esterrefatto agli avvenimenti di Rosarno, Calabria, Italia, alle violenze, alle deportazioni, e mi domando se questo è davvero il paese in cui sono cresciuto, ed in cui vivo. Assisto alle dichiarazioni faziose di un ministro degli interni, espressione di un partito fieramente razzista, che addossa la colpa di tutto all’immigrazione, volutamente ignorando il perdurante abbandono di quel pezzo di penisola, come di molti altri, all’arbitrio di organizzazioni criminali e trafficanti di schiavi e droga.

Assisto al vuoto assoluto di pensiero e di azione dell’intera classe politica, dei sindacati, della coscienza civile. Assisto allo svuotamento di senso e significato delle notizie da parte di giornalisti che hanno ripudiato la propria libertà intellettuale ed umana per asservirsi anima e corpo ai potenti di turno. Assisto alla lenta e progressiva normalizzazione dell’orrore e mi chiedo perché non abbiamo più la forza di ribellarci, o anche solo l’idea di provare a farlo.

Quando uno Stato, in tutte le sue espressioni, recede dal perseguire un crimine, finché quel crimine non diventa "normalità", allora quello Stato diventa complice dei criminali.

Quando uno Stato rinuncia intenzionalmente al controllo sull’applicazione delle proprie leggi per favorire interessi di parte, allora quello Stato diventa disonesto al pari di chi quelle leggi infrange.

A Rosarno, come in mille altre parti d’Italia, ci sono agricoltori strangolati dalle speculazioni dei grossisti. Coltivatori i cui prodotti vengono pagati una miseria, nella totale latitanza delle istituzioni. A Rosarno, come in mille parti d’Italia, la soluzione "dal basso" a questo problema è lo sfruttamento di manodopera clandestina, persone senza tutele e senza diritti costrette a vivere in condizioni indegne di un paese civile, in una moderna rivisitazione della schiavitù e dell’apartheid.

Questa situazione è stata tollerata ed avallata dalle nostre istituzioni, che avevano la responsabilità ed il dovere di intervenire. Intervenire sulle speculazioni, intervenire sul taglieggiamento a qualsiasi livello (il "pizzo"), intervenire sullo sfruttamento, intervenire sulle condizioni di vita disumane. Se uno Stato non fa questo, se non garantisce a tutti pari diritti e pari opportunità, allora a che serve?

Il quadro della situazione italiana è a tal punto degradato da far disperare che se ne potrà mai uscirne fuori a testa alta. Resteremo a guardare all’Europa come ad un sogno di civiltà che si fa di giorno in giorno più remoto ed irraggiungibile, mentre le organizzazioni mafiose prendono lentamente ma inesorabilmente il controllo delle nostre città, delle nostre istituzioni e delle nostre vite.

Il luogo delle cose semplici e vere


Dopo il capodanno del 2009 passato in allegra e rumorosa compagnia, e l’anno turbolento che ne è seguito, io e Manu abbiamo deciso di regalarci un momento di tranquillità trasferendoci per qualche giorno a Pianello, in compagnia di parenti e nipoti. Fra queste case antiche dai muri di pietra, con lo scoppiettare della legna nel caminetto, la pioggia che scende su un paesaggio inequivocabilmente invernale, il tempo della vita ricomincia ad avere un minimo di senso.

Questo paesino è la mia pietra di paragone fin dalla fanciullezza, l’unità di misura fissa ed immutabile attraverso la quale interpretare e provare a comprendere la follia della modernità che ci ha pervasi e posseduti tutti. Il luogo delle cose semplici e vere, che abbiamo perso da qualche parte nel corso della vita, o forse solo dimenticato. "Sometimes you wanna go where everybody knows your name" recitava una canzone di qualche anno fa: "a volte hai voglia di andare dove tutti conoscono il tuo nome", quel posto, unico al mondo, per me è qui e non potrebbe essere altrove.

In un paesino così piccolo, non dovendo lavorare, non c’è praticamente nulla da fare al di fuori delle routine quotidiane del mangiare e dormire, così si passa la maggior parte del tempo ad incontrare gente e chiacchierare del più e del meno, di cosa ha fatto Tizio e di cosa è successo a Caio, in una forma di "narrazione" che offre pochi appigli per intervenire a chi viene da fuori.

È anche molto naturale, semplicemente passeggiando, imbattersi in un piccolo cimitero ed affacciarsi all’interno. Quarantacinque anni di vita sono già abbastanza perché in questi luoghi si finisca col ritrovare compagni di gioventù prematuramente scomparsi. E ripensare ad altri momenti, altre stagioni della vita. E realizzare che il tempo passa, ma per accorgersene davvero occorre trovare l’occasione per fermarsi a guardarlo scorrere.

In questi giorni di vacanza sono riuscito a stare un po’ coi miei nipoti, li ho portati a camminare sui sentieri, a pattinare con lo skateboard, abbiamo letto cose insieme e mi sono un po’ "spupazzato" il più piccolo, che ha solo un anno e mezzo. Pensavo, mentre lo facevo, a quarant’anni fa, quando il bambino ero io… ed ai miei zii di allora, che non ci sono più.

Ed oggi nevica. Era da tanto che non vedevo la neve. Forse l’ultima volta è stata proprio qui. Il paesaggio è diventato bianco, ed immagino che fra un po’ anche i miei capelli faranno altrettanto. In sottofondo ascolto Gavin’s Woodpile, di Bruce Cockburn, un cantautore canadese che sto riscoprendo in queste ultime settimane (potete ascoltarla QUI, insieme all’intero album "In The Falling Dark").

Mi sento sospeso, come fuori dal flusso del tempo. Osservo frammenti slegati della mia vita scorrermi davanti agli occhi, e pur senza trovarvi un senso compiuto ne ammiro la coerenza di fondo. C’è un che di straniante, ma al tempo stesso tranquillizzante, in questa mia provvisoria consapevolezza. Un momento raro e prezioso, sospeso tra zen ed introspezione, che prelude al ritorno alle quotidiane battaglie.