I lettori di questo blog sanno che amo discettare occasionalmente su materie per le quali non ho formali competenze, ed è il caso di questo post. Il motivo che mi spinge a far ciò è che, di tanto in tanto, inciampo in questioni che non riesco a gestire con le chiavi di lettura fornite dalla narrazione corrente. Nel caso specifico, le esplosioni di violenza incontrollata.
L’esercizio della violenza appare vieppiù biasimevole ed incomprensibile quando avviene nei confronti di soggetti deboli, di norma donne e bambini. La società contemporanea ha iniziato recentemente ad interrogarsi su un fenomeno che ha preso il nome di ‘femminicidio’, e riguarda l’uccisione, da parte di un maschio, della compagna, o ex compagna, cui sia stato precedentemente legato da una relazione sentimentale.
Tralasciando i casi, per fortuna rari, in cui tale omicidio viene freddamente pianificato a tavolino e lucidamente posto in atto, nella maggior parte dei casi la molla che innesca il delitto appare essere fornita dall’ennesimo litigio, l’ennesima situazione di stress, a cui il maschio, non di rado obnubilato da sostanze psicotrope (alcol e/o droga) reagisce con forme di violenza estrema.
Altra situazione con cui trovo analogie sono gli infanticidi determinati da depressione post-parto. In questo caso è presente una patologia psichica relativamente nota e dai contorni definiti, ma resta, per quella che è la mia percezione, l’insensatezza di un atto inconsulto, non pensato, non pianificato. Infanticidio che, oltretutto, scatta solo per alcune donne e non per altre.
La terza forma comportamentale difficile da digerire sono gli eccessi di violenza sui minori, anche molto piccoli, che portano adulti, in genere maschi, ad infierire brutalmente su corpicini inermi per motivazioni futili come, ad esempio, un pianto incontrollato.
Il fattore comune a queste tre situazioni è, in molti casi, l’esplosione incontrollata, il gesto inconsulto, la perdita totale ed irreparabile del controllo sul senso del proprio agire. In alcuni casi ci troviamo di fronte ad individui dal temperamento abitualmente violento o sopra le righe, ma questo non può valere per le madri che uccidono i propri figli in preda a depressione.
Una chiave di lettura mi è stata fornita, quasi incidentalmente, da una fiction medica. Nella vicenda inscenata uno psicologo si trovava ad affrontare il caso di una bambina totalmente psicopatica, ovvero incapace di provare empatia con altri esseri umani che, nell’arco narrativo, aveva rischiato di uccidere il fratellino per un futile diverbio.
Lo psicologo, per evitare di rinchiuderla a vita in un istituto, cerca di insegnarle un metodo alternativo di gestione delle proprie reazioni, una strategia che le consenta di emulare le funzioni emotive che la bambina non è in grado di provare.
Da ipocondriaco latente quale sono, non ho potuto fare a meno di proiettare il problema su di me, e domandarmi: “non starò facendo anch’io la stessa cosa?”. In altri termini: non potrei essere anch’io uno psicopatico che emula le reazioni emotive con sovrastrutture razionali? Se così fosse, cosa accadrebbe nel momento in cui i meccanismi razionali, a seguito di stress intensi e prolungati, finiscano col cedere?
Questa interpretazione comportamentale potrebbe dar conto dei fenomeni sovra-descritti, in cui una momentanea perdita di controllo ha conseguenze devastanti sulla vita degli altri e sulla propria. Ma presupporre una tale percentuale di psicopatologie ‘auto-corrette’ mi è parsa una forzatura eccessiva. La realtà non è solo bianco o nero, presenta solitamente una vasta sfumatura di zone grigie.
Ancora una volta mi sono rifatto al pensiero di Darwin: cosa è un vantaggio, e cosa uno svantaggio, in termini evolutivi? Il comportamento sociale, quindi l’empatia, la capacità di comprendere, interpretare e fare proprie le emozioni altrui, è evidentemente un vantaggio: consente di formare gruppi, la cui efficacia in termini di sopravvivenza e riproduzione è superiore a quella del singolo individuo.
Ma se la cooperazione è un fattore chiave del nostro successo come specie, la competizione lo è altrettanto perché consente, all’individuo ed al gruppo, di difendersi dalle aggressioni, di sottomettere i ‘competitors’ ed in ultima istanza di accedere ad una maggior quantità di risorse.
Ma, e qui è il punto, come gestire queste due necessità tra loro conflittuali? Come passare dalla cura e l’affetto per il proprio gruppo/tribù alla necessità di combattere senza pietà tribù rivali e potenziali aggressori? Come passare dal ruolo di genitore affettuoso a quella di guerriero spietato?
La spiegazione che mi sono dato è che queste due nature fanno entrambe parte del nostro essere umani, separate da un confine che può essere, a volte, molto sottile. Sia la capacità di provare empatia che quella di non provarne fanno parte del successo evolutivo della nostra specie. E la gestione di questa profonda contraddizione risiede in meccanismi mentali, sviluppati ad-hoc, che possono occasionalmente incepparsi.
Così, per fare un esempio, possiamo essere profondamente empatici con alcune specie animali ‘di compagnia’, e parimenti non-empatici con altre specie animali di cui invece ci nutriamo. Non è raro, nel mondo contadino, che la stessa persona che al mattino gioca con il proprio cane, il pomeriggio sgozzi a mani nude un maiale: entrambi questi comportamenti sono funzionali al suo benessere ed alla sua sopravvivenza.
Se, pertanto, entrambi i comportamenti, empatico e psicopatico, sono vantaggiosi per la specie (o lo sono stati in un passato non troppo lontano, dato che il genoma umano è sostanzialmente immutato da diverse decine di migliaia di anni), la mia personale conclusione è che disporre della capacità di passare dall’uno all’altro rappresenti anch’essa un vantaggio.
Quindi dobbiamo abituarci a ragionare gli esseri umani come individui necessariamente dotati di questa doppia natura, empatica ed anempatica, in grado di passare senza soluzione di continuità dall’una all’altra se posti in condizioni di forte stress.
Questo significa che chiunque di noi può, in un determinato momento, ‘perdere il lume della ragione’. Perdere, cioè, la capacità di percepire gli altri come simili a sé, finendo col comportarsi da perfetto psicopatico per un ristretto arco temporale. L’assunzione di sostanze psicotrope (droghe o alcol) facilita questa transizione di stato mentale.
Essendo tale capacità, nel contesto odierno caratterizzato da una diffusa socialità, potenzialmente dannoso non solo per l’oggetto della violenza ma anche per il soggetto che la esprima, l’unico suggerimento che si può dare ai singoli è quello di evitare, ove possibile, le situazioni capaci di generare stress elevati. Obiettivo che, di fondo, rappresenta la finalità di molte antiche filosofie orientali, in cui la ricerca della pace interiore attraverso forme di meditazione non ha altro intento se non la riduzione dell’accumulo di stress psicologico.
Dal punto di vista della collettività, se la tesi suesposta dovesse essere confermata da evidenze sperimentali, dovremmo darci modo di diagnosticare la potenziale fragilità di questo confine psichico in specifici individui, per indirizzarli verso stili di vita ‘a basso rischio’. Allo stesso modo i partner dovrebbero poter accedere a queste informazioni cliniche, in modo da poter agire di conseguenza.
Purtroppo la società attuale va in direzione diametralmente opposta, promuovendo forme di insoddisfazione (e quindi di stress) come motore dello sviluppo sociale, alimentando bisogni indotti e generando in forma diffusa situazioni esasperanti, non ultima la guida prolungata di veicoli a motore. Queste condizioni di ‘stress sociale’ si scaricano, in ultima istanza, all’interno dell’unità minima, la coppia o la famiglia.
Non è un caso se le culture a capitalismo avanzato, che più spingono sull’accelerazione di questi fattori di stress, siano anche quelle dove l’uso di sostanze psicotrope sia più elevato, e le esplosioni di violenza irragionevole avvengano su più larga scala.
L’esperimento sociale in cui viviamo immersi da decenni ormai, consistente nell’inurbazione forzata di masse crescenti di individui e nella competizione economica tra diverse nazioni pur in assenza di conflitti espliciti tra le stesse (le guerre), finisce con lo scaricare la distruttività accumulata ed inespressa sugli elementi più deboli della catena: i singoli individui, finendo con l’innescare esplosioni di violenza incontrollata ed insensata proprio in virtù di un meccanismo che, in un lontano passato, ci ha invece aiutato a sopravvivere.