Darwin, l’empatia e la violenza

The_ScreamI lettori di questo blog sanno che amo discettare occasionalmente su materie per le quali non ho formali competenze, ed è il caso di questo post. Il motivo che mi spinge a far ciò è che, di tanto in tanto, inciampo in questioni che non riesco a gestire con le chiavi di lettura fornite dalla narrazione corrente. Nel caso specifico, le esplosioni di violenza incontrollata.

L’esercizio della violenza appare vieppiù biasimevole ed incomprensibile quando avviene nei confronti di soggetti deboli, di norma donne e bambini. La società contemporanea ha iniziato recentemente ad interrogarsi su un fenomeno che ha preso il nome di ‘femminicidio’, e riguarda l’uccisione, da parte di un maschio, della compagna, o ex compagna, cui sia stato precedentemente legato da una relazione sentimentale.

Tralasciando i casi, per fortuna rari, in cui tale omicidio viene freddamente pianificato a tavolino e lucidamente posto in atto, nella maggior parte dei casi la molla che innesca il delitto appare essere fornita dall’ennesimo litigio, l’ennesima situazione di stress, a cui il maschio, non di rado obnubilato da sostanze psicotrope (alcol e/o droga) reagisce con forme di violenza estrema.

Altra situazione con cui trovo analogie sono gli infanticidi determinati da depressione post-parto. In questo caso è presente una patologia psichica relativamente nota e dai contorni definiti, ma resta, per quella che è la mia percezione, l’insensatezza di un atto inconsulto, non pensato, non pianificato. Infanticidio che, oltretutto, scatta solo per alcune donne e non per altre.

La terza forma comportamentale difficile da digerire sono gli eccessi di violenza sui minori, anche molto piccoli, che portano adulti, in genere maschi, ad infierire brutalmente su corpicini inermi per motivazioni futili come, ad esempio, un pianto incontrollato.

Il fattore comune a queste tre situazioni è, in molti casi, l’esplosione incontrollata, il gesto inconsulto, la perdita totale ed irreparabile del controllo sul senso del proprio agire. In alcuni casi ci troviamo di fronte ad individui dal temperamento abitualmente violento o sopra le righe, ma questo non può valere per le madri che uccidono i propri figli in preda a depressione.

Una chiave di lettura mi è stata fornita, quasi incidentalmente, da una fiction medica. Nella vicenda inscenata uno psicologo si trovava ad affrontare il caso di una bambina totalmente psicopatica, ovvero incapace di provare empatia con altri esseri umani che, nell’arco narrativo, aveva rischiato di uccidere il fratellino per un futile diverbio.

Lo psicologo, per evitare di rinchiuderla a vita in un istituto, cerca di insegnarle un metodo alternativo di gestione delle proprie reazioni, una strategia che le consenta di emulare le funzioni emotive che la bambina non è in grado di provare.

Da ipocondriaco latente quale sono, non ho potuto fare a meno di proiettare il problema su di me, e domandarmi: “non starò facendo anch’io la stessa cosa?”. In altri termini: non potrei essere anch’io uno psicopatico che emula le reazioni emotive con sovrastrutture razionali? Se così fosse, cosa accadrebbe nel momento in cui i meccanismi razionali, a seguito di stress intensi e prolungati, finiscano col cedere?

Questa interpretazione comportamentale potrebbe dar conto dei fenomeni sovra-descritti, in cui una momentanea perdita di controllo ha conseguenze devastanti sulla vita degli altri e sulla propria. Ma presupporre una tale percentuale di psicopatologie ‘auto-corrette’ mi è parsa una forzatura eccessiva. La realtà non è solo bianco o nero, presenta solitamente una vasta sfumatura di zone grigie.

Ancora una volta mi sono rifatto al pensiero di Darwin: cosa è un vantaggio, e cosa uno svantaggio, in termini evolutivi? Il comportamento sociale, quindi l’empatia, la capacità di comprendere, interpretare e fare proprie le emozioni altrui, è evidentemente un vantaggio: consente di formare gruppi, la cui efficacia in termini di sopravvivenza e riproduzione è superiore a quella del singolo individuo.

Ma se la cooperazione è un fattore chiave del nostro successo come specie, la competizione lo è altrettanto perché consente, all’individuo ed al gruppo, di difendersi dalle aggressioni, di sottomettere i ‘competitors’ ed in ultima istanza di accedere ad una maggior quantità di risorse.

Ma, e qui è il punto, come gestire queste due necessità tra loro conflittuali? Come passare dalla cura e l’affetto per il proprio gruppo/tribù alla necessità di combattere senza pietà tribù rivali e potenziali aggressori? Come passare dal ruolo di genitore affettuoso a quella di guerriero spietato?

La spiegazione che mi sono dato è che queste due nature fanno entrambe parte del nostro essere umani, separate da un confine che può essere, a volte, molto sottile. Sia la capacità di provare empatia che quella di non provarne fanno parte del successo evolutivo della nostra specie. E la gestione di questa profonda contraddizione risiede in meccanismi mentali, sviluppati ad-hoc, che possono occasionalmente incepparsi.

Così, per fare un esempio, possiamo essere profondamente empatici con alcune specie animali ‘di compagnia’, e parimenti non-empatici con altre specie animali di cui invece ci nutriamo. Non è raro, nel mondo contadino, che la stessa persona che al mattino gioca con il proprio cane, il pomeriggio sgozzi a mani nude un maiale: entrambi questi comportamenti sono funzionali al suo benessere ed alla sua sopravvivenza.

Se, pertanto, entrambi i comportamenti, empatico e psicopatico, sono vantaggiosi per la specie (o lo sono stati in un passato non troppo lontano, dato che il genoma umano è sostanzialmente immutato da diverse decine di migliaia di anni), la mia personale conclusione è che disporre della capacità di passare dall’uno all’altro rappresenti anch’essa un vantaggio.

Quindi dobbiamo abituarci a ragionare gli esseri umani come individui necessariamente dotati di questa doppia natura, empatica ed anempatica, in grado di passare senza soluzione di continuità dall’una all’altra se posti in condizioni di forte stress.

Questo significa che chiunque di noi può, in un determinato momento, ‘perdere il lume della ragione’. Perdere, cioè, la capacità di percepire gli altri come simili a sé, finendo col comportarsi da perfetto psicopatico per un ristretto arco temporale. L’assunzione di sostanze psicotrope (droghe o alcol) facilita questa transizione di stato mentale.

Essendo tale capacità, nel contesto odierno caratterizzato da una diffusa socialità, potenzialmente dannoso non solo per l’oggetto della violenza ma anche per il soggetto che la esprima, l’unico suggerimento che si può dare ai singoli è quello di evitare, ove possibile, le situazioni capaci di generare stress elevati. Obiettivo che, di fondo, rappresenta la finalità di molte antiche filosofie orientali, in cui la ricerca della pace interiore attraverso forme di meditazione non ha altro intento se non la riduzione dell’accumulo di stress psicologico.

Dal punto di vista della collettività, se la tesi suesposta dovesse essere confermata da evidenze sperimentali, dovremmo darci modo di diagnosticare la potenziale fragilità di questo confine psichico in specifici individui, per indirizzarli verso stili di vita ‘a basso rischio’. Allo stesso modo i partner dovrebbero poter accedere a queste informazioni cliniche, in modo da poter agire di conseguenza.

Purtroppo la società attuale va in direzione diametralmente opposta, promuovendo forme di insoddisfazione (e quindi di stress) come motore dello sviluppo sociale, alimentando bisogni indotti e generando in forma diffusa situazioni esasperanti, non ultima la guida prolungata di veicoli a motore. Queste condizioni di ‘stress sociale’ si scaricano, in ultima istanza, all’interno dell’unità minima, la coppia o la famiglia.

Non è un caso se le culture a capitalismo avanzato, che più spingono sull’accelerazione di questi fattori di stress, siano anche quelle dove l’uso di sostanze psicotrope sia più elevato, e le esplosioni di violenza irragionevole avvengano su più larga scala.

L’esperimento sociale in cui viviamo immersi da decenni ormai, consistente nell’inurbazione forzata di masse crescenti di individui e nella competizione economica tra diverse nazioni pur in assenza di conflitti espliciti tra le stesse (le guerre), finisce con lo scaricare la distruttività accumulata ed inespressa sugli elementi più deboli della catena: i singoli individui, finendo con l’innescare esplosioni di violenza incontrollata ed insensata proprio in virtù di un meccanismo che, in un lontano passato, ci ha invece aiutato a sopravvivere.

La questione ambientale (settima parte)

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

Il capitolo precedente si chiudeva evocando la necessità di ridurre la popolazione umana mondiale. Questo è probabilmente il punto più cruciale di tutti, e per certi versi anche il più difficile da applicare. Il motivo, banale, è che un intervento di questo tipo va contro la nostra natura di esseri viventi. O meglio, contro la natura degli esseri viventi nel loro complesso.

Gli esempi di popolazioni umane che abbiano praticato un controllo demografico non mancano, in particolare tra le popolazioni adattate a vivere in piccole isole con risorse limitate. I metodi adottati per tale gestione, tuttavia, rientrano nel novero di quelli che la nostra cultura etichetterebbe come disumani e lesivi delle libertà individuali.

Generalizzando si può affermare che l’unica forzante in grado di condurre a politiche di contenimento e stabilizzazione delle popolazioni sia la limitatezza delle risorse disponibili. Limitatezza che funziona anche in assenza di tali politiche, provvedendo da sé a ridurre la percentuale di popolazione in eccesso attraverso la morte per fame. Le popolazioni delle aree isolate vissute nei secoli scorsi conoscevano bene questo tipo di problema.

Quello che sta accadendo adesso, tuttavia, è qualcosa di mai visto prima nella storia dell’umanità, quantomeno su scala così vasta. La movimentazione globale di merci e derrate alimentari ha raggiunto volumi tali da slegare completamente le popolazioni residenti sui territori dalla necessità di una produzione alimentare di prossimità. Non c’è più correlazione, su scala globale, tra i luoghi dove il cibo viene prodotto e quelli dove viene consumato.

Ciò ha condotto da un lato alla crescita esponenziale delle megalopoli ed all’inurbazione di gran parte della popolazione mondiale, dall’altro all’aggressione sconsiderata agli habitat naturali fin qui preservati. Quest’ultima aiutata dalla distanza, fisica ed emotiva, tra esecutori (i grandi latifondisti agricoli) e mandanti (i consumatori).

Allo stato attuale, i tentativi di preservare gli habitat naturali ancora intatti appaiono inefficaci e fallimentari. Di conseguenza, la ‘forzante’ rappresentata dal limite delle risorse disponibili avrà modo di intervenire solo quando ogni habitat naturale sarà stato spogliato dalla propria biodiversità e convertito alla produzione di cibo. Una prospettiva decisamente raccapricciante.

La produzione di cibo dipende tuttavia da diversi fattori, non unicamente dalla quantità di suolo destinata alle coltivazioni. Per esempio dipende dal ciclo dell’acqua che, come abbiamo visto, smette di funzionare efficacemente in seguito alla deforestazione di vaste aree. Questo fattore, tuttavia, non impedirà la distruzione dei residui habitat intatti, ma produrrà unicamente la progressiva desertificazione di una parte significativa delle attuali aree agricole.

L’efficienza delle coltivazioni agricole, e dei trasporti, dipende inoltre dall’investimento energetico, che di fatto assume varie forme. La più ovvia è quella legata alla movimentazione delle macchine agricole, che operano ancora, in larghissima misura, grazie a carburanti fossili. Quindi vanno considerati i fertilizzanti e la loro produzione (in gran parte ancora risorse fossili, miniere di fosforo in primis).

A seguire i ‘maledetti pesticidi’, che aumentano la resa per ettaro a prezzo della distruzione massiva di insetti e microorganismi del terreno, i quali che richiedono energia sia per la produzione che per l’applicazione alle colture. Poi c’è la componente infrastrutturale, dai sistemi irrigui alle diverse forme di trattamento pre e post produzione. In ultima istanza il trasporto ai consumatori finali.

Per far meglio comprendere quale problema comporti la sovrappopolazione del pianeta mi servirò di un grafico sviluppato nel 2015 da Paul Chefurka sulla base di dati FAO. Il grafico mostra la suddivisione della biomassa complessiva presente sul pianeta tenendo conto di tre fattori: fauna selvatica (wild, in viola), animali d’allevamento (domesticated, in azzurro), ed esseri umani (human, in rosso), prendendo a riferimento tre diverse epoche.

biomassa-2Nella preistoria (colonna a sinistra) esseri umani ed animali d’allevamento occupavano una dimensione molto piccola nel complesso delle forme viventi. Nel 1900 (colonna centrale) eravamo già i quattro quinti del totale, a spese dell’80% della fauna selvatica annientata nel frattempo. La colonna di destra, relativa al 2015, è impressionante perché il totale della biomassa, costante nei millenni precedenti, appare moltiplicato per sei volte. Come può essere successo?

Semplicemente l’effetto dell’impennata esponenziale generata dalla disponibilità e messa a regime di energia fossile derivante dal petrolio. Fino al 1900 (circa) l’umanità aveva avuto a disposizione la sola energia radiante proveniente dal sole, ed aveva dovuto fare i conti con quel limite. Con lo sfruttamento delle risorse petrolifere quel limite è saltato, e si è potuto produrre quantità via via crescenti di cibo per alimentare una popolazione anch’essa in crescita.

Tuttavia sappiamo bene che le risorse di petrolio non sono inesauribili (e nonostante ciò continuiamo a sprecarle per attività sostanzialmente inutili, come lo spostare tonnellate di ferro e gomma, le automobili, solo per muoverci individualmente da un posto all’altro). Cosa accadrà quando questa risorsa comincerà a declinare?

Il grafico ci da una risposta abbastanza tragica circa il livello di sostenibilità che il pianeta è in grado di supportare: anche rinunciando ad un’alimentazione basata sulla carne, e quindi azzerando la componente relativa agli animali d’allevamento, la popolazione attuale eccede largamente le capacità del pianeta.

Certo, abbiamo sviluppato varietà vegetali ad alta resa, ma nel frattempo dovremo fare i conti con suoli danneggiati ed impoveriti da decenni di agricoltura industriale ed inquinamento, a cui si aggiungeranno i problemi generati dal riscaldamento globale. Quale panorama possiamo allora aspettarci in un’epoca di ‘ritorni decrescenti’?

È altamente improbabile che un’economia basata unicamente su fonti rinnovabili possa continuare a garantire l’attuale livello di tecnologia e complessità. Pertanto, nel momento in cui la disponibilità energetica pro-capite comincerà a declinare, come primo effetto vedremo impennarsi i prezzi di ogni cosa, dalle materie prime ai prodotti finiti, cibo compreso.

È indubitabile che a quel punto le esigenze alimentari continueranno ad essere considerate una priorità, mentre molte delle attuali ‘commodities’ finiranno in secondo piano. Azzardare previsioni è sempre molto difficile, ma è verosimile che il meccanismo che ha prodotto l’inurbazione di milioni (se non miliardi) di individui finisca con l’incepparsi, ed il processo cominci ad invertirsi.

Possiamo facilmente immaginare un flusso massiccio di abitanti, che abbandoneranno città divenute invivibili perché inadeguate a funzionare senza una massiccia dissipazione energetica, riversarsi nelle campagne alla ricerca di cibo, o per provare a produrselo da sé. Possiamo anche immaginare l’escalation di conflitti che questo comporterà, nel momento in cui tutti comprenderanno che cibo per tutti non ce n’è.

Un’altra possibilità, già oggetto di studio, in grado di produrre un contenimento e finanche una riduzione della popolazione, è offerta dal calo diffuso della fertilità registrato nei paesi tecnologicamente avanzati. Esso appare determinato in parte dagli stili di vita (l’età a cui si decide di avere un figlio si sposta sempre più avanti), in parte dal vivere in ambienti insalubri ed inquinati, in parte all’assunzione massiccia di cibi chimicamente alterati da aromi artificiali, coloranti e conservanti, sui cui effetti di accumulo nei tessuti organici non esistono studi su larga scala.

Questo calo della fertilità, almeno nell’immediato, non sta interessando i paesi del ‘sud del mondo’, che stanno anzi andando incontro ad un boom demografico senza precedenti, soprattutto nell’Africa sub-sahariana. Il risultato sono flussi migratori incessanti che, a partire dai paesi poveri, vanno a colmare i ‘vuoti’ prodotti dalla denatalità nelle nazioni più ricche.

Un recente esperimento di controllo demografico su larga scala è rappresentato dalla ‘politica del figlio unico’, in vigore nella Repubblica Popolare Cinese dalla fine degli anni ‘70 ai primi anni 2000, ed attualmente sostituita dalla possibilità di averne due per far fronte all’esponenziale crescita economica del paese.

Se da un lato un simile notevole risultato si è dimostrato possibile, dall’altro non possiamo non rilevare che solo un governo autoritario è stato in grado di imporre un provvedimento tanto impopolare ad una popolazione numerosissima e riluttante. È molto dubbio, tuttavia, che un intervento di tale portata possa essere condotto con successo all’interno di un regime democratico, come quello vigente nel nostro paese (ed in molti altri).

La pressione antropica causata sugli ecosistemi globali dalla sovrappopolazione è un problema ancora più drammatico del surriscaldamento globale, eppure, probabilmente per un tabù culturale, nessuno ne vuole parlare.

Nella prospettiva più ottimistica, finiremo col cancellare dal pianeta la maggior parte delle specie viventi, dando luogo alla famosa sesta estinzione di massa (anche se qualcuno trova inesatto il termine estinzione, e trova più corretto ‘sterminio’). I nostri discendenti finiranno a vivere in un incubo distopico alla Blade Runner, dove il lusso più sfrenato sarà rappresentato da un animale robotico, ché quelli in carne ed ossa non esisteranno più.

Nella prospettiva più pessimista, ci renderemo conto troppo tardi di aver generato un tale squilibrio nella catena alimentare globale da diventare del tutto incapaci di produrre ulteriore cibo (p.e. avendo causato inavvertitamente l’estinzione di massa di specie di insetti, o lombrichi, fondamentali per la sopravvivenza delle piante di cui ci nutriamo), e finiremo con l’estinguerci lasciando il pianeta in eredità a qualche forma di invertebrati, come i ragni, o a microrganismi ancora più piccoli.

(continua)