7 – Comunicazione e controllo sociale

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

Le classi sociali responsabili della gestione dei Sistemi Ideologici drenano la maggior quantità possibile di Ricchezza collettiva a proprio vantaggio, utilizzando i Processi di Inganno a fini di Controllo Sociale

Processi di Inganno [1] funzionali, una volta avviatisi, iniziano a restituire l’auspicato ‘benessere’ agli individui coinvolti. Se esistono margini perché il processo possa essere esteso ad una collettività più ampia, senza cioè che l’originario gruppo coinvolto abbia a rimetterci, la ricchezza acquisita viene esibita pubblicamente, gratificando i nuovi ricchi ed ottenendo di innescare un processo di emulazione.

L’esibizione di ricchezza diviene pertanto la prima forma di comunicazione sociale, intesa ad attestare l’efficienza del Processo di Inganno ed a gratificare i pionieri di tale processo, consentendo loro un’ascesa sociale.

Immaginiamo, a titolo di esempio, una tribù dove si sviluppi, magari per sentito dire, l’idea di coltivare una varietà alimentare. L’individuo, o gli individui coinvolti in questa nuova attività dovranno sacrificare il proprio tempo e le proprie energie per tutta una serie di lavori non immediatamente remunerativi. Mentre gli altri membri della tribù spenderanno il proprio tempo libero in attività ricreative, i novelli agricoltori dovranno innanzitutto rinunciare a parte del proprio cibo (poniamo cereali) per la semina, poi dovranno lavorare ad eliminare le erbacce, provvedere all’innaffiamento se il terreno si secca troppo, contrastare insetti ed animali vari che possano attentare alla salute della coltivazione e, solo dopo diversi mesi di questa attività, ottenere il meritato raccolto ed esibire agli altri membri il risultato di tanto impegno.

A quel punto, stante la disponibilità di terreni, anche il resto della tribù potrà decidere di avviare pratiche agricole. L’esito finale sarà un incremento del ‘benessere’ collettivo ed, in ultima istanza, la crescita della popolazione, dal momento che l’aumento della produzione alimentare consentirà di sfamare un maggior numero di individui. Questo darà vita, nel tempo, ad una Ideologia dell’Agricoltura basata sull’aspettativa che l’aumento della produzione agricola generi benessere. La componente irrazionale di questa ideologia sta nel non percepire l’esistenza di limiti alla possibilità di applicare questo principio, in sé veritiero. Limiti che possono discendere dalla dimensione della vallata, dalla disponibilità di acqua e dall’efficienza delle tecniche agricole. Limiti il cui portato, sul lunghissimo termine, consisterà nell’esaurimento della fertilità dei terreni.

Il punto che mi interessa approfondire riguarda le modalità per mezzo delle quali le Ideologie arrivano a permeare il tessuto culturale di una collettività. La prima forma di Comunicazione Sociale è proprio l’ostentazione di potere e ricchezza. Questo genera un processo di emulazione: i depositari del ‘sapere’ lo diffondono presso gli altri membri della comunità, che grazie a quel ‘sapere’ acquisisce benessere e comincia a crescere numericamente.

Ben presto le abilità dei diversi membri si differenziano: i più intelligenti e capaci di maneggiare il ‘sapere’ vengono incaricati della sua conservazione, mentre gli altri accettano di seguire le indicazioni, nella convinzione che gli convenga approfittare delle capacità intellettuali altrui, di cui sono carenti, in cambio del lavoro manuale. Possiamo individuare in questo semplice meccanismo l’inizio del processo di auto-domesticazione umana [2].

È interessante notare (questione cui riserverò un approfondimento) come proprio la ricchezza ed il benessere di una collettività consentano ai membri attivi di riservare parte del surplus alla cura degli individui ‘meno performanti’, fisicamente ed intellettualmente. Questo porta una collettività di successo a poter disperdere le abilità dei propri membri su uno spettro di diversità maggiore, potendo supportare abilità ‘estreme’ i cui inevitabili portati negativi non passerebbero il vaglio della selezione naturale. Sappiamo, dalle neuroscienze, che espressioni di intelligenza estrema in ambiti specifici (p.e. la matematica) sono spesso correlate a disfunzioni in altre funzioni cerebrali (p.e. disturbi dello spettro autistico). Queste forme di intelligenza estrema risultano penalizzate nel manifestarsi in ambienti ristretti, causando gravi difficoltà agli individui portatori dello specifico carattere, mentre in contesti sociali allargati la collettività può decidere di tollerare il ‘diverso’ e sopperire alle sue inadeguatezze, impedendo alla specifica caratteristica di venir rimossa dal genoma collettivo a causa dei processi di selezione naturale.

Nel momento in cui il ‘sapere’ diviene fonte di ricchezza e benessere, i detentori tenderanno a non condividerlo più spontaneamente, preferendo tenerlo sotto controllo, e con esso controllare la maggior frazione possibile della ricchezza generata. Tuttavia è necessario che la convinzione diffusa dell’efficacia del ‘sapere’ non venga persa. Per questo si attivano forme di Comunicazione Sociale tese a propagandare gli effetti benefici del ‘sapere’ (pur se elitario), e narrazioni sulla sua capacità di generare ricchezza e benessere per tutti (anche se non ugualmente distribuite).

I tenutari del ‘sapere’ preferiranno investire in questo tipo di comunicazione sociale, anziché nella diffusione generalizzata del sapere stesso, onde preservare una posizione elitaria all’interno dell’organizzazione sociale che si va strutturando. I detentori del ‘sapere ideologico’ assumono pertanto la connotazione di ‘casta sacerdotale’, tendendo a circoscrivere l’ambito di diffusione dello specifico sapere a cerchie ristrette.

Qui l’esempio più evidente è proprio quello delle istituzioni religiose. Confidare in entità ultraterrene offre il vantaggio di un grande sollievo psichico, ma poggia su basi teoriche indimostrabili. Per questo le collettività si affidano ad individui particolarmente abili nel convincere sé stessi e gli altri della fondatezza di tali convinzioni, decidendo di compensarli per l’operato fornito. Ben presto il dialogo con l’ultraterreno diviene una vera e propria professione, tale da richiedere una specifica organizzazione e formazione degli addetti anche solo per impedire che costrutti indimostrabili analoghi possano alterare l’equilibrio sociale faticosamente costruito.

Immaginiamo una piccola collettività isolata, come può esserlo un villaggio di allevatori/agricoltori del neolitico. La comunità ha le sue convinzioni, le sue divinità e le sue modalità di organizzazione dello sforzo comune. Immaginiamo arrivare da fuori un pellegrino, portatore di una diversa visione del sovrannaturale, che inizia la propria opera di proselitismo diffondendo idee alternative sull’aldilà e sui comportamenti da mantenere in vita per avere accesso al benessere dopo la morte. Chiaramente questo comportamento entra in conflitto non solo con le credenze esistenti, ma con la stessa ‘casta sacerdotale’ in essere, facilmente composta da un singolo individuo. Questa fragilità rende evidente la necessità di avere convinzioni irrazionali condivise su una dimensione più ampia di quella rappresentata da una singola comunità.

Per stabilizzare la posizione di vantaggio dei detentori di sapere irrazionale è necessario che il sapere stesso sia sufficientemente vasto ed articolato da non poter essere acquisito in tempi brevi e con un minimo sforzo. Non è sufficiente, per dire, che la collettività creda ad una divinità cui ci si possa rivolgere direttamente ed in termini semplici e diretti. È necessario invece che i riti siano complessi, che la volontà della divinità sia volubile e difficilmente interpretabile, che siano richiesti sacrifici personali per guadagnarne la benevolenza, che tutto sia, in ultima istanza, complicato ed arbitrario.

Come già detto, ogni sapere razionale ha necessità di una motivazione irrazionale per poter essere applicato, la motivazione irrazionale sarà gestita da una o più persone portatrici del sapere irrazionale che opereranno attivamente per fare in modo che la collettività non perda tale convinzione.

Per tornare all’esempio iniziale, l’agricoltura per prima necessita di un supporto irrazionale: la convinzione che quanto ha funzionato in passato funzionerà anche in un futuro al momento inconoscibile. Da questo discendono i riti pagani legati alla fertilità dei campi, le convinzioni sull’influsso delle fasi lunari, le pratiche legate al potere magico di specifiche parti di animali (le corna, per dire) o di particolari ore del giorno e della notte. Gli individui detentori di questi saperi, se abili nel convincere gli altri della loro validità, ne ottengono in cambio, quando non una retribuzione, quantomeno uno status sociale collettivamente riconosciuto, dal quale ricavare vantaggi di varia natura.

Nel passaggio dalla dimensione del villaggio a quella delle città, dei regni e degli imperi, la strutturazione delle culture irrazionali si sviluppa di conseguenza, mentre parallelamente si articolano le relative modalità comunicative. Come i singoli individui comunicano esibendo la ricchezza conseguita grazie alle proprie convinzioni, parimenti agiscono le culture.

Le culture religiose innalzano templi e vestono i propri sacerdoti di tessuti preziosi, le culture militari innalzano edifici, colonne ed archi di trionfo per mostrare la propria potenza, le culture mercantili erigono mercati coperti e centri commerciali, con la doppia funzione di attirare gli acquirenti e mostrare la propria opulenza. Ogni esibizione pubblica (mostre, saloni, raduni, sfilate) ha la specifica funzione di convincere la parte di popolazione più suggestionabile dei vantaggi generati da una specifica cultura motivazionale.

Necessariamente la comunicazione sociale risulta pervasa da contenuti irrazionali, dal momento che sono gli unici impossibili da validare o confutare, e quindi perennemente oggetto di discussione. Gli animatori di Processi di Inganno e Ideologie sono perciò obbligati a ribadire con continuità i contenuti irrazionali da essi veicolati, investendo energie e risorse economiche in forme di Comunicazione finalizzate al convincimento collettivo.

Per meglio comprendere questo passaggio possiamo osservare la transizione che interessa l’Europa nel passaggio dall’Impero Romano all’epoca medioevale. Al suo apice, tra il primo e il secondo secolo, l’Impero Romano disponeva di grandi ricchezze derivanti dalle continue guerre di espansione, col relativo saccheggio di popoli e civiltà. Nei secoli successivi il meccanismo di arricchimento mediante predazione va in crisi: l’impero è ormai vasto e fittamente popolato da cittadini romani che non possono più essere ridotti in schiavitù, le conquiste militari sono sempre più lontane e sempre meno redditizie, di conseguenza le risorse per alimentare la Cultura Militare imperiale si riducono, gli investimenti in infrastrutture declinano, e le popolazioni perdono fiducia nella capacità dell’organizzazione imperiale di rispondere alle proprie necessità.

In questo contesto di scarsità, a soppiantare la cultura Militare in declino è una Cultura Religiosa, il Cristianesimo, meglio attrezzata a gestire contesti sociali di piccole dimensioni e poveri di risorse. Laddove l’Impero veicolava, con grande fasto e dispendio di risorse, ideali di competizione ed arricchimento, il Cristianesimo predicava la solidarietà fra gli individui ed un premio nell’aldilà. In termini di Comunicazione la pesante e dispendiosa macchina imperiale viene sostituita da una schiera di frati e sacerdoti che diventano parte integrante delle comunità, vi partecipano attivamente, vengono da esse sostentati e periodicamente (ogni domenica, con la Messa) ribadiscono e rinforzano il messaggio ideologico. La Chiesa ottiene in questo modo un’egemonia culturale sull’intero continente che durerà quasi un intero millennio. Analogo e speculare processo avviene con l’avvento dell’Islam nel mondo arabo.

Il controllo della comunicazione sociale alimenta un processo di identificazione collettiva nell’Ideologia dominante, ottiene di consolidarla ed assicura il perdurare delle posizioni di rendita, circoscrivendo il controllo decisionale ad una cerchia relativamente ristretta di individui (la cui estensione e potere dipendono dalla diffusione della Ideologia stessa e dall’eterogeneità delle popolazioni che ad essa fanno riferimento).

Il controllo della comunicazione avviene per mezzo di due modalità, una attiva ed una passiva: da un lato veicolando, con tutti i canali disponibili, informazioni e contenuti funzionali al consolidamento ed allo sviluppo dell’Ideologia dominante, dall’altro impedendo ad Ideologie concorrenti, o a voci critiche in seno al consesso sociale, di diffondersi e minare la stabilità raggiunta.

I meccanismi per impedire alle idee concorrenti di scardinare le convinzioni diffuse sono di diversa natura. Una di queste sono le distrazioni e l’intrattenimento. Degli antichi romani è noto il motto “panem et circenses” proprio a significare che quando il popolo è sazio e distratto non c’è da preoccuparsi che si ribelli. “Circenses” sta per circo, che per i romani indicava gli spettacoli di combattimenti tra gladiatori, ma in seguito fu esteso a spettacoli di giocolieria ed alle rappresentazioni teatrali in generale.

Nel Medioevo la Chiesa attuò un controllo stringente sulla cultura, che si tradusse in analfabetismo diffuso tra le popolazioni. Questa transizione è marcata dal passaggio ad un diverso supporto per i testi scritti, la pergamena. Mentre i latini usavano il papiro, un supporto delicato ma economico, che consentiva una alfabetizzazione di massa, la pergamena, un supporto più duraturo ma estremamente costoso, determinò l’impossibilità economica per la gran parte delle popolazioni ad accedere a testi scritti, che diventarono estremamente rari. La conseguenza di ciò fu un analfabetismo diffuso.

Questo passaggio segnò un drammatico declino culturale degli stati europei, che non ebbe un analogo contraltare nel mondo islamico, in cui scienza e cultura fiorirono grazie ai commerci con la Cina, dove era stata inventata la carta, un supporto robusto ed economico che apparve in Europa solo molto più tardi. Fu grazie alla carta, ed all’invenzione della stampa, che il continente europeo tornò ad avere un’alfabetizzazione diffusa, che in poco tempo produsse prima la rivoluzione scientifica, quindi quella industriale, avviando il declino dell’Ideologia religiosa.

Una ulteriore modalità di controllo culturale (e, di conseguenza, controllo sociale) è la generazione di un ‘rumore di fondo’ informativo che, al pari dell’intrattenimento, tenga occupata e distratta l’attenzione pubblica. L’informazione ‘mainstream’, veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, televisione e giornali, arriva diffusamente e capillarmente alla gran parte della popolazione, mentre quella ‘alternativa’ viene sommersa dal rumore di fondo e resa inefficace.

Con la rivoluzione scientifica, ed il conseguente progresso tecnologico, è apparsa evidente l’importanza di avere popolazioni alfabetizzate ed acculturate, libere di organizzarsi ed esprimersi. Ciò non poteva mancare di avere ricadute drammatiche sull’organizzazione sociale e sulle strutture di comando. La rivoluzione industriale vede l’ascesa di una nuova classe sociale, la borghesia, che diventa il primo produttore di ricchezza, grazie al commercio ed ai processi industriali. La disponibilità di ricchezza consente (e richiede) ai nuovi potentati economici di prendere in mano la gestione degli indirizzi collettivi.

Questo comporta la necessità di scalzare le preesistenti organizzazioni di controllo sociale: stati nazionali ed organizzazioni religiose. Gli stati nazionali vengono progressivamente demoliti dalle rivoluzioni borghesi (francese ed americana) e dalla transizione a forme di governo democratiche, meglio controllabili da parte del mondo economico, mentre a minare il potere religioso è la progressiva laicizzazione della società, velocizzata ed acutizzata dalla diffusione del razionalismo e del pensiero scientifico.

Il quadro attuale vede il trionfo di un’Ideologia produttivo/mercantile, che proietta il proprio potere nel controllo dei mezzi di comunicazione di massa, giornali e televisione, e contemporaneamente genera un abbondante rumore di fondo attraverso l’intrattenimento e i social networks, riuscendo oltretutto ad arricchirsi dalla fruizione di tutte queste modalità informative.

Il controllo sociale si avvale di un ulteriore Processo di Inganno, che prende il nome di Politica. Mentre il popolo viene governato dagli apparati burocratici e ministeriali, economicamente e culturalmente controllati dal mondo produttivo, la classe politica inscena un teatro ideologico permanente, deviando l’attenzione della popolazione su questioni volutamente ambigue come i ‘diritti civili’, la ‘sovranità’ o le ‘identità nazionali’.

Le testate giornalistiche destinano gran parte del proprio spazio alle evoluzioni della scena politica, poi si occupano di informare su nuovi prodotti e tecnologie (pubblicità occulta), sullo sport (che non di rado è semplicemente veicolo pubblicitario per comparti produttivi, come nel caso dell’automobilismo), e sull’intrattenimento (rumore di fondo), restringendo il cerchio della comunicazione di massa a tematiche strettamente utilitaristiche per l’Ideologia dominante. Solo una minuscola frazione dell’informazione è riservata alle questioni sociali ed ambientali, ed in genere si tratta di notizie imprecise e superficiali, quando non puro e semplice ‘greenwashing’.

Per ogni Cultura Irrazionale, militare, religiosa, produttiva o commerciale che sia, la priorità consiste nell’accreditarsi come unica ragionevole e plausibile visione del mondo, lavorando ad occultare le incongruenze di fondo. In linea di massima è relativamente semplice individuare le forzature ideologiche nella comunicazione di massa, ma altrettanto palesemente non vi è traccia della consapevolezza di esse nella cultura collettiva.

L’Ideologia produttivo/mercantile, nel suo generare (nell’immediato) benessere diffuso ed abbondante, si lascia alle spalle rifiuti e distruzione, problemi sanitari, perdita di biodiversità e di fertilità dei suoli, esaurimento di riserve energetiche fossili e delle materie prime, antropizzazione galoppante, disparità sociali, povertà ed annientamento di equilibri biosistemici millenari. Tutto questi problemi, è evidente, ricadranno come un macigno sulle generazioni a venire, ma al fine di preservare i vantaggi immediati è conveniente che la collettività continui ad ignorali.

Per contro, i sacerdoti dell’Ideologia proclamano una fede cieca in costrutti culturali palesemente e dimostrabilmente falsi, come l’idea di una ‘crescita illimitata’ dell’economia, o l’esistenza di una ‘mano invisibile del mercato’, che ad un esame razionale appaiono concettualmente non dissimili dalle divinità idolatrate dai popoli preistorici.

Il consolidamento di ogni Ideologia ha la funzione di stabilizzare l’Ordine Sociale, evitando derive che potrebbero ridurre, o eliminare, il controllo esercitato da parte delle Caste Sacerdotali dominanti. Tale consolidamento dà luogo ad una riluttanza sistemica, che ostacola ogni possibile cambiamento frenando l’evoluzione collettiva e, non di rado, conducendo al collasso catastrofico dell’organizzazione sociale stessa.


[1] Processi di Inganno

[2] Domesticazione Umana

4 – I Processi di Inganno

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

Singoli meccanismi di auto-inganno si integrano per dar vita a ‘Processi di Inganno’ capaci di amplificare le Volontà individuali e collettive

Abbiamo visto, nei precedenti approfondimenti, come i meccanismi di auto-inganno (Bias Cognitivi) si strutturino in forme sociali (Bias Culturali). Al crescere di dimensione dei gruppi umani, nel passaggio dalle piccola comunità (tribù e villaggi) alle città, e su su fino a stati ed imperi, le modalità di auto-inganno funzionali al benessere ed alla sopravvivenza si articolano ulteriormente, rafforzandosi e sviluppando proprie forme organizzative.

Abbiamo anche visto come un eccesso di consapevolezza possa indurre alla disperazione, e come la possibilità di compensare questa disperazione per mezzo di convinzioni irrazionali migliori la capacità umana di far fronte alle avversità. Ora si tratta di proiettare questo scenario su una dimensione sociale.

Posto che la convinzione dell’utilità di determinate pratiche irrazionali risulta vantaggiosa per l’individuo, lo stesso avviene a livello di gruppi. Con una differenza fondamentale: il gruppo agisce come un singolo organismo, le cui funzioni si articolano nei singoli individui. All’interno di un gruppo gli appartenenti si differenziano in base alle proprie inclinazioni ed attitudini, capacità ed abilità. Se un individuo è più bravo a cacciare, farà di preferenza il cacciatore, se è bravo a fabbricare utensili, farà l’artigiano.

In un simile contesto emergeranno necessariamente individui più capaci di altri nelle modalità di auto-inganno, ed è a questi individui che il gruppo assegnerà la funzione di rafforzare le convinzioni irrazionali collettive, fabbricare argomentazioni teoriche e praticare i riti propiziatori. Gli individui più portati a maneggiare le modalità di auto-inganno saranno chiamati dalla collettività a praticare le stesse modalità di inganno sugli altri membri del gruppo.

Quello che avviene quando una convinzione irrazionale viene condivisa è tipicamente l’emergere di un ‘leader carismatico’ che se ne fa portabandiera. Trattandosi di un processo irrazionale, risulta arduo sia convalidarlo che confutarlo. Se sono convinto che i miei insuccessi dipendano da una causa immateriale, non è possibile né accertare né contestare questa affermazione. Ma se ho realmente necessità di crederlo, sarò disposto a ricompensare, con beni o con il credito di autorità, chiunque mi supporti in tale convinzione.

La forma più semplice di questa attività la possiamo osservare nelle società umane organizzate per piccoli gruppi e tribù. In queste collettività, di norma, a curare le attività legate alla sfera dell’irrazionale, la cosiddetta ‘spiritualità’, è una figura sciamanica. Lo sciamano è ritenuto dalla tribù un individuo meno legato degli altri alla realtà fisica, capace quindi di dialogare con un mondo immateriale dal quale trarre indicazioni sulla condotta da tenere e sulle scelte da operare collettivamente.

All’interno di un processo di inganno vengono formulate e formalizzate descrizioni (razionalizzazioni) di processi di causa/effetto implicanti enti immaginari, che pertanto prendono la forma di ‘verità di fede’, dal momento che non è possibile produrre una dimostrazione della loro effettiva sussistenza. Tali razionalizzazioni svolgono funzioni motivazionali, e possono essere sfruttate per modificare e manipolare i comportamenti di gruppi e collettività.

I ‘saperi’ acquisiti vengono tramandati, di generazione in generazione, solitamente in forma orale, da uno sciamano al suo discepolo, che ne prenderà il posto come guida spirituale della comunità. Questo è, nella sua forma prototipale, ciò che ho definito come ‘Processo di Inganno’. Va fatto notare come il termine ‘inganno’ non sottintenda una volontà di approfittare degli altri membri della comunità, perché finalizzato al benessere della collettività stessa. Il processo, tuttavia, presta il fianco a possibili abusi.

Col crescere delle dimensioni della collettività le cose si fanno più complicate, perché i gruppi sociali si moltiplicano e diversificano, pur continuando a coesistere, aggregandosi per affinità. Ogni attività pratica evolve dal singolo individuo in un gruppo di esperti, portatori di competenze condivise e specifiche. In una collettività estesa tendono a svilupparsi gilde e corporazioni, gli artigiani da una parte, i guerrieri da un’altra, gli allevatori da un’altra ancora.

Necessariamente le attività legate ai ‘Processi di Inganno’ evolvono di conseguenza, dando vita a vere e proprie caste sacerdotali, cui è delegato lo svolgimento dei rituali, l’approfondimento e la continuazione del culto (n.b.: l’utilizzo del termine ‘caste sacerdotali’ potrebbe essere interpretato da un punto di vista strettamente religioso, mentre va inteso nel senso più ampio di organizzazioni di individui con competenze specializzate in ambiti irrazionali).

Lo sviluppo culturale di individui e collettività procede infatti su due binari paralleli. Da un lato attraverso lo sviluppo di competenze legate alla conoscenza del mondo reale ed alla sua manipolazione, quelle che potremmo definire ‘Culture della sfera Razionale’. Dall’altro mediante l’elaborazione dei sistemi di idee necessari a gestire gli aspetti emozionali, ivi inclusi i processi motivazionali, che potremmo etichettare ‘Culture della sfera Irrazionale’.

L’esigenza di questo doppio binario appare evidente se si osservano le azioni di singoli e collettività. Le competenze pratiche possono guidare la realizzazione di un qualsiasi lavoro manuale, ma la decisione se effettuare o meno tale lavoro, o quando iniziare, non sempre si può desumere da un’analisi razionale (a monte di tutto, la necessità stessa del nostro esistere non può essere fatta discendere da un’analisi razionale, ma unicamente da una Volontà egoistica).

Se la Realtà non ha alcuna necessità di noi, l’unico possibile motore delle nostre scelte è la decisione individuale di esistere, la già menzionata Volontà, motore irrazionale che apre ad un ventaglio di opzioni tra le quali selezionare la modalità di esistenza più congrua con la nostra sfera emotiva, i nostri saperi e le nostre capacità.

È da questo ventaglio di possibilità che emergono le ‘Culture Motivazionali’, ovvero i sistemi di idee in grado di aiutarci a selezionare e scegliere le modalità più adatte per svolgere le azioni quotidiane ed organizzare la nostra sfera sociale. Le stesse Culture Motivazionali che, sulla scala dei gruppi sociali, finiscono col definire l’identità, l’indole, le scelte e l’agire di interi popoli.

Un sistema di idee è necessario per stabilire se si debba o meno abbattere un albero, o costruire una casa, se lavorare o riposarsi, se operare di concerto con altri o, al contrario, ostacolare le intenzioni altrui. Un sistema di idee risulta indispensabile a gestire gli aspetti motivazionali dell’esistenza, per se stessi irrazionali e non derivabili dall’osservazione della realtà. Il termine che definisce un tale sistema di idee è Ideologia.

A puro titolo di esempio, il giorno di riposo settimanale non discende da nessuna legge naturale, ma è il portato dello sviluppo di agricoltura ed allevamento, che hanno prodotto una sufficiente abbondanza di cibo e sicurezza da consentirci di disporre, periodicamente, di una giornata non lavorativa. E si è convenuto un giorno ogni sette perché sette giorni sono, con buona approssimazione, un quarto dell’orbita lunare, ovvero uno dei principali ‘orologi’ dell’antichità. Questa prassi è stata quindi formalizzata, presso popoli diversi ed in modalità diverse, all’interno di un ‘pacchetto di credenze’, che ne ha resa permanente l’adozione. E il giorno di riposo dal lavoro viene in genere dedicato ad attività legate alla sfera dell’irrazionale, religiose e/o ricreative, ottenendo di rafforzare convinzioni e motivazioni.

L’inserimento di intermediari all’interno delle dinamiche individuali e sociali introduce un termine di ulteriore arbitrio, e consente all’intermediario di ottenere forme di ricompensa. A titolo di esempio: se i membri di una tribù sono convinti che l’arrivo della pioggia discenda dalla volontà di un non meglio definito ‘Grande Spirito’, l’intermediazione di uno sciamano viene considerata risolutiva nel momento in cui la pioggia si verifica. Il conforto psichico offerto da tale convinzione consiste nell’eliminare la preoccupazione che la pioggia possa non venire mai più.

Il ruolo di sciamano si carica dell’importanza conferita alla risoluzione del problema, e l’intera tribù si offre di provvedere alle necessità dell’individuo che ricopre tale incarico. Il meccanismo di auto-inganno individuale (credere nella pioggia mandata dal Grande Spirito) trova un rinforzo nella figura dello sciamano, innescando un Processo di Inganno all’interno del quale il vantaggio ottenuto dal ‘mediatore’ è tale da alimentare l’inganno indipendentemente dalla convinzione del mediatore stesso.

Il rischio di una tale deriva etica appare intrinseco al processo stesso: le pulsioni irrazionali alimentano la produzione di ricchezza e benessere oltre le immediate necessità; gli individui più inclini alle modalità di inganno hanno facilità ad inserirsi all’interno di questa dinamica e le capacità manipolatorie consentono loro di assurgere a posizioni chiave, finendo col trovare vantaggio ad alimentare il processo stesso indipendentemente dalle proprie stesse convinzioni (che pure possono evolvere nel tempo).

Con la definizione di Processo di Inganno si intende perciò un sistema stabile di inganno socialmente formalizzato, all’interno del quale un singolo o un gruppo di individui operano ad alimentare convinzioni infondate ed a fornire spinte motivazionali in cambio di un ritorno economico, ottenendo di contribuire al benessere diffuso e finendo con l’assurgere a posizioni di vertice nell’organizzazione sociale.

Per eccellere nella gestione dei Processi di Inganno è necessario un approccio quantomeno elastico a ciò che potremmo definire come Realtà Fattuale, in altri termini disporre della capacità di auto-ingannarsi con facilità. Questa capacità di auto-inganno può svilupparsi al punto da far perdere del tutto il contatto con la realtà, fino a sostituire ad essa le proprie fantasie e ad interpretare ciò che accade in forme totalmente distorte.

Ciò può condurre ad azioni orribili basate non necessariamente sulla crudeltà, bensì sul convincimento della loro necessità ai fini di un ‘Bene Superiore’, una dinamica psichica ben nota e documentata. Il punto interessante è proprio relativo all’emergere di queste personalità devianti ed al loro assurgere a posizioni di leadership, in larga parte determinato dal successo e dall’efficacia dei ‘Processi di Inganno’ al cui interno si trovano ad agire.

Un esempio su tutti è l’ascesa del Nazismo in Germania. Gli ideologi nazisti furono in grado di generare una bolla di irrazionalità collettiva di proporzioni inusitate, all’interno della quale azioni assolutamente riprovevoli trovavano giustificazione. Parallelamente la compartimentazione della società fece si che larga parte della popolazione venisse tenuta all’oscuro dei fatti reali (per il suo bene, ovviamente…) col risultato di trascinare la Germania in un processo di pulizia etnica insensato e l’intera Europa in una guerra fratricida e devastante.

In estrema sintesi, gli esseri umani hanno la possibilità di determinare le proprie azioni, ma per farlo necessitano di un sistema di idee. Una possibile opzione è rappresentata dal fare il minimo necessario e vivere alla giornata. Questa scelta determina una ridotta disponibilità di surplus di risorse da investire per mettere in moto altri processi.

In alternativa, se un mediatore ti convince a lavorare di più, con argomentazioni necessariamente irrazionali, il surplus di ricchezza prodotto potrà essere investito per alimentare il Processo di Inganno, che potrà così protrarsi nel tempo e coinvolgere altri soggetti.

Col crescere della popolazione coinvolta e l’aumento della complessità delle società umane osserviamo l’ascesa dei Processi di Inganno ed il loro strutturarsi in ‘Ideologie’, una dinamica che approfondiremo nei prossimi post.

Il premier travicello, il premier biscione

Per comprendere come funzioni la politica nei sistemi sedicenti democratici, com’è il nostro, la maniera migliore è ricorrere alla favola di Fedro “Le rane chiedono un re” [1] [2]. Nel racconto le rane, incapaci di darsi ordine, chiedono a Zeus un re, e lo fanno gracidando in continuazione, fino ad infastidire gli dei dell’Olimpo.

Zeus butta loro un pezzo di legno, che atterra nello stagno con gran rumore, ma le rane, dopo poco, si rendono conto che quel re è inutile, e riprendono a protestare. Zeus, stanco di loro, butta allora nello stagno una biscia, che comincia a mangiarsi le rane, obbligandole a smettere di gracidare. La morale della storia è che non ci si deve lamentare di un governante incapace, perché il rischio è ottenere di sostituirlo con uno dannoso.

Come si applica questo racconto alla politica attuale? Le rane, ovviamente, siamo noi cittadini. Zeus, in questo parallelo, è il potere economico, che finanzia ascesa e declino di partiti e singoli leader, oltre a controllare in vario modo i mezzi di comunicazione di massa. Quello che otteniamo è esattamente il modello di teatrino politico che possiamo osservare intorno a noi.

Ad alternarsi sono il fronte progressista, che rappresenta il nostro ‘travicello’, e quello reazionario, ovvero la ‘biscia’. Il fronte sedicente progressista non può che fare il gioco del mercato, anche in maniera molto sporca e subdola, e resta al governo finché non è obbligato a scelte decisamente impopolari.

Quello che accade, a questo punto, non è l’ascesa di un governo che operi in contrapposizione con le scelte precedenti, ma quella di un fronte politico che prenda decisioni ancora più intollerabili. L’alternativa, per noi sciocche rane, è sempre e soltanto tra un male maggiore ed un male minore, mai tra un male e un bene.

Questo, in un sistema sociale eterodiretto, consente di conservare la coerenza del flusso decisionale, alternando versioni sottilmente diverse, ma sostanzialmente analoghe, degli stessi indirizzi politici, economici e sociali, per lunghi archi di tempo.

A noi rane è concesso di partecipare a questo teatrino nella veste di spettatori, di tifare per l’una fazione o per l’altra, di accapigliarci su principi astratti e spesso irrilevanti, di dibattere fino allo sfinimento l’argomento del giorno, piovuto dall’alto come tutto il resto.

L’essenziale è mantenerci abbastanza impegnati da non poter comprendere la finzione in cui siamo immersi, la nostra assoluta irrilevanza individuale, il nostro essere totalmente inermi di fronte a tecniche di manipolazione del pensiero collettivo sviluppate e raffinate nell’arco di secoli.

https://pixabay.com/it/photos/rana-animale-stagno-rana-d-acqua-3542393/

1 – Le Rane chiedono un re

2 – The Frog Who Desired a King (pagina inglese, molto più esaustiva)

Tirando i remi in barca

In questo post descriverò la totale assenza di aspettative che nutro nei confronti della prossima tornata di elezioni amministrative. Al fine di consentire ai miei tre lettori di calarsi meglio nel ragionamento, inizierò con un breve racconto di fantasia.

Foto di Steve Buissinne da Pixabay

Un uomo, raggiunta la maturità ed una adeguata stabilità economica, decide di lasciare la città e costruirsi una casa in collina. Acquista un terreno con affaccio panoramico ed inizia a scavare per mettere in posa le fondamenta della sua nuova casa. Scavando, a meno di un metro di profondità trova un terreno instabile, pronto a sfaldarsi ed inadatto alla posa di fondamenta. Allora scava ancora più in profondità, e scopre una discarica di rifiuti tossici. Dopo averla fatta bonificare, a proprie spese, raggiunge finalmente lo strato roccioso sottostante. Le necessarie analisi geologiche evidenziano livelli di radioattività naturale incompatibili con l’idea di stabilirsi in prossimità. L’uomo abbandona il progetto di costruire la propria casa in collina, dopo aver dilapidato mesi di tempo e buona parte dei propri risparmi, e si rassegna a vivere in città”


Ecco, se devo descrivere i miei ultimi decenni da cicloattivista, questo è il paragone più calzante: quello di un uomo che più scava e peggio trova, al punto da finire con l’abbandonare ogni illusione di cambiamento. Una vicenda che si conclude con tutte le risorse iniziali (età, tempo, volontà, passione, entusiasmo) inutilmente dilapidate ed ormai non più recuperabili.

Senza andare troppo indietro nel tempo, poco meno di dieci anni fa, nel lontano 2012, la campagna #salvaiciclisti [1] aveva smosso l’attenzione collettiva. Poco dopo, l’elezione del sindaco Ignazio Marino, un ciclista, aveva acceso le speranze del movimento cicloattivista romano. Furono speranze di breve respiro, dal momento che l’operato di Marino fu definitivamente affossato dal suo stesso partito, palesemente contrario agli intenti riformatori del proprio primo cittadino. Un ‘suicidio politico’ che, possiamo immaginare, fu considerato il necessario prezzo da pagare per la salvaguardia di interessi consolidati.

L’impresentabilità delle destre, conseguente al malgoverno del precedente sindaco Alemanno, e la malaugurata scelta del centrosinistra di far fuori il proprio stesso sindaco, fecero spazio ad una terza forza, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che stravinse le elezioni portando a casa una maggioranza assoluta nel consiglio comunale e tredici amministrazioni municipali su quindici. Un ‘bottino’ destinato a perder pezzi in breve tempo.

Il Movimento appariva ispirato da ideali ambientalisti, e questo ci fece sperare nel tanto atteso ‘cambiamento’. Diversi fra noi cicloattivisti finirono integrati nella macchina amministrativa, come assessori o bike-manager, avviando (o almeno così pensavamo) la trasformazione della città. Ma il primo ‘terreno sdrucciolevole’ che incontrammo fu proprio la parte politica.

Il Movimento, per propria scelta, non era composto da politici di professione, e questa caratteristica fu in principio valutata positivamente. Di fatto, però, l’assenza di linee guida preconfezionate’ sulle azioni da intraprendere fece sì che per ogni intervento proposto si generassero interminabili discussioni e distinguo tra favorevoli e contrari. Venne a galla quella che a tutti apparve come un’impreparazione degli eletti, ma che era in realtà da imputarsi agli organi del Movimento, che per ottenere maggiori consensi avevano lasciato nel vago pressoché ogni indirizzo.

Nell’esperienza locale, buona parte di questa impasse mi fu risparmiata dalla determinazione della presidente del Municipio, che mi aveva incaricato delle competenze sulla mobilità. Per il resto, a parte pochi referenti preparati ed attenti alle tematiche di vivibilità urbana, la maggior parte degli eletti pareva non sapere nemmeno di che si stesse parlando. All’interno del municipio riuscii a sviluppare un minimo di formazione e didattica, al di fuori poco o nulla.

Esclusa la parte politica, il maggior responsabile della disastrosa situazione della mobilità cittadina è poi risultato essere l’apparato burocratico [2]. Dirigenti e tecnici fossilizzati su concezioni obsolete come la ‘fluidificazione del traffico’, la ‘salvaguardia della sosta’, o i margini di arbitrarietà per lasciare le automobili in doppia fila. Negli uffici ho avuto modo di incontrare funzionari pronti ad ostacolare ogni possibile trasformazione, relativamente inamovibili dalle proprie posizioni dirigenziali e, non deve sorprendere, sostituibili solo con personaggi altrettanto ostativi.

Ma ancora più a monte di tutto questo, a rendere possibile l’esistenza di un apparato amministrativo votato alla cura degli interessi privati ed indifferente alla gestione del bene pubblico, è risultato essere proprio l’impianto regolatorio e normativo della legislazione nazionale [3], che con la sua cavillosità, i suoi bizantinismi retorici e la sostanziale vetustà di visione consente ampi margini all’arbitrio ed allo stravolgimento delle priorità di volta in volta indicate dalla parte politica.

Perché se è vero che i progetti sviluppati in questi anni sono anch’essi pieni zeppi di scelte sbagliate o discutibili, è la normativa stessa ad offrire il fianco all’errore ed a consentire alla parte tecnica di ‘sbagliare’. I morti e feriti da incidentalità stradale discendono dai regolamenti imposti dal codice della strada e dalle modalità che quest’ultimo permette di implementare. Per non parlare di tutto il resto, dalle norme urbanistiche a quelle che di fatto ostacolano la repressione di crimini e forme di illegalità.

E se tutto questo ancora non bastasse i fondi a bilancio, di norma, non bastano nemmeno a coprire le necessità manutentive di tutto quanto costruito e bellamente inaugurato in passato. Migliaia di chilometri di rete stradale in malora, parchi di periferia abbandonati a se stessi, infrastrutture iniziate e mai finite. Un enorme caos da inseguire e rappezzare, con personale insufficiente, spesso inefficiente e non di rado latitante, con fondi inadeguati e procedure formali lente, farraginose e dall’esito incerto.

Abbiamo perciò un intreccio perverso tra normative cervellotiche, ampi margini di arbitrio dell’apparato burocratico, assegnazioni di fondi solitamente mirate a tamponare singole criticità e, ad intorbidare il tutto, il potere corruttivo degli interessi economici [4]. Un complesso di fattori che, insieme, concorrono nel dar corpo ad una gestione disfunzionale della città, dove l’azione politica risulta inefficace e di corto respiro. Anche amministratori di buona volontà, una volta inseriti in un tale meccanismo, hanno di fronte ben poche scelte.

Un tale sistema tende a metabolizzare i corpi estranei, oppure ad espellerli. Chi accetta di collaborare, diventandone un consapevole ingranaggio, viene premiato e diventa parte integrante dell’apparato. Chi risulta irriducibile e prova a far valere le proprie posizioni, ne viene semplicemente espulso. Sorte toccata non solo al sottoscritto ma anche a buona parte degli altri ‘attivisti’ arruolati a seguito della vittoria elettorale, in ciò includendo i ‘cambi di casacca’ di diversi esponenti politici.

L’ultima cosa che ho tardivamente compreso, quella che avrei dovuto realizzare fin dall’inizio, è che un sistema complesso non emerge dal caso. Nella mia ingenuità, ho abbracciato una narrazione ottimista e falsata, finendo col credere che la situazione contingente fosse facilmente reversibile. Che bastasse, cioè, evidenziarne le problematiche ed i limiti, ed indicare possibili alternative, per innescare una volontà diffusa di trasformazione.

Al contrario (come ho finalmente, troppo tardi, realizzato), il sistema attuale è il risultato di volontà ed azioni mirate, di investimenti economici, di interferenze culturali, di un concerto di interventi strettamente finalizzati a produrre esattamente il disastro attuale. È necessario un notevole investimento in termini di tempo, denaro ed energie per convincere le persone a sacrificare salute, incolumità fisica e qualità della vita. Un investimento massivo e pervasivo che, in ultima istanza, restituisce indietro reddito ed incremento del fatturato.

Questo risultato si è ottenuto martellando la popolazione con quello che può essere definito come un pensiero unico semplificato, appiattito e acritico. Una narrazione elaborata e capillare, veicolata attraverso ogni varietà di mass media, capace di farci percepire l’esistente come unica ragionevole possibilità, e parimenti di indurci ad ignorare e rigettare ogni possibile visione alternativa.

A posteriori, si sa, tutto appare più chiaro ed evidente. Se un modello economico è in grado di estrarre profitto per alcuni soggetti, genererà inevitabilmente ricadute negative per altri. Elemento chiave, nel successo del modello economico stesso, sono le modalità comunicative capaci di esaltarne le positività e, simmetricamente, far sparire le negatività dall’orizzonte percepito. In questo caso l’apparente neutralità o inevitabilità di determinate scelte finisce con l’essere parte integrante della mistificazione.

L’esclusione delle voci critiche dai canali comunicativi, l’enfatizzazione di vantaggi spesso effimeri o forieri di ulteriori sconquassi, la mistificazione sistematica, la ‘normalizzazione’ di fenomeni drammatici come l’incidentalità stradale o il degrado delle periferie, sono tutti elementi del processo di fabbricazione di una realtà percepita che, nell’intento di massimizzare i guadagni di chi ne controlla la narrazione, deve essere necessariamente slegata dalla realtà oggettiva. È parimenti indispensabile che una tale manipolazione non venga percepita.

Siamo stati indotti a credere che questo modello di sfruttamento economico fosse solo uno fra tanti scenari possibili, che si sarebbe potuto scardinare facendo appello all’intelligenza dei cittadini, che la prospettiva di una trasformazione dell’organizzazione urbana sarebbe stata accolta con curiosità ed interesse, ed avrebbe portato ad un tanto atteso ‘cambiamento’. Sul piano strettamente personale, in quest’illusione ci sono cascato dentro con tutti e due i piedi.

A distanza di cinque anni dalle elezioni, il Movimento 5 Stelle sembra aver perso la sua battaglia per imporre la propria volontà e visione politica all’apparato burocratico. Quello stesso apparato che, a norma di legge, avrebbe dovuto supportarne l’azione riformatrice, ha mantenuto ben saldo il timone contribuendo alla conservazione degli interessi e degli assetti preesistenti.

Trasporto pubblico e raccolta dei rifiuti annaspano, anche a causa dei limiti delle aziende partecipate, AMA ed ATAC, e sono due tra i cattivi risultati più evidenti dell’azione amministrativa. È facile gioco, per la stampa al soldo di palazzinari e potentati economici, far discendere da una responsabilità politica l’inefficienza di questi servizi. Per il resto ben poco è cambiato, dalla gestione del verde alle trasformazioni urbane, per tutta una serie di freni, ostacoli ed impasse abilmente gestiti dal comparto tecnico.

La prossima tornata elettorale si svolgerà, molto probabilmente, tra un centrodestra a guida leghista e un centrosinistra a guida PD, entrambi più che pronti a rimettere le mani sulla città e a nascondere, dietro una cortina fumogena di iniziative sociali e culturali (specifiche per ognuno), la distruzione del tessuto urbano e i favori alle diverse lobby economiche.

Quanto a me, in questi anni, quel poco che era nelle mie possibilità ho cercato di farlo. Purtroppo non è bastato, e nemmeno avrebbe potuto, muovendo da presupposti erronei. Non sono stato abbastanza accorto da comprendere che stavo agendo nel luogo, nel modo e nel momento sbagliati. Ho sprecato tempo ed energie, finendo col perdere lo slancio che mi animava, ed ancor più la convinzione.

Da ultimo pesa il dato anagrafico. Dopo aver trascorso decenni a lottare per ottenere solo briciole, per di più transitorie, quanto senso può avere continuare a sbattersi?
In una prospettiva realistica si può sperare di ottenere, al più, troppo poco e troppo tardi. Un riallineamento delle priorità di vita appare necessario.


[1] – #salvaiciclisti

[2] – Conversazione tra un politico e un burocrate

[3] – Sulla reale efficacia delle regole

[4] – Capitalismo vs Democrazia

Capitalismo vs Democrazia

Twain

Le riflessioni sulla corruttibilità di un intero sistema paese mi hanno portato molto più lontano di quanto mi aspettassi. Oggi vorrei provare a ragionare quanto i sistemi sociali definiti come Capitalismo e Democrazia siano reciprocamente incompatibili all’interno di uno stato nazione. Comincerò col dare delle definizioni sintetiche di entrambi.

Capitalismo è, in estrema sintesi, un modello economico basato sul possesso privato dei mezzi di produzione e sulla relativa possibilità di generare illimitate quantità di ricchezza, concentrata anch’essa in mani private. Nei sistemi economici capitalisti lo stato non è titolato ad intervenire nei processi decisionali delle imprese private, limitandosi a sancire una serie di obblighi nei confronti dei soggetti coinvolti, oltre alla tassazione di eventuali profitti.

Gli obblighi riguardano la salute dei dipendenti, che non può essere messa a rischio (quantomeno non senza un consenso informato), la salute pubblica (in senso molto lato, dato che è consentita la commercializzazione di sostanze e manufatti potenzialmente nocivi, per il cui corretto impiego si rimanda al buonsenso degli utilizzatori finali) ed in linea di massima la necessità di evitare danni diretti e documentabili a soggetti terzi.

Per riassumere: un’impresa deve aver cura di non causare ferimento, malattia o morte dei propri dipendenti e deve evitare di far del male direttamente al resto della cittadinanza. Per contro può fabbricare e commercializzare strumenti e prodotti potenzialmente dannosi come alcune sostanze psicotrope (alcool, nicotina, farmaci oppioidi…), cancerogene (carburanti per autotrazione, sigarette…), nocive per la salute se assunte in quantità eccessive (cibi spazzatura ricchi di zuccheri, sostanze eccitanti, grassi saturi, additivi chimici e/o residui di frittura), o dispositivi il cui uso scorretto o criminale può arrecare danni fisici (armi da fuoco e da taglio, autoveicoli, prodotti chimici velenosi o tossici…) e non da ultimo può ignorare del tutto le problematiche legate allo smaltimento ultimo dei propri prodotti, che finiscono col produrre un inquinamento generalizzato dell’ambiente.

L’unico principio etico’ (se così si può definire) che le imprese di un sistema capitalista devono rispettare riguarda gli interessi degli investitori. Cittadini e società per azioni possono investire i propri risparmi nelle imprese, che si impegnano a restituire il denaro con gli interessi maturati dalla produzione di ricchezza. L’idea è che un’impresa sana possa utilizzare i risparmi degli investitori per mettere in moto meccanismi di produzione in grado di garantire loro un guadagno. Parte di quanto ricavato va all’azienda a copertura dei costi, parte viene prelevato dallo stato sotto forma di tasse, ed il rimanente viene distribuito fra gli investitori.

In estrema sintesi un’impresa può, nella ricerca del proprio interesse economico, ottenere di danneggiare indirettamente i cittadini e l’ambiente (ma la responsabilità dovrà essere dimostrata), e sarà unicamente tenuta a tutelare il ritorno economico degli investitori. A titolo di esempio, i fabbricanti di sigarette non possono essere chiamati a rispondere legalmente della cancerogenicità dei propri prodotti, ma possono essere portati in tribunale, da chi ha investito nel mercato azionario, qualora non abbiano fatto tutto il necessario per vendere il maggior numero di sigarette possibile (così causando il massimo numero di tumori possibile).

Da quanto detto appare evidente il conflitto tra salute della collettività ed esigenze di guadagno delle imprese, ma la situazione è ulteriormente aggravata dal conflitto tra piano economico e piano politico, dove entra in gioco il secondo termine della questione: l’esercizio democratico nella scelta dei governanti.

Col termine Democrazia si indica una forma di governo in cui il potere non è in mano ad una o più figure autoritarie, ma al popolo stesso. La maniera in cui questo potere viene esercitato è per solito in forma rappresentativa: il popolo viene periodicamente chiamato ad esprimersi attraverso il voto e ad eleggere i propri rappresentanti, ai quali viene affidato il governo della nazione. Di norma, in un sistema di governo democratico vengono identificati tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, che devono essere esercitati da entità separate e distinte.

Il potere legislativo, ovvero decidere cosa sia giusto fare e come, è in mano ad un organo denominato parlamento, all’interno del quale vengono rappresentate le diverse opinioni della popolazione, nelle rispettive proporzioni, grazie ai membri eletti. Un’altra entità, detta governo, si occupa di far applicare e rispettare le leggi esistenti e di nuova emanazione, mentre una terza, la magistratura, ha il potere di giudicare sia la corretta applicazione delle leggi da parte del governo, sia il loro rispetto da parte della popolazione.

Rispetto a questi tre poteri formalmente sanciti, detti legislativo, esecutivo e giudiziario, l’accumulo di ricchezza da parte di imprese private rappresenta una sorta di quarto potere, in grado di influenzare da un lato l’opinione pubblica, dall’altro l’operato dei rappresentanti eletti, e in ultima istanza l’efficacia dei poteri collegati.

Per quanto concerne l’influenza sull’opinione pubblica va rilevato che il potere economico controlla, in maniera diretta ed indiretta, gli strumenti di comunicazione di massa. In maniera diretta attraverso il possesso della proprietà, o di quote azionarie, in maniera indiretta per mezzo della pubblicità e dell’investimento nella realizzazione di prodotti di intrattenimento.

Ad esclusione della televisione di stato, i mass media sono essi stessi imprese commerciali, spesso di proprietà di altre imprese. Nel caso della proprietà diretta è evidente che un giornale, posseduto da un’impresa di costruzioni edili, o da un fabbricante di autoveicoli, tenderà a fornire una visione dei fatti perlomeno orientata agli interessi dei propri proprietari (l’indipendenza dei singoli giornalisti non può travalicare le scelte editoriali).

Meno evidente, ma altrettanto concreto, è che gli introiti della stampa indipendente’ (ma il discorso vale per i media in generale) derivino dalla concessione di spazi pubblicitari, mentre il ricavato della vendita delle copie in edicola non basta più nemmeno a coprire i costi di stampa e distribuzione. In un quadro del genere, qualsiasi testata si guarderà bene dal pubblicare contenuti che la sua primaria fonte di sostentamento, gli acquirenti degli spazi pubblicitari, possa ritenere sgraditi.

Questa forma di controllo economico, diretto ed indiretto, ha come ultimo esito una narrazione pubblica totalmente appiattita sui desiderata delle imprese e del mondo finanziario in generale, che a sua volta si riflette in un significativo appiattimento del dibattito pubblico per quanto riguarda i temi micro e macroeconomici, ed in un’enfasi del tutto ingiustificata su questioni sostanzialmente secondarie come le identità etniche, politiche o religiose.

L’ultimo tassello del controllo dell’economia sulla comunicazione è rappresentato dai prodotti di intrattenimento e dei circuiti di distribuzione ad essi collegati, solitamente imprese commerciali essi stessi. Il progetto di un film o di una serie televisiva deve individuare dei finanziatori prima di poter partire, andrà a cercarli tra chi dispone delle maggiori quantità di denaro da investire e difficilmente ne troverà se proporrà temi sgraditi agli investitori. Il risultato di questo ennesimo filtro è che la quasi totalità di quanto ci viene quotidianamente somministrato come intrattenimento (anche quello che acquistiamo), è appiattito su una narrazione pienamente coerente col modello capitalista.

L’esito di questo controllo, diretto ed indiretto, sui mezzi di informazione ed intrattenimento è la diffusione di un ‘pensiero unico’ sui temi economici e sociali; un controllo non dissimile da quanto messo in atto nei sistemi dittatoriali ma molto più sottile, capillare, pervasivo ed in ultima istanza accettabile dalla popolazione. Quello che ha conferito ai mass media la definizione, ironica ma calzante, di “armi di distrazione di massa”.

Da quanto esposto fin qui si individua una prima tipologia di invadenza del sistema economico nei meccanismi democratici, sotto forma di un orientamento diffuso delle opinioni dei cittadini, che poi troverà espressione nel momento del voto. Ma l’invadenza non si ferma qui. Ricordiamo che le imprese, al di là dell’avidità di chi le gestisce, si fanno bandiera di una sorta di ‘obbligo morale’ nel produrre ricchezza per sé e per i propri investitori. Ne consegue la necessità, riconosciuta e pubblicamente accettata, di intervenire per orientare a proprio vantaggio le decisioni dei poteri democratici: legislativo, esecutivo e giudiziario.

Da questo punto di vista, il soggetto speculare ai produttori e distributori di contenuti culturali, nell’ambito politico, sono i partiti. Al pari delle grandi testate giornalistiche, i partiti sono in parte espressione diretta di interessi economici (al punto da non doverlo neanche nascondere… ‘Forza Italia’ di Berlusconi docet), in parte soggetti sedicenti ‘indipendenti’, sorretti da sistemi di finanziamento raramente trasparenti.

La pressione dei potentati economici sulle decisioni delle linee politiche da promuovere si esprime, quindi, anche indipendentemente dai meccanismi corruttivi tradizionali, mentre il caso estremo di invadenza agisce per mezzo di trasferimenti di denaro, a singoli uomini politici o figure tecniche in ruoli di grande responsabilità, effettuati in totale segretezza grazie ai paradisi fiscali. Il trait d’union formale tra mondo economico e mondo politico è rappresentato dai cosiddetti lobbisti, che hanno il ruolo di mediare tra gli interessi delle imprese e quelli della classe politica.

Il controllo dei potentati economici sui partiti si riflette nell’emanazione di leggi che favoriscono interi comparti, quando non singole imprese, e nelle scelte di destinazione di fondi pubblici (ad esempio quelli destinati all’estensione e manutenzione della rete stradale, che favorisce il comparto del trasporto e della mobilità privata ai danni delle reti su ferro e del trasporto pubblico).

Per inciso, non è strettamente necessario che le leggi approvate siano esplicitamente a favore di determinati interessi economici. È infatti sufficiente che tali leggi siano confuse, inapplicabili, farraginose e prive di decreti applicativi perché portino acqua al mulino di chi ha investito per renderle inefficaci.

Così come non è strettamente necessario che i poteri economici siano legali perché possano prodursi i meccanismi sovra descritti: sistemi economici criminali come quelli legati al narcotraffico, che ha una rilevanza significativa sul PIL nazionale, hanno anch’essi canali di accesso ai piani alti della politica. Pecunia non olet, dicevano i latini.

Quali sono le conseguenze ultime di questo quadro? Da diverso tempo una delle mie citazioni preferite è la frase di Mark Twain: “se votare servisse a qualcosa, non ce lo lascerebbero fare”. Più vado avanti ad analizzare i meccanismi sottesi all’esercizio di governo democratico, ed alla loro sostanziale corruttibilità, più mi convinco della veridicità di tale assunto.

Possiamo attenderci, ad esempio, che le esigenze di salute pubblica vengano poste in secondo piano rispetto alla redditività delle imprese. In Italia abbiamo innumerevoli esempi, dall’inquinamento diffuso nelle aree più ‘produttive’ del nord fino al tasso di tumori esorbitante intorno all’ILVA di Taranto a sud, fino all’onnipresente invadenza del trasporto privato causata da scelte urbanistiche e trasportistiche scellerate, con tutto il suo portato di morti e feriti.

Possiamo attenderci che le misure di contrasto al crimine organizzato siano poche ed inefficienti, ed è facilmente verificabile come anche questa situazione si verifichi con frequenza. Possiamo attenderci che la certezza della pena sia messa in discussione da una legislazione eccessivamente garantista, e che l’efficacia degli iter processuali sia minata da una quantità di problemi, lungaggini e questioni tecniche derivanti da norme inutilmente complesse e disfunzionali.

Possiamo attenderci un teatrino della politica in cui i partiti ‘di destra’ promulgano impunemente politiche a favore dei grandi gruppi industriali, mentre i partiti sedicenti ‘di sinistra’ mettono in atto anch’essi politiche di destra anteponendo l’interesse dei grandi gruppi privati a quello pubblico, al più mascherandole da misure necessarie o scegliendo di rinunciarvi e perdere la successiva tornata elettorale per fare in modo che le stesse scelte politiche possano essere portate avanti dai loro teorici oppositori.

Il trucco sta nel mantenere l’apparenza di un sistema democratico, quando sono invece grandi imprese e gruppi finanziari a controllare quello che pensiamo, attraverso i mass media, e quello che decidono di fare i rappresentanti che eleggiamo, attraverso i partiti. O, come ebbe a dire in estrema sintesi il musicista Frank Zappa: “La politica è il ramo intrattenimento del comparto industriale”.

Zappa

Gobba? Quale gobba?

frankenstein-junior

Nel film Frankenstein Junior di Mel Brooks, tra le centinaia di gag, ce n’è una che viene ricordata più spesso di tante altre. Nel momento dell’incontro tra il giovane Frankenstein ed il deforme Igor, il primo suggerisce al secondo: “Sono un chirurgo famoso, potrei aiutarti con quella gobba…”, al che il secondo, come se ne avesse sentito parlare per la prima volta, risponde: “Gobba? Quale Gobba???”

Comincio a percepire lo stesso problema quando mi trovo a discutere di mortalità stradale al di fuori delle persone e degli spazi (che ora fa molto chic definire ‘echo chamber’) coi quali mi confronto quotidianamente. Se parlo di incidentalità, di sinistri, di morti e feriti, l’espressione dei miei interlocutori assume ben presto quella fisionomia da pesce lesso che tutti conosciamo. “Morti e feriti? Quali morti e feriti???”

Chiunque abbia un’infarinatura di psicologia potrà a questo punto suggerire che le informazioni di natura generale non sedimentano nel sentire comune, e vengono facilmente dimenticate. Miglior sorte hanno quegli eventi particolarmente drammatici e violenti da riempire le pagine di cronaca per giorni e giorni, come l’uccisione di due ragazze, avvenuta lo scorso dicembre.

Ma è una consapevolezza di breve respiro, che non viene inquadrata in un contesto più ampio ed è rapidamente riassorbita dalla normalità. Normalità che è ben riassunta nell’infografica riportata qui sotto, realizzata a partire dagli Open Data del Comune di Roma, con tecniche analoghe a quelle utilizzate nell’analisi dei dati ECC.

Pedoni2014-2018

La mappa illustra tutti gli investimenti di pedoni registrati dalla Polizia di Roma Capitale dal 2014 al 2018 (compresi), ed è sufficiente un colpo d’occhio per rendersi conto che in questa città non ci sono luoghi sicuri. Alcune strade presentano un’incidentalità inferiore ad altre ma ciò è dovuto o ad una scarsa frequentazione pedonale, o ad una ridotta necessità di attraversare la strada, ad esempio perché non sono presenti ‘attrattori’ su nessuno dei due lati.

Nel solo 2018, nell’area compresa all’interno del GRA, sono stati registrati oltre tremila investimenti di pedoni, ad una media giornaliera di oltre otto ‘incidenti’. In una città dove si investono otto persone al giorno, l’esito mortale è inevitabile. Nel 2018 sono stati 59 i pedoni uccisi sulle strade di Roma, quasi un decimo di quelli uccisi in tutta Italia. Circa il doppio della media nazionale, se rapportati al numero di abitanti.

Ecco, questa è la ‘gobba’, questo è il disastro. Ma la maggior parte delle persone non è in grado di vederlo, così come Igor non vede la propria deformità. Per i più, il quadro descritto è semplicemente la normalità. Sul motivo di questa mancata percezione mi sono fatto un’idea abbastanza precisa: la normalità è quello che viene comunicato come ‘normale’.

Quotidianamente apriamo i giornali, o internet, o accendiamo la televisione, e ci viene raccontato un mondo di fantasia dove tutti circolano in automobile, dove le automobili sono gli oggetti più desiderati da tutti, la chiave per accedere a tutto quello che possiamo desiderare, dai luoghi di vacanza allo status sociale.

Questa ‘normalità’ fittizia, continuamente, incessantemente, insistentemente ribadita, ottiene l’effetto di rimuovere dalla psiche collettiva il dolore, la tragedia, il dramma di vite distrutte e perdute, come pure l’esigenza di porre un argine a questo disastro.

E per chi si domandasse se il problema è di chi cerca di sollevare la questione, se stiamo ‘comunicando male’, la risposta è no, non stiamo comunicando male. Stiamo, al limite, comunicando poco, perché poche sono le risorse che abbiamo a disposizione.

Chi sta ‘comunicando male’ sono, semmai, quelli che le risorse le hanno, e le investono in una narrazione falsa ed opportunista. Quelli che nascondono i drammi causati dal trasporto privato dietro una cortina di fumo fatta di immagini edulcorate, suggestioni seducenti e verità rimosse. E che, così facendo, si riempono le tasche di denaro sporco di sangue innocente.

Dobbiamo riuscire a mettere in discussione la normalità. Perché non è una realtà privilegiata, ma semplicemente quella che ci hanno costretto a subire.
E che paghiamo in prima persona, con le nostre tasche e le nostre vite.

La questione ambientale (quarta parte)

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

A peggiorare il bilancio dell’assalto plurimillenario condotto dalla nostra specie nei confronti delle risorse globali, l’inquinamento ha aggiunto ulteriore fattore di stress agli ecosistemi naturali.

Col termine inquinamento si intende l’introduzione di materiali ‘alieni’ alle dinamiche biologiche, ed in grado di interferire coi processi di riuso della materia organica. Tutto quello che la specie umana estrae dal suolo, raffina, trasforma, utilizza ed infine scarta rappresenta una forma di inquinamento. Inizierò quindi col descrivere una modalità di inquinamento che non viene ancora individuata come tale: l’edilizia.

I primi rifugi inventati dalla nostra specie furono, con molta probabilità, capanne di legno e foglie, composte interamente da materiali organici, decomponibili e biologicamente riciclabili. Col tempo ed il padroneggiare tecniche di manipolazione più evolute, la costruzione di edifici in pietra rappresentò un primo esempio di intervento umano operato in totale difformità dai processi biologici.

I materiali inerti necessari all’edilizia vengono estratti dalle cave di pietra e collocati dove poi sorgono paesi e città, luoghi di norma caratterizzati da abbondante disponibilità di suolo fertile. La costruzione di edifici e la successiva espansione delle città ha l’effetto di ridurre la disponibilità di suolo fertile.

Con la crescita delle città e la nascita di regni ed imperi, l’occupazione di suolo prodotta dalle città aumenta progressivamente, mentre la produzione alimentare si trasferisce sempre più verso le periferie, processo che innesca la creazione di strade ed il consumo di ulteriore suolo fertile.

Il gigantismo delle attuali metropoli, e le trasformazioni avvenute nella produzione e nei trasporti grazie alla Rivoluzione Industriale, hanno di fatto totalmente scollegato le aree urbane dalla necessità di un’autonomia alimentare ‘di prossimità’, creando condizioni di estrema criticità. Qualunque riduzione nell’efficienza della produzione agricola, o di quella della rete di trasporti, si tradurrebbe in un’incapacità delle popolazioni inurbate di far fronte al proprio stesso sostentamento.

In epoche passate, un limite alla crescita delle dimensioni urbane è consistito nella disponibilità di cibo in relativa prossimità. Con la Rivoluzione Industriale questo limite è stato rimosso, consentendo alle città di espandersi seppellendo le aree agricole di prossimità. Questo processo non è più reversibile nel breve periodo, perché i terreni scavati e cementificati non recuperano la propria fertilità a fronte del semplice abbattimento degli edifici.

I materiali edili presentano quantomeno il vantaggio di essere inerti rispetto ai processi organici. Lo stesso non si può dire di gran parte delle sostanze che sono diventate parte della nostra vita di tutti i giorni. Dalla rivoluzione industriale in poi la chimica ha infatti provveduto a sviluppare una varietà pressoché infinita di sostanze tossiche e nocive, in grado di interferire a vari livelli coi processi biologici.

Queste sostanze sono successivamente entrate a far parte dei manufatti, o divenute parte integrante dei relativi processi produttivi, e molto poco si è fatto per gestirne uno smaltimento sicuro al termine del ciclo d’utilizzo. Parliamo di un ventaglio di sostanze che va dai veleni veri e propri agli acidi, a materiali variamente irritanti, tossici o cancerogeni. Tutta roba che per decenni è stata rilasciata nei fiumi, seppellita, conferita nelle discariche o bruciata e dispersa nell’atmosfera.

Anche materiali biologicamente inerti come la plastica presentano un risvolto negativo, perché la loro diffusione e successivo degrado sta creando problemi agli animali che tentano di nutrirsene, causandone spesso la morte. Soprattutto negli oceani la quantità di frammenti di plastica trasportata da fiumi e correnti sta rappresentando un problema significativo per la fauna marina.

Questo senza contare che il processo di frammentazione, al momento ancora parziale (si parla infatti di ‘microplastiche’), procederà gradualmente fino al livello molecolare, saturando l’ambiente di quantità enormi di catene di polimeri di origine non biologica, con effetti, allo stato attuale, totalmente non quantificabili.

Un’altra parte rilevante di inquinamento deriva dall’impiego di diserbanti ed antiparassitari nell’agricoltura, che cresce di anno in anno. Si tratta di composti chimici dichiaratamente ostili ai processi biologici (la loro funzione è uccidere le varietà vegetali che competono con le specie coltivate e gli insetti che di queste ultime si nutrono), che finiscono con l’accumularsi nella catena alimentare portando morte anche alle specie (rettili, uccelli e mammiferi) che di tali insetti si nutrono.

Oltre agli antiparassitari l’agricoltura fa anche un largo uso di fertilizzanti azotati, che hanno un effetto positivo a breve termine sulle colture, ma nel lungo termine alterano gli equilibri chimici dei suoli rendendoli meno ospitali per le popolazioni di insetti ed altre forme di vita che li abitano. Quel che è peggio: ancora non è chiaro quali siano gli effetti cumulativi relativi al dilavamento di tutte queste sostanze venefiche, al loro assorbimento nei suoli ed alla loro diffusione nei fiumi e nei mari.

Un forte segnale di allarme giunge proprio riguardo alle quantità e varietà di insetti rilevate in prossimità delle aree agricole europee, che hanno subito un collasso repentino negli ultimi anni in diversi paesi. Per la loro importanza nella produzione del miele l’attenzione è attualmente capitalizzata dalle api, specie di cui si sono registrati diversi casi di collasso di interi alveari, fino alla totale scomparsa in diversi paesi, al punto che in alcune zone della Cina gli agricoltori devono impollinare gli alberi da frutta a mano.

Un caso a sé è rappresentato dai sottoprodotti dell’industria nucleare civile e militare. L’evoluzione delle tecnologie atomiche ha generato, mediante un processo detto ‘arricchimento’, tonnellate di materiali radioattivi in forme estremamente concentrate. Materiali che, essendo instabili, non sono mai venuti a contatto con le forme viventi. infatti, pur essendo presenti nella fase di formazione del sistema solare, essi erano già scomparsi, dalla crosta terrestre, ben prima che i processi vitali avessero inizio.

Parliamo di sostanze in grado di rendere pericolose ed inabitabili ampie porzioni di pianeta, come abbiamo visto in occasione degli incidenti di Chernobyl in Ucraina e Fukushima in Giappone. Su scala più ridotta il riutilizzo di uranio impoverito nella fabbricazione di proiettili ha già causato decine di casi di leucemia, anche mortali, fra gli stessi militari utilizzatori di tali munizioni. Molto poco è poi dato sapere sulle condizioni delle migliaia e migliaia di testate nucleari tattiche, il cui semplice potenziale esplosivo, già ai tempi della Guerra Fredda, era dato come in grado di annientare completamente l’intera umanità più volte.

L’ultima e più subdola forma di inquinamento riguarda i gas rilasciati in atmosfera a seguito dell’utilizzo massivo di combustibili fossili per i trasporti, le macchine utensili e la produzione di energia elettrica. Questi gas stanno lentamente ma inesorabilmente alterando l’equilibrio millenario tra il riscaldamento prodotto dalla radiazione solare di giorno, ed il raffreddamento causato dall’irraggiamento notturno, con l’effetto di surriscaldare l’atmosfera ad un ritmo mai visto prima (essendo, per l’appunto, un fenomeno artificiale) ed innescando ulteriori eventi caratterizzati da feedback positivo, ovvero in grado di accelerare il riscaldamento: scioglimento delle calotte polari, con ulteriore riduzione dell’albedo, e rilascio di gas metano dal permafrost artico.

Stiamo già misurando, in questi anni, una variazione delle temperature globali talmente repentina da non lasciare, a molte specie viventi, il tempo di adattarsi, e causando, assieme a fattori concomitanti, un collasso a catena di interi ecosistemi, dalle barriere coralline del pacifico alle popolazioni di orsi bianchi non più in grado di cacciare le foche artiche per la scomparsa dei ghiacci.

Riassumendo: caccia alle specie animali edibili, allevamento e sostituzione della naturale biodiversità con specie ‘simbionti’ (quelle di cui ci nutriamo), distruzione delle foreste per far spazio a coltivazioni, distruzione della residua biodiversità con fertilizzanti, erbicidi ed antiparassitari, consumo di suolo fertile causato dall’edilizia, dalla costruzione di strade ed infrastrutture, oltreché dall’erosione chimica e meccanica prodotta dai macchinari agricoli, rilascio di sostanze velenose e tossiche nell’ambiente, inquinamento da materie plastiche, riscaldamento globale del clima.

Come ultimo risultato, conseguenza di tutto questo gran daffare, la popolazione umana è cresciuta esponenzialmente fin quasi a raggiungere gli otto miliardi di individui, con una impennata negli ultimi decenni che ha prodotto una progressiva invasione antropica dei residui habitat intatti: le foreste vergini dell’Amazzonia e della Polinesia. Un surplus di popolazione umana la cui sussistenza può essere garantita solo attraverso l’inasprimento delle forme di saccheggio ambientale descritte fin qui.

Parafrasando Nietzsche: siamo da un paio di secoli sull’orlo dell’abisso, e l’abisso ci sta chiamando a gran voce. È possibile fare qualcosa per evitare l’estinzione della quasi totalità delle forme di vita complesse del pianeta, e con esse della nostra specie? Proverò a ragionarci su nel prossimo post.

(continua)

Perché la città non si trasforma

Prendendo spunto dal precedente post, proverò ora ad analizzare lo scenario di un possibile processo di trasformazione urbana. Nel farlo sarò obbligato ad una digressione talmente lunga da rappresentare un argomento a se stante.

Di base, l’unico modo efficace di approcciare la soluzione di un problema sta nella definizione esatta del problema stesso. Non mi stancherò mai di citare la scrittrice anarchica Ursula Le Guin e “l’assoluta inutilità di ottenere risposte giuste alle domande sbagliate”. Tutto quello che possiamo ottenere formulando male la domanda è di allontanarci ulteriormente dalla soluzione del problema.

Ma ancor prima della questione su come porre rimedio al “problema del traffico, dell’incidentalità, dell’inquinamento, degli ingorghi” ve ne è un’altra ancora più a monte, e riguarda i meccanismi che hanno condotto al problema in essere, ovvero al perché esista un problema. Prenderò quindi le mosse da un vecchio post dove la questione veniva sollevata (ma non definita con sufficiente chiarezza).

Per comprendere meglio la situazione attuale bisogna fare un passo indietro ed ampliare lo scenario osservato fino a rimettere in discussione le fondamenta stesse dell’organizzazione democratica. Ripartire da zero.

Lo “zero”, in questo caso, consiste nell’idea che la nostra società civile sia fatta per funzionare. Se così fosse, se i decisori venissero scelti in base al merito ed alle capacità, se i regolamenti avessero davvero l’obiettivo di far funzionare le cose, se la macchina amministrativa lavorasse con efficienza, non ci sarebbe nulla da discutere: vivremmo in una realtà diversa.

Quindi è il fatto stesso che esista il problema, o meglio, che esista una enorme varietà di problemi non risolti, a darci l’indicazione che questo modello ideale non rappresenti la realtà dei fatti e ad indurci a delinearne un altro più congruo con quanto osserviamo.

Se la nostra realtà consiste nell’essere sommersi di problemi, nel vivere in una perenne emergenza, l’unica risposta possibile è che i “problemi” siano in realtà strutturali all’organizzazione sociale, non un sottoprodotto casuale. Dobbiamo ipotizzare che la funzione della macchina organizzativo-amministrativa sia effettivamente produrre problemi, non risolverli.

È una sorta di rivoluzione copernicana per quanto riguarda l’idea che abbiamo dell’organizzazione sociale, ma nonostante ciò ci è fatto obbligo di verificare se questa ipotesi possa dar vita ad un modello plausibile, in grado di spiegare la situazione in essere con accuratezza e fedeltà.

La ‘narrazione corrente’ ci racconta che l’impianto politico-amministrativo ha la funzione di ‘tutelare gli interessi dei cittadini’ provvedendo alla risoluzione dei problemi. Se, come avviene, i problemi non vengono risolti ma al contrario amplificati, possiamo solo dedurne che la macchina statale non abbia realmente la funzione di tutelare gli interessi dei cittadini. Il punto di osservazione si sposta quindi su quali interessi vengano tutelati.

I latini utilizzavano la formula “cui prodest” per indicare come la soluzione ad un enigma potesse essere ricercata nell’individuazione dei soggetti che da una determinata situazione traggono vantaggi, quindi una linea di indagine molto semplice può essere indagare la molteplicità di soggetti che traggono vantaggi dal caos attuale.

(è curioso notare come nel mondo anglofono sia di uso frequente la frase “follow the money”, mentre nell’italiano corrente non esiste più una formula di uso comune che esplori il concetto, come se l’idea stessa di individuare il responsabile di una situazione sulla base degli interessi economici fosse progressivamente sparita dal nostro orizzonte culturale)

Riformulato in questi termini lo scenario acquisisce una sua plausibilità: la classe politico-amministrativa contribuisce a far proliferare, quando non direttamente a creare, i problemi, in modo che soggetti privati possano guadagnarci su e ‘ricambiare’ in termini economici, o con il finanziamento dei partiti e delle campagne elettorali. Quello che nel post precedente veniva definito: “un legame inestricabile tra poteri economici, mondo della politica e controllo mediatico dell’opinione pubblica”.

La stampa è infatti un pezzo importante del meccanismo, necessario a produrre una narrazione alterata delle vicende: la cosiddetta propaganda. Non è un caso che a Roma i principali quotidiani siano di diretta proprietà dei ‘signori del mattone’ (Tempo e Messaggero) o legati a doppio filo al PD (Repubblica) che nelle sue diverse incarnazioni ha governato la città e la regione per la maggior parte degli ultimi decenni.

Concludendo il primo punto, ed anche il più sconsolante, è che i ‘problemi’ ci sono per restare, non per essere risolti. Diversamente da come crediamo, classe politica e realtà amministrative non hanno interesse a risolvere alcunché, ma solo a farci credere che stiano lì per farlo. Chi è parte del problema non può esser parte della soluzione.

Nel prossimo post proverò a delineare una carrellata degli interventi di sistemazione urbana  più efficaci ed urgenti, come verrebbero intrapresi se effettivamente avessimo una cultura politico-amministrativa realmente interessata alla soluzione dei problemi.

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