Sapere dogmatico vs sapere esperienziale

Mi prendo una pausa dal lavoro di analisi sui meccanismi di emersione delle ideologie [1] per un approfondimento sull’incomunicabilità. In passato mi sono concentrato sull’assenza di un sapere condiviso [2], sulla base del quale costruire ragionamenti e conclusioni. Recentemente ho individuato un problema ulteriore, legato non solo al sapere, ma ai processi di costruzione del sapere stesso. Nel modello che sto mettendo a fuoco individuo due diversi processi di costruzione del sapere, definiti, rispettivamente, ‘esperienziale’ e ‘dogmatico’.

Il ‘sapere esperienziale’ si costruisce dal basso, accumulando fatti ed evidenze ed andando a definire un’architettura interpretativa della realtà basata sulla messa in relazione di singole evidenze. Questo è il processo più lungo e faticoso, perché le evidenze vanno soggette ad interpretazione, interpretazioni erronee danno luogo alla costruzione di architetture interpretative disfunzionali ed il tutto piò risolversi in un enorme caos.

Una ulteriore complicazione discende dai già descritti ‘bias culturali’, che fungono da collante sociale e modellano i nostri processi interpretativi. Quando un’evidenza entra in conflitto con un bias culturale consolidato, risulta più semplice mettere in discussione la singola evidenza rispetto al rimettere in discussione il bias culturale consolidato nella nostra architettura interpretativa.

Il ‘sapere dogmatico’ affronta la questione in maniera diametralmente opposta, individuando una fonte di sapere ed acquisendone in blocco la chiave interpretativa della realtà. Il processo risulta molto più semplice e diretto, consentendo di padroneggiare tematiche complesse senza il necessario sforzo di costruzione del percorso logico soggiacente.

Questo processo richiede un investimento minore in termini di intelligenza e consumo delle facoltà cognitive, risultando a molti più accessibile del precedente. Il problema del ‘sapere dogmatico’ è che dipende in toto dall’autorevolezza delle fonti, non avendo richiesto lo sviluppo degli strumenti analitici capaci di metterle in discussione. Analoga considerazione vale per l’onestà intellettuale delle fonti stesse, o per il loro essere strettamente legate ad una diversa cultura ed ai relativi bias culturali.

Il sapere dogmatico risulta una scorciatoia, adottabile da un’ampia fetta della popolazione umana, per accedere alla comprensione di problematiche complesse ed alle chiavi interpretative connesse. Ma è un sapere che accetta di essere messo in discussione solo attraverso l’individuazione di una fonte ‘più autorevole’, in assenza della quale si fossilizza e cessa di evolvere.

Il punto che ho messo a fuoco solo recentemente è che queste due diverse forme di sapere non sono in grado di dialogare, perché parlano due linguaggi cognitivi diversi. Posti di fronte all’interpretazione di una stessa situazione, sapere esperienziale e sapere dogmatico attivano strategie e risorse diverse.

Il sapere esperienziale scompone l’evento in una serie di singoli elementi logici, intorno ai quali costruisce una chiave interpretativa. Il sapere dogmatico individua anch’esso una serie di elementi logici, ma lavora ad inserirli in un contesto interpretativo familiare e consolidato, ereditato dalla ‘fonte autorevole’. Se i due modelli, per qualche ragione, non combaciano, non c’è modo di limare le diversità, e le discussioni si avvitano senza via d’uscita.

Il ‘sapiente esperienziale’ proverà a dimostrare l’efficacia del proprio modello interpretativo utilizzando strumenti cognitivi di cui il ‘sapiente dogmatico’ non dispone, dato che non ha alcuna esperienza nella costruzione di modelli interpretativi: di tutte le spiegazioni fornite non saprà letteralmente che farsene. Anche escludendo la disonestà intellettuale, siamo in una situazione in cui si attivano processi cognitivi diametralmente opposti.

Dal canto suo il ‘sapiente dogmatico’ proverà ad illustrare le proprie chiavi interpretative prefissate, mancando di validarle alla luce dei nuovi fatti, semplicemente perché il meccanismo di acquisizione del proprio sapere non contempla una fase di discussione e validazione diversa da ‘questa fonte è più autorevole di quest’altra’. Per contro, tratterà l’intero modello interpretativo proposto dal proprio interlocutore come proveniente da ‘fonte scarsamente attendibile’.

Quest’analisi delinea un nuovo scenario di incomunicabilità. Mentre il precedente muoveva da considerazioni molto più basiche sulla quantità di sapere disponibile ai due contendenti, l’attuale sposta il focus sul problema della costruzione di tale sapere. O, se vogliamo, della capacità di distinguere tra sapere e ‘non sapere’, tra effettiva comprensione del reale e metabolizzazione di bias culturali.

In compenso l’analisi consente di inquadrare un problema legato alla crescita esponenziale del sapere verificatasi nei secoli recenti. Di fatto risulta molto problematico accedere ai campi più specialistici attraverso un approccio ‘esperienziale’. Se già la mole di nozioni da acquisire è enorme, la mole di fatti ed interpretazioni soggiacenti quelle nozioni risulta enormemente più vasta.

In questo processo di scalata ai vertici delle competenze risultano avvantaggiati gli individui più inclini ad abbracciare un ‘sapere dogmatico’, rispetto a quanti organizzano la propria interpretazione della realtà basandosi sul ‘sapere esperienziale’. Questo potrebbe dar conto, per estensione, della tendenza delle culture umane alla fossilizzazione del sapere.

Per ora mi fermo qui, ma non escludo di tornare sull’argomento.


[1] Dai bias cognitivi ai bias culturali: l’origine delle ideologie

[2] Sull’incomunicabilità

Dai bias cognitivi ai bias culturali: disassemblare le ideologie

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(prosegue da qui)

Per illustrare come le ideologie possono essere smontate ed esaminate occorrerà partire dalla sintesi operata alla fine del capitolo precedente:


…perché una narrazione collettiva (costrutto culturale, ideologia o come vogliamo definirla) si affermi, essa deve soddisfare una serie di esigenze umane primarie:

  • bisogni materiali (nutrimento, rifugio dalle intemperie, benessere materiale)
  • bisogni emozionali (senso di sicurezza, appartenenza, relazione)
  • bisogni irrazionali (sollievo dall’incertezza del futuro e dalla paura della morte)

Su questi tre pilastri poggia pressoché ogni forma di governo, o cultura complessa, apparsa sul pianeta. L’organizzazione dei bisogni materiali è necessaria per garantire il benessere degli individui ed il successo della cultura, l’organizzazione dei bisogni emozionali è quello che fa da collante tra le moltitudini di sconosciuti che fanno parte della collettività, l’organizzazione dei bisogni irrazionali (generati dai bias cognitivi, come spiegato nel precedente post) gestisce il benessere psichico della popolazione.

Dall’equilibrio tra queste tre componenti deriva il successo della cultura stessa. Per meglio comprendere questo punto possiamo osservare i processi in atto nella transizione dal paganesimo al cristianesimo nell’impero romano, avvenuta nei primi secoli dopo Cristo. La cultura romana imperiale aveva il proprio punto di forza nell’organizzazione dei bisogni materiali, il senso di sicurezza veniva soddisfatto, per una parte della popolazione, dalla potenza militare e dall’appartenenza alla casta privilegiata dei cittadini romani. Per contro i lavori pesanti venivano effettuata da schiavi che non godevano di alcun diritto.

Sul piano dei bisogni irrazionali la teologia pagana risultava parimenti ipertrofica e lacunosa, il numero e la varietà di divinità enorme e caotico, le aspettative post-mortem non particolarmente entusiasmanti: l’aldilà dei romani era un luogo tetro, in cui rimpiangere per l’eternità le gioie della vita. L’emergere di tale cultura in popolazioni guerriere ne dirige la collocazione più in prossimità delle categorie comportamentali legate alla competizione [1].

L’ideologia cristiana, per contro, emerge in una regione arida ed avara di risorse, la Palestina, come evoluzione della religione monoteista ebraica, in un’epoca in cui il suddetto territorio è occupato militarmente e governato dalle legioni romane. Per reazione a ciò, il baricentro di questa ideologia/teologia risulta spostato molto più in prossimità delle categorie comportamentali legate alla cooperazione.

Sul piano dei bisogni materiali il cristianesimo eredita, dalla religione ebraica, la fede in una singola divinità. Lega i bisogni emotivi a poche semplici regole di vita: uguaglianza tra gli uomini e fratellanza universale, e promette un aldilà di gioia e pienezza a compensare una vita di fatica e sofferenze. Tale prospettiva di vita viene facilmente accolta dalle fasce povere della popolazione, che in essa vedono meglio rappresentati i propri bisogni esistenziali.

L’ideologia cristiana di una fratellanza universale entra perciò in diretta contrapposizione con la politica economica imperiale, basata sull’occupazione manu-militari e sull’asservimento e riduzione in schiavitù di intere popolazioni. L’uguaglianza tra gli uomini non consente la riduzione in schiavitù, che è alla base della politica economica imperiale: per questo motivo il cristianesimo viene inizialmente perseguitato.

Tuttavia l’efficienza della macchina imperiale nel provvedere ai bisogni materiali, basata sul saccheggio e sullo sfruttamento delle popolazioni asservite, è un meccanismo che perde efficacia man mano che i confini imperiali si allargano verso l’esterno. Più l’impero si espande, meno ricchezza riesce a generare. Più la popolazione si impoverisce, più la teologia cristiana, egalitaria e solidale, tende a soppiantare la teologia pagana.

Nell’arco di pochi secoli l’impero romano d’occidente collassa definitivamente, ed una popolazione europea vasta ed impoverita finisce col convertirsi in massa al cristianesimo, in un processo che segna il passaggio dall’Età Antica al Medioevo. Un percorso inverso appare quello che conduce dal Medioevo all’Età Moderna, segnato da due eventi concomitanti: l’avvio di una nuova fase di conquista e saccheggio iniziata con la scoperta del continente americano e lo sviluppo di un costrutto culturale radicalmente diverso dall’impostazione fideistica, il Metodo Scientifico [2], dalle cui scoperte deriverà la Rivoluzione Industriale [3].

La nuova era coloniale è caratterizzata da produzione (saccheggio) di beni e da un aumentato soddisfacimento dei bisogni materiali (ottenuti a spese di popolazioni meno tecnologicamente avanzate, che vengono espropriate delle proprie terre e possedimenti e ridotte in schiavitù). Le esigenze mercantili entrano in conflitto con il retaggio culturale cristiano, la cui filosofia di vita tende ad opporsi allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Come già ragionato in un precedente post sul Medioevo [4], gli ideali di fratellanza universale vengono più facilmente accolti ed adottati da popolazioni in condizioni di generale scarsità, mentre la disponibilità di ricchezze va a braccetto con le pulsioni più egoistiche dell’animo umano. La nuova era mercantile e la rinascita degli imperi coloniali segna un progressivo distacco delle popolazioni europee dagli ideali di solidarietà propugnati dalla filosofia cristiana.

L’avvento del Metodo Scientifico introduce una scissione filosofica chiave nel percorso verso la contemporaneità. Fino a tutto il Medioevo, la dottrina religiosa cristiana era stata in grado di sostenere un sistema sociale perfettamente funzionale e coerente, dall’umile contadino su su fino ai regnanti. Tuttavia, l’invenzione di una descrizione dell’esistente alternativa alla creazione divina, oltreché significativamente più efficace nel prevedere i comportamenti della realtà fisica e nel produrre benessere, priva il predominio culturale religioso di una delle sue basi d’appoggio: la capacità di massimizzare il soddisfacimento dei ‘bisogni materiali’.

La dottrina cristiana si ritrova quindi in una condizione di ‘incompletezza’ nel momento in cui il focus dei ‘bisogni materiali’ gli viene sottratto da un diverso costrutto culturale. Un costrutto culturale, per di più, che mette in discussione l’attendibilità dei Testi Sacri su cui la fede cristiana si fonda e da cui quest’ultima trae fondamento ed attendibilità. Una parte della popolazione, soprattutto fra gli intellettuali, comincia a ritenere che se Dio non è necessario per far funzionare la realtà, forse se ne può semplicemente fare a meno.

Tuttavia lo stesso Metodo Scientifico non risulta in grado di dar vita ad un’ideologia compiuta. Un approccio cognitivo totalmente razionale non può in alcun modo soddisfare i ‘bisogni irrazionali’, che sono parte integrante dei processi psicologici umani. Una prima reazione dei razionalisti all’incompletezza del proprio metodo filosofico consisté quindi nel negare i bisogni irrazionali e nel bollare tutto ciò che li riguardava come ‘oscurantismo’.

Va anche detto che questa dicotomia razionalità/irrazionalità riflette il ventaglio comportamentale della nostra specie, che contrappone individui dominati dalla razionalità ad altri dominati dalle pulsioni irrazionali, e nessuno dei due approcci risulta avvantaggiato dal processo di selezione naturale, o dalla struttura sociale, al punto da poter prevalere e condannare l’altro alla marginalità.

Il Metodo Scientifico difetta inoltre di una componente essenziale delle ideologie: la capacità di indirizzo. Gli uomini di scienza sono dediti alla comprensione del mondo, alla sua descrizione, ma da tale descrizione non è possibile derivare alcun indirizzo riguardo l’agire umano. Siamo una specie come tante altre, su un pianeta dove le singole specie emergono, si sviluppano lungo un arco temporale, quindi si estinguono. Quel che la scienza descrive è un Cosmo in cui non vi è scopo alcuno nell’esistere, né a livello di individui, né di singole specie. Una conclusione priva di utilità pratica.

Senza uno scopo da perseguire, fosse anche la semplice sopravvivenza, non è possibile definire le categorie del ‘bene’ e del ‘male’, che guidano gli individui nelle scelte della vita, e non è possibile definire un’etica. In assoluto su queste basi risulta difficile perfino costruire una società, perché i singoli individui non si sentiranno moralmente obbligati a seguire alcuna modalità d’azione prestabilita, alcuna regola, alcuna legge.

Lo sviluppo del Metodo Scientifico getta tuttavia le basi per l’emergere di una nuova ideologia, non marcatamente autoconsapevole, che prende il nome di ‘scientismo’ [5]. Lo scientismo genera per deduzione i puntelli filosofici necessari a soddisfare i bisogni emozionali e quelli irrazionali. Il primo e più importante è l’invenzione dell’idea di ‘progresso’, ovvero l’idealizzazione di un procedere dell’evoluzione, prima animale, quindi umana, in direzione del controllo e dominio della realtà.

L’esistenza di un fenomeno definibile come ‘progresso’ può essere desunta dalle diverse tappe dell’evoluzione umana: il controllo del fuoco, l’agricoltura, lo sviluppo di attrezzi sempre più sofisticati, la scrittura, le macchine. Tutte queste invenzioni hanno sollevato l’umanità da fatica e sofferenze, ed è quindi relativamente semplice additarle come passi ‘nella giusta direzione’, al punto da rappresentare il primo comandamento divino dato all’umanità nella genesi biblica [6]:

«Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra»

Se analizziamo questo presupposto in un piano strettamente oggettivo, tutto ciò che avvantaggia la sopravvivenza e la diffusione di una specie ne svantaggia le altre. Non esistendo modo di definire una priorità tra le diverse specie al di fuori di una prospettiva antropocentrica, non è nemmeno possibile attribuire maggior valore al vantaggio di una specie sulle altre. Da una prospettiva strettamente razionale, le invenzioni umane rappresentano unicamente un turbamento degli equilibri naturali [7].

Ma le ideologie si rivolgono agli umani, cui è connaturato l’antropocentrismo [8]. Una volta acquisita l’idea (ripetiamo: irrazionale) dell’esistenza di un ‘progresso’, l’indirizzo che se ne deduce, relativo all’agire umano, è la necessità di contribuire, per quanto possibile, a tale processo. Se il Cosmo muove dal Caos all’Ordine [9], l’umanità è moralmente obbligata a contribuire a tale processo.

In questa fantasia pseudo-razionale, il fine ultimo del ‘progresso’ è il raggiungimento, da parte dell’ingegno umano, del pieno controllo sui fenomeni naturali e sulla realtà, culminando, in linea teorica, in un’umanità onnipotente che prenderà il posto delle precedenti divinità, acquisendo quelli che di fatto sono poteri divini. Un fondamento teorico totalmente irrazionale, ma apparentemente plausibile, che ottiene di tenere insieme i diversi pezzi del discorso e consente all’ideologia scientista, nell’arco di alcuni secoli, di soppiantare le antiche fedi e dogmi.

L’idea di ‘progresso’ presenta un ulteriore vantaggio: estende il senso di appartenenza (una parte cospicua dei ‘bisogni immateriali’) dall’ambito ristretto dei credenti in uno specifico culto all’ambito esteso dell’intera umanità… o perlomeno a quella parte di umanità in cui scegliamo di riconoscerci. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si affermano infatti correnti di sedicente ‘razzismo scientifico’ [10], basate sull’idea che nella ‘corsa al progresso’ biologica le popolazioni europee risultano ‘più avanti’ delle altre.

Questo salto concettuale, totalmente arbitrario, legittima i colonizzatori bianchi ad approfittare, come forza lavoro, delle popolazioni di ‘selvaggi’ largamente disponibili nei continenti meno sviluppati, resuscitando la pratica della messa in schiavitù che era scomparsa nel Medioevo. Allo stesso modo alimenta un ‘suprematismo bianco’ capace di agire un sistematico sterminio delle popolazioni native del continente nord-americano.

Un processo, raffinato in luoghi lontani, che approderà infine nella ‘civile Europa’, in pieno ventesimo secolo, grazie all’avvento del Fascismo in Italia e del Nazismo in Germania, avviando la ‘pulizia etnica’ di ebrei, zingari, omosessuali e disabili psichici. Un’ideologia aberrante, che sconvolgerà il mondo intero col disumano e meccanico genocidio prodotto nei campi di sterminio.

Lo sviluppo del Metodo Scientifico si è tradotto, involontariamente, nello scoperchiamento di un ‘Vaso di Pandora’ [11] sociale, che ha consentito il riemergere di modalità relazionali arcaiche e radicalmente antiumane, faticosamente tenute a bada, nei secoli precedenti, dal pensiero religioso. Convinzioni totalmente arbitrarie, come il già citato ‘pregiudizio antropocentrico’, risultano altresì fortemente sedimentate nell’immaginario collettivo, essendo peraltro condivise dal mondo religioso, e non sono minimamente scalfite dalle evidenze prodotte dall’evoluzionismo darwiniano e dalle moderne scienze genetiche ed ambientali.

Si è invece fatta progressivamente senso comune una visione degli individui e delle relazioni umane strettamente focalizzata sui consumi di beni materiali, disponibili ora in quantità mai sognate prima nel corso della storia umana, che ha finito col dar corpo ad una ‘ideologia dei consumi’ totalmente indifferente, se non favorevole, allo sfruttamento di fragilità e dipendenze dei singoli individui. È anche questo un discorso da me già affrontato, in un post molto sofferto [12]. Una ulteriore disamina potrebbe essere oggetto di futuri approfondimenti.


[1] Cooperazione e competizione

[2] Metodo Scientifico

[3] Rivoluzione Industriale

[4] Medioevo

[5] Scientismo

[6] Genesi

[7] La questione ambientale (settima parte)

[8] Il Pregiudizio Antropocentrico

[9] L’idea di Ordine e la progressiva distruzione del Mondo

[10] Razzismo scientifico

[11] Vaso di Pandora

[12] Il Cielo sopra il Mondo

Dai bias cognitivi ai bias culturali: l’origine delle ideologie

Il tema dell’origine delle ideologie è già stato trattato in passato su questo blog [1]. Sento ora la necessità di scavare ulteriormente nei dettagli dei meccanismi che guidano l’emergere di costrutti culturali ed architetture ideologiche. Utilizzerò a questo fine il modello di sviluppo dei ‘comportamenti emergenti’, ovvero, come definito da Wikipedia: il processo di formazione di schemi complessi a partire da regole più semplici [2].

In principio, dall’esigenza di sopravvivenza dei nostri antenati è disceso (o emerso) lo sviluppo di un cervello complesso. Dallo sviluppo di un cervello complesso è discesa (o emersa) la necessità di ‘stampelle cognitive’ a quello che negli animali siamo soliti definire ’istinto di sopravvivenza’. Modalità di conforto psichico in grado di aiutare un cervello complesso a contrastare l’idea di una sostanziale insensatezza del Cosmo.

Definiamo come ‘istinto di sopravvivenza’ l’insieme dei comportamenti non razionali che avvantaggiano il singolo individuo nei processi di sopravvivenza e riproduzione, comportamenti che, per questo stesso motivo, ottengono di essere tramandati alle generazioni successive, diventando retaggio dell’intera specie. Non possiamo fare a meno di notare come l’emergere del pensiero razionale, pur utilissimo nella pratica quotidiana, finisca con l’entrare in conflitto, e minare, l’efficacia di tali comportamenti [3].

Nella nostra specie l’istinto di sopravvivenza evolve, parallelamente allo sviluppo della razionalità (e come suo contraltare) nella forma di bias cognitivi [4]: modalità erronee di interpretazione che hanno la funzione di consentire, al cervello umano, di maneggiare la complessità e la sostanziale insensatezza del mondo reale senza esserne schiacciato. I bias cognitivi ci forniscono la fiducia e l’ottimismo necessari per non demordere di fronte alle avversità ed ai problemi della vita, generano un senso di fiducia negli altri e nel futuro e ci aiutano a prendere decisioni arbitrarie quando non disponiamo di informazioni sufficienti.

L’esistenza dei bias cognitivi è la base per l’emergere di quelli che ho finito col definire ‘bias culturali’ [5]: errori interpretativi, codificati e socialmente condivisi, che rappresentano il fondamento dello sviluppo ed evoluzione delle ideologie, queste ultime definibili come ‘schemi di pensiero collettivamente condivisi’ che svolgono, a livello di gruppi e collettività, una funzione analoga a quello che la coscienza individuale svolge nel singolo individuo.

Perché il gruppo agisca come un sovra-organismo e possa diventare, in termini di sopravvivenza e riproduzione, fattivamente più efficace rispetto ad uno stile di vita solitario, è necessario che le azioni dei singoli individui siano coerenti e coordinate. Ciò può avvenire unicamente con l’instaurarsi di modalità relazionali condivise ed approvate dai singoli membri, ovvero attraverso l’elaborazione di quella che definiamo una ‘cultura’.

La cultura del gruppo deve necessariamente tener conto delle esigenze dei singoli individui, anche di quelle irrazionali, incorporandole nello schema condiviso. Ecco come i bias cognitivi prendono corpo, e si fissano, sotto la forma di ‘bias culturali’. Siccome i singoli individui hanno necessità di esorcizzare la paura dell’ignoto, la cultura del gruppo provvederà a rassicurarli, elaborando descrizioni (narrazioni) della realtà utili ad esorcizzare tale angoscia.

Nel caso di una tribù di cacciatori-raccoglitori, possiamo attenderci che i componenti soffrano la pressione psicologica dovuta all’incertezza delle condizioni climatiche ed al rischio di possibili attacchi da parte di grandi predatori. In tal caso, una cultura che leghi tali manifestazioni, ingestibili su un piano di realtà, ad un ambito immateriale in qualche modo maneggiabile, fornirà un sollievo psichico al gruppo e ne allevierà gli appartenenti dall’eccessiva consapevolezza della propria fragilità e finitezza.

Da questa esigenza nascono i pantheon di divinità pagane legate ai fenomeni naturali: entità invisibili che possono essere placate e rabbonite grazie a sacrifici animali (olocausti) ed all’intermediazione di una casta sacerdotale. Questo rappresenta l’esempio prototipale di come un bias cognitivo, la domanda irrazionale di rassicurazione nei confronti di una realtà percepita come opprimente, si traduca in un ‘bias culturale’, ovvero l’elaborazione di un ‘pensiero magico’ collettivamente condiviso ed il conseguente emergere di ruoli sociali ad esso specificamente correlati.

(attenzione: non è qui in discussione la materia religiosa; l’inclinazione ad accettare l’esistenza di realtà che esulano un’analisi di natura scientifica ci interessa dal momento che può essere descritta in termini di ‘bias cognitivo’, ma nulla si può affermare con certezza sull’esistenza o meno di tale realtà; di fatto, le “verità di fede” non possono essere né ‘dimostrate’, né ‘negate’, possono solo appartenere al sentire dei singoli individui)

Vediamo qui in atto l’inevitabile emergere di processi di maggiore complessità: dall’esigenza di sopravvivenza discende un cervello complesso, da un cervello complesso discendono problematiche nuove, che inducono lo sviluppo di relazioni sociali e la distribuzione di ruoli distinti per i singoli individui, che a loro volta conducono ad un ulteriore aumento di complessità ed alla formazione delle strutture sociali descritte nella prima parte della discussione su ‘Economia, domesticazione e dipendenze’ [6].

Da una diversa prospettiva, la strutturazione sociale può essere descritta come un’ulteriore articolazione della catena trofica umana [7]: attraverso l’efficientamento nell’acquisizione di cibo, e più avanti nella sua produzione, una porzione crescente della popolazione risulta svincolata dal provvedere direttamente alle proprie necessità, e finisce col dipendere dal lavoro altrui. In termini di domesticazione ciò significa che il lavoro eseguito dall’allevatore sulle specie animali da cui egli trae nutrimento, mostra delle affinità con l’operato degli strati sociali sovrastanti l’allevatore stesso, che dai suoi prodotti traggono sostentamento.

Vediamo altresì al lavoro l’ingegno umano, e non potrebbe essere diversamente: in un caso (l’allevatore) nel massimizzare la resa dei processi di allevamento animale e produzione di cibo, nell’altro (le classi dirigenti) nel massimizzare la quantità di ricchezza trasferita dai produttori diretti al livello successivo della scala sociale, quindi ad essi stessi. Essendo i due processi mentali del tutto analoghi, è evidente come non ci si possa legittimamente attendere venga messo in atto, nei confronti di altri umani coi quali non si intrattengano relazioni dirette, una modalità di sfruttamento radicalmente differente da quella riservata al bestiame di cui ci si nutrie.

Per quanto eticamente discutibile (ma, faccio notare, l’etica stessa altro non è che un costrutto culturale basato su assunti arbitrari, e pertanto indimostrabile) lo sfruttamento del lavoro altrui appare essere un tassello chiave nel processo di auto-domesticazione che coinvolge la nostra specie. Un comportamento ‘emergente’ che, come abbiamo visto, discende in linea diretta dall’evoluzione dei processi correlati allo sviluppo del potenziale cognitivo del cervello umano.

La differenza sostanziale, nei due meccanismi descritti, sta nel differenziale intellettivo tra domesticatore e domesticato. Nei processi di domesticazione animale la specie umana ha buon gioco, disponendo di capacità intellettive largamente superiori alle specie ridotte in cattività, nel realizzare recinti e gabbie dalle quali gli animali non sono in grado di scappare.

Nel processo di auto-domesticazione le intelligenze in campo sono identiche, e la partita si gioca interamente su un piano culturale. I recinti in questione diventano quindi ‘recinti culturali’, schemi di pensiero collettivamente condivisi che ottengono di racchiudere gli individui all’interno di ‘gabbie mentali’, nelle quali risultano intrappolati e costretti a limitarsi al ventaglio di comportamenti socialmente accettati. Ciò rappresenta un’ulteriore fonte di sofferenza psichica, che trova sfoghi attrverso modalità e rituali definiti dalla cultura stessa.

A parte questa differenza, ci troviamo di fronte ad una modalità classica di equilibrio predatore/preda, del tutto analoga a quelle descritte dal modello evolutivo darwiniano. O, per altri versi, a quell’ Homo homini lupus ben sintetizzato dall’autore latino Plauto [8]. Numerosità e benessere della popolazione dei ‘predatori’ discende dalla disponibilità di ‘prede’. Quando tuttavia si verifica un’interruzione della catena trofica (carestia) questa si ripercuote verso l’alto mettendo in discussione le modalità redistributive stabilite dalla cultura contingente, portando ad un riassestamento.

Un esempio fra tanti è quello della caduta dell’Impero Romano, dove la costosa macchina amministrativa e le imponenti opere infrastrutturali da essa richieste non sono state in grado di sopravvivere ad un sopravvenuto collasso dei flussi di ricchezza (cibo, metalli preziosi e schiavi) dovuto all’eccessiva espansione delle terre conquistate. Le organizzazioni sociali che ne sono emerse, nel Medioevo, si sono quindi riarrangiate sulla base di una disponibilità inferiore di risorse, che ha condotto ad una drastica riduzione dei ruoli sociali ‘improduttivi’.

In termini analoghi potrebbe essere letta la vicenda della rivoluzione francese, sulla quale, rispetto a quanto accaduto in passato, si è venuto ad innestare il portato della rivoluzione razionalista, che andava acquistando consensi da oltre un secolo sull’onda delle nuove scoperte e dell’elaborazione del pensiero scientifico. Essendo le modalità relazionali tra le diverse fasce di popolazione gestite unicamente per mezzo di una cultura condivisa, ecco come una rivoluzione culturale ha potuto arrivare a tradursi in una rivoluzione sociale.

Come ‘emerge’ una cultura? Partendo dall’evidenza che il cervello umano è capace di auto-ingannarsi, diventa possibile strutturare, fissare e rendere replicabili le modalità di reazione, in gruppi ed intere collettività, mediante l’elaborazione e la diffusione di specifici costrutti culturali. Tali costrutti possono essere descritti come strutture ideologiche auto-coerenti in cui, a partire da una serie di assunti, alcuni dei quali arbitrari, si derivano le conseguenti modalità comportamentali da mettere in atto.

Ciò che consente l’arbitrarietà degli assunti è proprio l’innata capacità del nostro cervello di eseguire atti di fede, qualora non siano disponibili le informazioni necessarie a prendere una decisione con cognizione di causa. I nostri antenati cacciatori-raccoglitori sono vissuti per millenni in balia del caso, della natura e degli elementi, e sono riusciti a sopravvivere e prosperare solo grazie a decisioni fondate su valutazioni di natura euristica [9].

Ogni società umana ha pertanto dovuto elaborare un proprio specifico modus-operandi legato alla sopravvivenza, ed ha prodotto una propria, unica, cultura sviluppando un sistema di idee capace di combinare elementi eterogenei in un costrutto efficace, composto, ove possibile, dalle evidenze oggettive note, e riempendo le inevitabili lacune con assunti indimostrabili. Ed è proprio l’esistenza dei bias cognitivi a fare da collante a queste architetture di idee, a consentirne l’adozione diffusa ed a garantire la funzionalità sociale di tali costrutti.

In estrema sintesi, perché una narrazione collettiva (costrutto culturale, ideologia o come la si voglia definire) si possa affermare, essa deve necessariamente soddisfare una serie di esigenze umane basilari:

  • bisogni materiali (nutrimento, rifugio dalle intemperie, benessere fisico)
  • bisogni emozionali (senso di sicurezza, appartenenza, relazione)
  • bisogni irrazionali (sollievo dall’incertezza del futuro e dalla paura della morte)

Nel prosieguo di questa analisi vedremo come alcune tra le principali manifestazioni culturali ed ideologie possano essere ricondotte al presente schema.

(continua)


[1] Sull’origine delle ideologie

[2] Comportamenti emergenti

[3] I bias cognitivi e l’abisso di Nietzsche

[4] Bias cognitivi

[5] Bias culturali – il Pregiudizio Antropocentrico

[6] Età antica

[7] Catena alimentare

[8] Homo homini lupus

[9] Euristica

I bias cognitivi e l’abisso di Nietzsche

Da diverso tempo, più o meno da quando ne ho scoperto l’esistenza, vado ragionando la questione dei bias cognitivi [1]. In estrema sintesi si tratta di meccanismi per mezzo dei quali il nostro cervello si auto-inganna, barattando l’evidenza fattuale con una interpretazione più digeribile, più accomodante, spesso edulcorata, della realtà.

I bias cognitivi emergono spontaneamente, nel corso dell’evoluzione umana, grazie ai processi evolutivi ben descritti da Charles Darwin [2]. Per il naturalista inglese, ogni tratto o comportamento in grado di facilitare la sopravvivenza di individui e gruppi finisce col fissarsi ed essere tramandato alla discendenza.

La nostra specie, il cui tratto saliente è lo sviluppo dell’intelligenza, deve fare i conti con i portati negativi di questa caratteristica. Da un lato, un cervello capace di processare una grande quantità di informazioni risulta vantaggioso, per chi lo possieda e per il gruppo di cui faccia parte, dall’altro, troppe informazioni conflittuali possono ‘intasare’ l’elaborazione dei comportamenti più appropriati, portando allo sviluppo di patologie psichiche, individuali e collettive.

La ‘soluzione’ che emerge dall’evoluzione umana è di incanalare i ragionamenti su binari precostituiti, in modo che sia più difficile deragliare. Binari precostituiti che ottengono di stabilizzare i processi cognitivi, indipendentemente dalla loro attendibilità.

Così la capacità di credere nell’esistenza di un mondo sovrannaturale ci salva dalla disperazione della morte [3], la capacità di credere nella fratellanza tra simili agisce da collante per le società umane, la capacità di credere che quello che realizziamo con le nostre mani sia migliore di un prodotto fatto in serie ci motiva a realizzazioni che altrimenti non vedrebbero mai la luce.

Tutte queste convinzioni infondate, assieme a molte altre [4], contribuiscono a rendere funzionali le comunità umane, a rendere più appagante la vita dei singoli individui, a ridurre le frizioni interpersonali e, in ultima istanza, a rendere l’esistenza più piacevole e godibile. Il problema è che sono infondate.

Quindi, ad un certo punto della storia dell’umanità, avviene la nascita di quello che chiamiamo ‘pensiero scientifico’, la cui funzione è di approfondire la conoscenza del mondo reale, liberandosi dalle credenze ereditate e dai possibili errori interpretativi. L’idea di fondo consiste nello sviluppo di una conoscenza della realtà che sia oggettiva e verificabile, non più filtrata da pregiudizi e convinzioni individuali.

Il pensiero scientifico ottiene successi incredibili in termini di controllo dei processi fisici, e di conseguenza dei processi produttivi, producendo di ricasco una propria stessa ideologia, quell’ideologia del progresso [5] di cui ho tanto spesso discusso su questo blog.

In questa chiave di lettura, la conoscenza (scienza) richiede il pagamento di un prezzo in termini umani: l’individuazione e disattivazione dei bias cognitivi che forzano il nostro cervello ad interpretazioni erronee della realtà. Quegli stessi bias cognitivi che si sono sviluppati, nel corso dell’evoluzione, per massimizzare il nostro benessere psichico.

La fiducia nel futuro si fonda sulla convinzione che gli altri condividano i nostri stessi desideri ed aspirazioni. Tale convinzione si regge sul cosiddetto ‘Bias di Proiezione’ [6]. Diventare consapevoli di ciò significa dover accettare che il mondo presente è il combinato delle volontà di miliardi di individui non necessariamente simili a noi, e che trasformarlo (in quello che per noi è ‘meglio’) può risultare impossibile.

Se l’esistente può risultare inaccettabile, la modalità di sopravvivenza psichica di alcuni individui può indirizzarsi nel tentativo di trasformarlo in meglio. Ma la presa di coscienza della difficoltà di ottenere ciò, a causa delle inconciliabili differenze di pensiero esistenti tra i singoli individui di una stessa collettività, lascia spazio unicamente alla frustrazione.

Scienziati, ricercatori, filosofi, nello spogliarsi delle difese psicologiche (ereditate dal corpus sociale) per sperimentare una realtà il più possibile oggettiva, finiscono col confrontarsi con evidenze che possono risultare insostenibili. Una realtà arbitraria, crudele e priva di senso, che rischia di privare di senso le nostre stesse esistenze, e di motivazioni il nostro agire.

Scrive Friedrich Nietzsche [7]: “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. L’abisso descritto dal filosofo tedesco altro non è che la Realtà Oggettiva, privata di ogni interpretazione falsa e rassicurante.

Lo sviluppo della conoscenza è un cammino che alcuni di noi intraprendono con leggerezza ed incoscienza, affascinati dall’idea di sapere di più, di conoscere meglio la realtà in cui viviamo immersi. Purtroppo questa realtà, depurata dalle narrazioni edulcorate e rassicuranti basate su bias cognitivi e cristallizzate nelle ideologie, si dimostra molto spesso insostenibile. E il rischio di perdersi nell’abisso diventa concreto.

Friedrich Nietzsche (Wikimedia Commons)

[1] Bias cognitivo (Wikipedia)

[2] Meu amigo Charlie Darwin

[3] Dio e Darwin

[4] List of Cognitive Biases (Wikipedia)

[5] L’invenzione del Progresso

[6] Bias di Proiezione

[7] Friedrich Nietzsche (Wikiquote)