Il trionfo della morte – 4

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

Parte quarta: la caduta

“Un uomo è un angelo che ha perso l’equilibrio mentale (…) Un tempo tutti, tutti quanti erano angeli autentici. Un tempo avevano di fronte una scelta tra il bene e il male, per questo era facile… era facile essere un angelo. Poi accadde qualcosa. Qualcosa non seguì la linea prestabilita o si spezzò, o venne a mancare. E dovettero fronteggiare la necessità di scegliere non il bene o il male bensì il minore di due mali. Quel fatto li sconvolse e ora sono tutti uomini.”
(cit. Philip K. Dick da “Galactic pot healer”)

Così lo scrittore americano racconta, in chiave metaforica, il trauma che subì la nostra specie con l’ottenimento dell’autocoscienza e della consapevolezza: la caduta dalla condizione animale, in cui le decisioni vengo dettate dal puro istinto, alla condizione umana in cui sono possibili diverse scelte e chi se ne fa carico ne diviene responsabile di fronte agli altri suoi simili.

Una tale consapevolezza di eventi risalenti alla notte dei tempi non è, tuttavia, di recente acquisizione. La narrazione della trasformazione che ci rese creature diverse da tutte le altre viene tramandata fin dall’antichità sotto forma di racconto. Di questo e non altro tratta la genesi biblica, tramandata prima come tradizione orale, quindi formalizzata con le più antiche forme di scrittura.

Da principio “l’uomo e la donna vivono inconsapevoli nel Paradiso Terrestre”, insieme a tutti gli altri esseri viventi. Poi subiscono la tentazione della conoscenza, mordono il frutto dell’albero “del Bene e del Male” e diventano “simili a Dio” col conseguente esilio dal paradiso e la condanna ad una vita di duro lavoro e sofferenza.

L’acquisizione della capacità di scelta, la differenziazione dal resto delle specie viventi, sebbene non operata volontariamente, diventa il “Peccato Originale” della nostra specie. Le stesse categorie di “Bene” e “Male” sono di fatto invenzioni umane: prima che Homo Sapiens sviluppasse l’intelligenza il mondo era popolato di esseri in grado di avere solo reazioni istintive, che non implicano possibilità di giudizio morale.

La capacità di operare delle scelte pone quindi l’Uomo di fronte al dilemma di dover optare per quelle più corrette, dà il via all’elaborazione di un’etica in grado di guidarlo, stabilisce l’esigenza di comprendere il mondo e le leggi che lo regolano e di tramandare il sapere acquisito alla discendenza.

L’intelligenza, che ci ha elevati al di sopra degli animali, porta con sé una condanna: dover vivere nella consapevolezza delle nostre azioni, delle emozioni e dei sentimenti degli altri, provare un senso di responsabilità nei loro confronti e, peggio di tutto, la piena coscienza dell’inevitabilità del declino fisico e della morte. Una costante paura della morte che ci accompagna dal raggiungimento della maturità fino alla fine dei nostri giorni.

L’idea della morte, la sua presenza costante, diventa a tal punto un’ossessione da generare interpretazioni, spiegazioni, filosofie. L’unico palliativo risulta l’elaborazione di un aldilà, di una possibile “vita oltre la morte”, col suo corollario di culti, religioni, sciamani e sacerdoti (tesi sulla quale gli antropologi attualmente concordano).

La morte appare, ancora oggi, il “grande nemico” degli umani, un nemico invincibile. Non stupisce quindi il fatto che, per opporsi alla morte, per provare a sconfiggerla, l’umanità abbia dato fondo alla sua più fervida creatività. Dalle piramidi ai mausolei, dai templi alle cattedrali, gli uomini hanno innalzato opere destinate a sfidare i secoli, a durare ben oltre la propria fine terrena, a testimoniare la propria fede nella sconfitta della morte.

Nel farlo si sono serviti di materiali inerti, “non vivi”, gli unici in grado di non soccombere al passare del tempo, di sfidare i secoli. Materiali morti. Ed è questo il paradosso finale: inconsapevolmente, nell’intento di inneggiare alla sconfitta della morte, abbiamo elevato monumenti essi stessi “morti”. Monumenti a loro modo inneggianti alla morte stessa.

C’è tuttavia un legame tra l’uomo e gli oggetti inerti, “morti”, inesistente nelle altre specie viventi, e derivante dalla nostra capacità di maneggiare utensili. Sarà il tema del prossimo approfondimento.

(Continua)

Il trionfo della morte – 3

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

Parte terza: l’avvento dell’intelligenza

Qual’è stato, dunque, l’evento scatenante capace di distoglierci così tanto dal corso dell’evoluzione biologica della vita sul pianeta? Cosa ha fatto sì che, da creature perfettamente integrate nella biosfera terrestre, ci trasformassimo, collettivamente ed in maniera individualmente inconsapevole, negli artefici della più grande estinzione di massa di specie viventi dai tempi dei dinosauri?

La risposta sta nella nostra unicità, nella caratteristica che abbiamo maggiormente sviluppato rispetto alle altre specie: l’intelligenza. Sul come e perché questa si sia venuta affermando occorrerà effettuare un’ulteriore digressione.

Avevamo lasciato gli organismi viventi alle prese con la differenziazione tra autotrofi (le piante, in grado di nutrirsi grazie alla radiazione solare) ed eterotrofi (organismi in grado di nutrirsi di altri organismi). Mentre per i primi non vi è l’esigenza di effettuare grandi spostamenti, per gli eterotrofi la mobilità diventa ben presto un tratto “vincente”. Le piante diventano organismi stanziali, mentre gli animali sviluppano in breve articolazioni (muscoli, pinne, zampe) per aumentare la propria capacità di muoversi e di nutrirsi.

Ben presto interviene una ulteriore differenziazione tra gli eterotrofi: come già accaduto per il proliferare degli autotrofi (il cui numero e diffusione li ha resi una riserva di cibo appetibile), aumentando la popolazione di “erbivori” si rende disponibile una nuova risorsa alimentare, ed alcune specie si diversificano diventando capaci di nutrirsi direttamente di creature appartenenti al regno animale anziché di quello vegetale.

Questa ulteriore diversificazione tra erbivori e carnivori comporta l’entrata in scena di meccanismi di difesa/offesa molto diversificati. I predatori sviluppano “strategie” atte a prevalere (denti, artigli, velocità e massa corporea), i predati sviluppano strumenti di difesa (massa corporea, ispessimento dell’epidermide, aculei, corna… altri perfezionano invece velocità, ridotte dimensioni e la capacità di rifugiarsi al sicuro).

Tutto questo, sia chiaro, non avviene in maniera intenzionale e premeditata ma semplicemente come l’affermarsi, su un arco di tempo di molte generazioni, di caratteristiche “vincenti” sul piano evolutivo. L’individuo (predatore) più veloce riesce a nutrirsi meglio e riprodursi con maggior facilità di quello lento, ed a trasmettere le sue caratteristiche vantaggiose alle generazioni successive.

Allo stesso modo si perfezionano gli organi sensoriali nei predatori per individuare le prede (e viceversa). Vista, udito, olfatto diventano progressivamente più efficienti, comportando la necessità di una crescita del cervello, destinato ad elaborare tali informazioni. L’aumento della capacità intellettiva è dovuto anche ad un’altra importante strategia evolutiva: lo sviluppo della socialità.

Se l’animale più grosso è in grado di difendersi di predatori meglio di quello più piccolo, allo stesso modo un gruppo di animali, coordinandosi, è in grado di far fronte a predatori aggressivi di fronte ai quali il singolo individuo soccomberebbe. Stesso discorso per i predatori, che cacciando in branco sono in grado di catturare e sopraffare prede più grosse di loro.

Diventa a questo punto necessario lo sviluppo di un “linguaggio”, fatto anche solo di semplici suoni e movimenti corporei, per coordinare i diversi individui, come pure la creazione e gestione di gerarchie sociali per consentire agli individui più intelligenti di coordinare le strategie di attacco e difensive.

Un esempio lampante si vede in questo video girato a Kruger Park, in Sudafrica. Un gruppo di leonesse attacca un piccolo bufalo africano rimasto isolato, tentando di sopraffarlo grazie al numero. Tuttavia, poco dopo, l’intero branco, richiamato dalle “urla” del piccolo, corre in suo soccorso, ed il rapporto di forze viene ben presto ribaltato.

L’evoluzione di predatori e prede avviene di pari passo, perché l’equilibrio tra le popolazioni è dinamico: un predatore troppo efficiente crescerà numericamente causando la decimazione delle sue prede, e gli individui sopravvissuti saranno stati selezionati tra i più forti, veloci e resistenti del branco, risultando più difficili da predare e trasmettendo alla discendenza tali caratteristiche.

All’interno di questo processo, la nostra specie (primati) si è ritrovata con un ruolo impreciso: onnivori, predatori di specie più piccole e fragili ed, al contempo, prede dei grandi carnivori, capaci di sopravvivere con un’alimentazione a base di vegetali e di cacciare altri animali, con una forte componente di coesione di gruppo ma privi di strumenti fisici di difesa/offesa realmente efficienti.

Il fatto di vivere e mettersi in salvo sugli alberi ha dapprima determinato la caratteristica degli arti prensili, che si sono in seguito dimostrati adatti alla manipolazione di utensili come pietre e bastoni, compensando in parte l’assenza di unghie, artigli e massa corporea. La versatilità dei nuovi arti ha richiesto un adattamento del cervello e lo sviluppo di aree specifiche per il controllo e la gestione degli stessi.

Al contempo, la necessità di coordinare numerosi individui di piccole dimensioni per far fronte a grossi predatori (un branco di scimpanzé armato di pietre e bastoni è in grado di respingere l’attacco di un leopardo) ha prodotto lo sviluppo di un linguaggio più complesso, fatto di vocaboli, gesti ed espressioni facciali, altro processo responsabile di un ulteriore crescita del cervello.

La rappresentazione seguente (detta “homunculus motorio”) illustra la proporzione tra le differenti aree del corpo e la dimensione delle aree cerebrali correlate al loro movimento, dimostrando come la gestione di mani ed espressioni facciali abbia richiesto un deciso incremento nello sviluppo cerebrale rispetto a creature più primitive.

Motorcortex

Tuttavia questo percorso evolutivo non è stato fin da subito premiante. La trasformazione degli arti superiori un strumenti di manipolazione ha indotto la postura eretta, e con essa tutta una serie di trasformazioni non immediatamente vantaggiose.

La postura bipede, oltre ad essere meno efficiente nella corsa (due arti che spingono al posto di quattro) ha come controindicazione una risagomatura del bacino e delle pelvi. D’altro canto lo sviluppo del cervello, unito alla necessità di mantenerne una “plasticità” (meno comportamenti istintivi e maggior capacità di acquisirne di nuovi) ha portato ad un allungamento dei tempi di gestazione e prodotto neonati con una testa più grossa.

Il risultato di questi due fattori concomitanti è che le femmine umane hanno avuto (ed hanno ancora) molti più problemi a partorire di quelle di altre specie, e l’efficienza riproduttiva è risultata ulteriormente danneggiata dal lungo arco di tempo necessario prima che la prole sia in grado di provvedere a sé stessa.

Un rettile, alla schiusa dell’uovo, è già in grado di procurarsi il cibo da sé, un puledro a pochi minuti dal parto è già in grado di stare in piedi e nutrirsi autonomamente. Diversamente, un neonato umano ha bisogno di anni di cure prima di poter dare un utile contributo alle necessità della tribù.

Questo ha fatto sì che la nostra linea evolutiva non si sia giovata fin da subito delle nuove acquisizioni. Il cammino dello sviluppo intellettuale si è svolto su un sentiero molto stretto, confinante col baratro dell’estinzione definitiva della specie Homo.

L’ultima, e definitiva, trasformazione che abbiamo vissuto come individui e come collettività è il raggiungimento dell’autocoscienza: la consapevolezza non istintiva della nostra mortalità, e la paura che ne consegue. Di questo trauma primigenio che abbiamo subito come specie, non ancora riassorbito, ne è rimasta traccia fino ai giorni nostri, e sarà l’argomento del prossimo post.

(Continua)

I nuovi header del Mammifero

Con ancora in testa le suggestioni nordafricane della recente vacanza in Marocco, vengo ad aggiornare la sequenza di immagini che WordPress carica in maniera random sotto la testata del blog, sostituendo quelle precedenti relative al viaggio in Croazia e Bosnia del 2012.

La difficoltà, per chi mastichi un minimo di ripresa fotografica, sta nel tirar fuori immagini che ben si adattano ad un formato lungo e stretto da foto scattate per il 16:9 (ormai mi sono convertito al formato panoramico). Alla fine non è andata troppo male, di un migliaio di scatti ne ho tirati fuori quasi una cinquantina che si vedono decentemente.

Per evitarvi di “refreshare ” compulsivamente la pagina del blog, li ho caricati tutti in uno slideshow di Picasa. Buona visione.

(più in là pubblicherò le foto in formato più godibile, ovviamente)

Guerre senza vincitori

Due tra i libri che mi hanno accompagnato nei mesi scorsi parlano, in un modo o nell’altro, delle recenti campagne militari per “l’esportazione della civiltà”. Il primo, in maniera più indiretta, è Jonathan Franzen, nel romanzo “Libertà”.

Franzen è attualmente uno fra i maggiori scrittori anglofoni, e il suo lavoro meriterebbe una trattazione esaustiva (che non ho tuttavia né il tempo né la voglia di fare: leggete i suoi libri… tanto sentirli raccontare da un blogger non gli aggiungerà nulla).

Coincidenza ha voluto che una delle sotto-trame della vicenda narrata implicasse il coinvolgimento nella pretesa “ricostruzione dell’Iraq”, operazione nella quale uno dei personaggi ritratti viene coinvolto da un faccendiere senza scrupoli ancor prima dell’inizio dell’invasione da parte delle forze USA.

La vicenda riecheggia, nello svolgersi, l’eco delle risate registrate in una famosissima intercettazione telefonica avvenuta la notte del terremoto de L’Aquila, quando imprenditori e faccendieri italiani brindarono alle prospettive di arricchimento che gli si stavano schiudendo davanti mentre gli aquilani morivano sotto le macerie, o vedevano le loro vite distrutte.

La questione morale, che pure Franzen solleva, rimane tuttavia, nello sviluppo della vicenda, relativamente marginale, come d’altro canto lo fu per l’intero popolo americano. E’ invece una delle colonne portanti della narrazione di Valerio Pellizzari, che nel saggio “In battaglia quando l’uva è matura” racconta i suoi quarant’anni di Afghanistan da reporter, con un occhio lucido, disincantato ed equidistante.

Allineando uno in fila all’altro una serie di episodi, vicende, storie personali, emerge un quadro agghiacciante di cosa rappresentino realmente le guerre moderne: un’occasione di business sfrenato e fuori controllo operato sulla pelle delle popolazioni dei teatri di guerra.

“Non aspettatevi di andar lì per vincere”, spiega un generale francese ai suoi soldati all’inizio della campagna militare, “le guerre moderne non hanno vincitori”. Servono, spiega Pellizzari, a far marciare l’industria bellica, a distruggere armi vecchie per fabbricarne di nuove, a testare nuovi sistemi d’arma e di controllo del territorio, a distribuire indietro denaro ai finanziatori dei politici che le promuovono.

Una enorme macchina economica in grado di macinare quantità enormi di dollari senza produrre nulla di utile o di fruibile, e di cui una cospicua parte va a sparire nelle tasche degli amici degli amici. Dall’altra parte, sangue, morti, terrore e devastazione per le popolazioni civili, su un arco temporale di anni.

Questo è quanto accaduto in Afghanistan e in Iraq. Ora i venti di guerra soffiano verso la Siria, e sappiamo già quale osceno teatrino di sangue, anche lì, andrà in scena…

Il trionfo della morte – 2

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

Parte seconda: il trionfo della vita

Dopo essere incappati nel paradosso che vede esseri viventi (noi umani) tesi a protendere le proprie intere esistenze nel possedere (o essere posseduti da) oggetti inanimati, tecnicamente “morti”, varrà la pena cercare di comprenderne il perché. Resta tuttavia da fare un distinguo preciso tra ciò che definiamo “vita” e ciò che definiamo “morte”, o in altri termini “non-vita”.

Saltando a pie’ pari vaneggiamenti pseudo-filosofici e digressioni new-age, il fenomeno che definiamo “vita” consiste nell’organizzazione prodotta da macromolecole autoreplicanti nel corso di diversi miliardi di anni sul nostro pianeta (e probabilmente altrove nel Cosmo). La condizione iniziale, oltreché maggiormente diffusa nell’Universo fisico, è quella di “non-vita”.

Brevemente: l’Universo nasce poco meno di 14 miliardi di anni fa sotto forma di una miscela di due soli elementi, idrogeno ed elio, in rapido raffreddamento ed espansione. Le nubi di idrogeno collassano quindi a formare stelle (e galassie), nel cui nucleo si formano gli elementi più pesanti della tavola periodica, culminando la loro esistenza in esplosioni che reimmettono tali elementi nello spazio interstellare.

La formazione delle stelle di seconda generazione avviene in nubi ricche di elementi pesanti, che finiscono col produrre intorno alle stelle stesse sistemi planetari dove si verificano le condizioni per il fiorire della vita. In presenza delle condizioni adatte (temperatura, acqua allo stato liquido, effetti mareali, ecc…) Gli atomi iniziano a legarsi in una varietà di molecole complesse, alcune delle quali hanno la proprietà di effettuare delle copie di se stesse.

Questo innesca il processo di “selezione naturale” descritto da Darwin, provocando continue trasformazioni ed adattamenti dell’ambiente planetario, che a loro volta innescano adattamenti e trasformazioni negli organismi che partecipano a tale processo. Difficile stabilire un confine netto in questa fase tra “vita” e “non-vita”, ma col tempo l’accresciuta complessità raggiunta nell’evoluzione molecolare varca questa soglia. Il primo passaggio probabilmente consisté nella capacità di produrre, a partire dal materiale organico disponibile, oltre a copie di se stesse anche molecole “funzionali”, a partire da rivestimenti in grado di difendere la fragile biochimica delle strutture autoreplicanti dalla potenziale aggressività del mondo esterno.

Un esempio di questa proto-vita, talmente efficace da funzionare ancora dopo miliardi di anni, lo vediamo nei virus: semplici doppie eliche di DNA rivestite da una capsula protettiva. Il passo successivo, tra quelli che l’evoluzione ha conservato, è rappresentato dagli organismi unicellulari, alghe e batteri. Qui siamo già nel pieno dominio della “vita”, ed assistiamo ad una prima diversificazione tra organismi autotrofi, in grado di “nutrirsi” della radiazione solare grazie alla clorofilla, ed organismi eterotrofi, che si nutrono degli organismi autotrofi. I primi daranno vita col tempo al cosiddetto “regno vegetale”, i secondi al “regno animale”.

Quando arriviamo a parlare di organismi unicellulari il fossato tra “vita” e “non-vita” è già saltato. Se il virus può essere descritto come una semplice macromolecola autoreplicante rivestita da un involucro proteico, le cellule sono organismi già complessi, con strutture interne differenziate, e soprattutto in grado di agire/reagire all’ambiente circostante, di adattarsi a mutevoli condizioni, di dar vita, infine, ad organismi multicellulari complessi in attiva competizione per le risorse.

Se questo è ciò che chiamiamo “vita”, nel nostro mondo (per non dire nell’Universo) continua a prevalere la “non vita”. Degli oltre 6000 chilometri di crosta terrestre la “vita” è in grado di proliferare solo in un minuscolo spessore superficiale di poche decine di metri, il resto è roccia, ghiaccio e magma rovente. Anche l’acqua che riempe gli oceani, pur rappresentando un ambiente vivibile ed essendo ricca di creature che vi nuotano e crescono, non è di per sé “viva”, lo stesso dicasi per l’atmosfera gassosa (prevalentemente ossigeno ed azoto) che circonda il pianeta.

La vita è rara, preziosa, affine a sé stessa, necessaria a sé stessa. Eppure noi umani, creature viventi, subiamo la fascinazione del “non-vivo”, dell’inerte, al punto da dedicare immani sforzi collettivi all’edificazione di monumenti inerti, dalle piramidi ai grattacieli. Monumenti non già alla vita ma alla “non-vita”, o, se vogliamo usare un termine diverso e più ricco di significati, alla “morte”.

(Continua)

Il trionfo della morte – 1

Sto ammucchiando idee da diverso tempo, e il guaio è che sono tutte idee collegate tra loro. Formano la trama di un affresco discretamente vasto, che non ho modo di contenere in un unico post senza renderlo prolisso e strabordante. La soluzione è smembrarlo, questa è la prima parte.

Difficile anche stabilire un punto di partenza del ragionamento, dato che dovrò toccare punti culturalmente molto distanti. Probabilmente converrà iniziare dalla prima intuizione, datata un paio di mesi fa, riguardante gli sguardi degli automobilisti mentre mi sposto in bicicletta attraverso la città.

Parte prima: gli occhi degli automobilisti

Tempo addietro scrissi un post semi-ironico intitolato “Perché gli automobilisti ci odiano”, col tempo ho compreso che in quegli sguardi c’è qualcosa di più, e di diverso, dall’odio. Ritengo si tratti di una forma di nostalgia.

Da appassionato di quella meravigliosa forma di narrativa metaforica che ricade sotto la definizione di fantascienza, rimasi estremamente colpito, molti anni fa, da un racconto breve di Isaac Asimov intitolato Occhi non soltanto per vedere. Solo poche pagine per affrontare il tema del cambiamento, della trasformazione, della perdita di sé.

Il racconto, in breve, immagina l’evoluzione finale dell’umanità in forma di creature semi-divine di pura energia, immortali ed in grado di manipolare la realtà grazie a campi di forze. Volendo attingere ad un immaginario più tradizionale, creature sostanzialmente non troppo dissimili dagli angeli.

All’approssimarsi di una ricorrenza due di queste creature si incontrano nel vuoto dello spazio interstellare per discutere di quale opera d’arte presentare. Una delle due ha un’idea estremamente radicale per esseri di pura energia che hanno fatto dell’energia ogni uso artistico possibile ed immaginabile: produrre un manufatto di materia.

Ottenuta la perplessa attenzione dell’altro, questi comincia a raccogliere della polvere interstellare, fino a metterne insieme una palla, che prende a modellare. Da principio non sa bene cosa tirarne fuori, se non che la forma irregolare di quel mucchietto di materia comincia a smuovere dei ricordi di ciò che era prima di diventare pura energia, di quando era un essere umano.

Comincia quindi a modellare una testa, un naso, degli occhi, finché l’essere di pura energia non viene colto da un’ondata devastante di ricordi sulla propria umanità, fino a diventare consapevole di cosa era, una donna, e di cosa ha significato perdere la propria carne in cambio dell’immortalità.

La “scultrice” fugge via, alla velocità della luce, abbandonando dietro di sé la forma sbozzata della testa che aveva iniziato a modellare: sotto uno degli occhi appare una lacrima. Lacrima che, avendo rinunciato alla propria umanità, non ha più modo di versare, e questo spiega infine il titolo del racconto.

In questo breve apologo Asimov racconta il processo di evoluzione, di crescita, di trasformazione che, volenti o nolenti, il nostro essere umani ci impone, e di come ogni guadagno comporti inevitabilmente anche una perdita. Il diventare adulti ci rende più forti, più sapienti, ci spalanca potenzialità, ma per ciò stesso non può evitare di toglierci la fanciullezza, la leggerezza, la spontaneità.

Ho trovato molti paralleli tra questo racconto e la realtà contingente, uno dei quali è negli sguardi di molti automobilisti. L’idea diffusa, costruita ad arte dalle campagne pubblicitarie, è che l’automobile rappresenti una forma di crescita, di emancipazione: il possesso di un’automobile rappresenta per molti la possibilità di spostarsi da un luogo all’altro, e di farlo con comodità in un ambiente familiare ed accogliente.

Quello di cui gli automobilisti non sono consapevoli è quanto l’automobile tolga loro in termini di autonomia, autostima, consapevolezza di sé e degli altri: una parziale rinuncia alla propria umanità. Realtà che, ogni tanto, appare un ciclista a ricordargli.

La visione di un ciclista li rende infine consapevoli del doversi imprigionare in una lussuosa scatola per potersi spostare. Una scatola a ruote cui devono sacrificare ore ed ore di lavoro, che va continuamente nutrita, accudita, aggiustata. Una macchina che, a dispetto di quanto affermi la pubblicità, non è da essi posseduta, bensì li possiede.

E questo è il primo tassello del mosaico: la nostalgia della vita perduta. Non già una percezione lucida quanto un’ombra ai margini della coscienza, una consapevolezza negata ma incontrovertibile, l’inspiegabile sensazione di stare viaggiando dentro una bara a quattro ruote. E, forse, di essere già quasi morti.

(Continua)

Marrakech, Marocco

Sul come e perché siamo finiti in Nordafrica per una settimana non ho grossi dubbi, tra crisi economica e lavoro incerto la scelta di un viaggio “low profile” era praticamente obbligata. Manu l’ha proposto ed io l’ho accettato. “Quanto potrà essere diversa da Istanbul?”, mi domandavo, avendo quella come unica esperienza di un paese islamico. La risposta è venuta sul posto: completamente.

Come al solito non ho assunto informazioni in anticipo. Non mi piace ritrovarmi in un posto di cui so già troppo, la sensazione è di un continuo dejà-vu anche se non ci si è mai stati, tutto è simile a qualcosa che credi di conoscere ma hai visto solo in fotografia. Preferisco trovarmi di fronte alla realtà senza aspettative né preconcetti.

Un tale approccio non è, ovviamente, privo di rischi. Arrivare nel tardo pomeriggio e trovarsi ad uscire di sera per i vicoli di una casbah affollata, puzzolente, polverosa e male illuminata, in mezzo a motorini e biciclette che sfrecciano tra i passanti, e finire quasi a perdersi in una zona priva di ristoranti (anche a causa del concomitante ramadan) può risultare traumatico.

Ma basta non farsi stordire troppo dalla stranezza dell’intero contesto per ritrovarsi in una realtà, per quanto aliena, ospitale ed accogliente. Potrebbe essere la Roma del primo dopoguerra: quartieri poveri, una miseria dignitosa, una vita fatta più di “essere” che di “possedere”, un viaggio nello spazio e nel tempo.

Marrakech spazza via molte delle illusioni sulla “decrescita felice”, mettendoci di fronte alla crudezza della povertà: motorini fumosi, biciclette scassate, carretti trainati da asini, taxi con venti o trent’anni di onorato servizio sulle spalle, strade malandate, marciapiedi devastati, muri cadenti, infissi in ferro battuto realizzati da veri artisti del recupero, sporcizia, polvere.

Il primo impatto per noi occidentali è dettato dalle forme esteriori, ed occorre un salto di qualità per guardare oltre e riuscire a vedere realmente le persone che popolano questo mondo incomprensibile, a cogliere lo strabordare di umanità che affolla strade e piazze. Anche in questo l’essere facilmente individuati come turisti non aiuta.

Il turista è qui simbolo di ricchezza deambulante, gli si offre di tutto, mercanzie, taxi, una guida nei meandri dei souk, spesso in cambio di pochi spiccioli. A Marrakech una brioche sulle bancarelle di strada costa un Dirham, l’equivalente di dieci centesimi, la stessa cifra che chiedono i mendicanti tendendo la mano.

Ci vuole un po’ per capire come declinare le offerte in maniera netta senza apparire offensivi, magari aggiungendo un sorriso. Alla fine quelli veramente insistenti non risultano poi molti, e giunti a quel punto si riesce a prendere confidenza con la città e, pur rimanendo turisti, a “nuotarci” dentro in relativo relax, ad oltrepassare la prima impressione opprimente di polvere e povertà.

Superato l’impatto con le differenze si cominciano ad intravedere le somiglianze, le affinità. Fatti tutti i distinguo, la vita di una media cittadina del Nordafrica non è poi drammaticamente diversa da quella di un piccolo centro della provincia italiana, con le sue abitudini ed i suoi riti: la passeggiata, il mercato, l’intera rete relazionale interpersonale sempre a portata di mano.

I bambini giocano nei vicoli, ragazzi appena più grandi girano da soli per le strade padroneggiando con agilità invidiabile biciclette mediamente malandate. Intorno alle ore della preghiera si vede gente affannarsi alla più vicina moschea, indossando lunghe tuniche bianche, ricamate. Terminata la preghiera se ne tornano a casa, o alle attività temporaneamente interrotte.

E’ sufficiente un minimo di familiarità per ritrovare, declinate in una cultura per altri versi lontanissima, forme e modi di vita che sono stati quotidiani per tutte le generazioni precedenti al (nostro) boom economico. Quasi tutti si muovono a piedi, vuoi perché le automobili costano e la benzina pure, vuoi perché non c’è necessità di arrivare troppo lontano per trovare quello che serve, vuoi perché la struttura urbanistica impedisce fisicamente di lasciare l’auto troppo vicino casa.

La forma della città vecchia è quella di un borgo medioevale, stradine strettissime e tortuose, molto spesso senza sbocco, con case che non mostrano nulla all’esterno schiudendosi all’interno su spettacolari minuscoli cortili, i ryad, dove affacciano tutte le stanze.

La polvere e l’essenzialità dei muri intonacati a fango, all’esterno, fa da perfetto contraltare alla pulizia ed all’eleganza, per quanto essenziale, degli interni.

C’è, in questo, tutta l’idea islamica della separazione tra dentro e fuori, tra le mura di casa e l’esterno, tra il luogo dove rilassarsi e quello in cui dover affrontare il mondo ostile. Anche se le città offrono situazioni relativamente confortevoli il clima è arido, e il più grande deserto del mondo si affaccia a poca distanza, appena alle spalle dei monti dell’Atlante. Una realtà non ignorabile, né eludibile.

Alla fine torna la domanda che mi pongo al termine di ogni viaggio: potrei vivere qui? Sarei in grado di adattarmi a questo mondo, a questo stile di vita, senza dover diventare troppo “altro” da quello che sono ora? E, se fossi costretto a farlo, ci riuscirei? Risposta che, ovviamente, non mi è dato conoscere.

Conservo però con me, gelosamente, tutto il valore della domanda, le possibilità che da essa si schiudono. L’essere “altro” in un mondo “altro”, non diverso da quelli che, adesso, mi appaiono dissimili. Una goccia di umanità disciolta nell’oceano della diversità, senza nemici, aperta al dialogo, alla perenne ricerca di un benessere diffuso e condiviso fra tutti.