(prosieguo di una riflessione iniziata qui)
Parte quarta: la caduta
“Un uomo è un angelo che ha perso l’equilibrio mentale (…) Un tempo tutti, tutti quanti erano angeli autentici. Un tempo avevano di fronte una scelta tra il bene e il male, per questo era facile… era facile essere un angelo. Poi accadde qualcosa. Qualcosa non seguì la linea prestabilita o si spezzò, o venne a mancare. E dovettero fronteggiare la necessità di scegliere non il bene o il male bensì il minore di due mali. Quel fatto li sconvolse e ora sono tutti uomini.”
(cit. Philip K. Dick da “Galactic pot healer”)
Così lo scrittore americano racconta, in chiave metaforica, il trauma che subì la nostra specie con l’ottenimento dell’autocoscienza e della consapevolezza: la caduta dalla condizione animale, in cui le decisioni vengo dettate dal puro istinto, alla condizione umana in cui sono possibili diverse scelte e chi se ne fa carico ne diviene responsabile di fronte agli altri suoi simili.
Una tale consapevolezza di eventi risalenti alla notte dei tempi non è, tuttavia, di recente acquisizione. La narrazione della trasformazione che ci rese creature diverse da tutte le altre viene tramandata fin dall’antichità sotto forma di racconto. Di questo e non altro tratta la genesi biblica, tramandata prima come tradizione orale, quindi formalizzata con le più antiche forme di scrittura.
Da principio “l’uomo e la donna vivono inconsapevoli nel Paradiso Terrestre”, insieme a tutti gli altri esseri viventi. Poi subiscono la tentazione della conoscenza, mordono il frutto dell’albero “del Bene e del Male” e diventano “simili a Dio” col conseguente esilio dal paradiso e la condanna ad una vita di duro lavoro e sofferenza.
L’acquisizione della capacità di scelta, la differenziazione dal resto delle specie viventi, sebbene non operata volontariamente, diventa il “Peccato Originale” della nostra specie. Le stesse categorie di “Bene” e “Male” sono di fatto invenzioni umane: prima che Homo Sapiens sviluppasse l’intelligenza il mondo era popolato di esseri in grado di avere solo reazioni istintive, che non implicano possibilità di giudizio morale.
La capacità di operare delle scelte pone quindi l’Uomo di fronte al dilemma di dover optare per quelle più corrette, dà il via all’elaborazione di un’etica in grado di guidarlo, stabilisce l’esigenza di comprendere il mondo e le leggi che lo regolano e di tramandare il sapere acquisito alla discendenza.
L’intelligenza, che ci ha elevati al di sopra degli animali, porta con sé una condanna: dover vivere nella consapevolezza delle nostre azioni, delle emozioni e dei sentimenti degli altri, provare un senso di responsabilità nei loro confronti e, peggio di tutto, la piena coscienza dell’inevitabilità del declino fisico e della morte. Una costante paura della morte che ci accompagna dal raggiungimento della maturità fino alla fine dei nostri giorni.
L’idea della morte, la sua presenza costante, diventa a tal punto un’ossessione da generare interpretazioni, spiegazioni, filosofie. L’unico palliativo risulta l’elaborazione di un aldilà, di una possibile “vita oltre la morte”, col suo corollario di culti, religioni, sciamani e sacerdoti (tesi sulla quale gli antropologi attualmente concordano).
La morte appare, ancora oggi, il “grande nemico” degli umani, un nemico invincibile. Non stupisce quindi il fatto che, per opporsi alla morte, per provare a sconfiggerla, l’umanità abbia dato fondo alla sua più fervida creatività. Dalle piramidi ai mausolei, dai templi alle cattedrali, gli uomini hanno innalzato opere destinate a sfidare i secoli, a durare ben oltre la propria fine terrena, a testimoniare la propria fede nella sconfitta della morte.
Nel farlo si sono serviti di materiali inerti, “non vivi”, gli unici in grado di non soccombere al passare del tempo, di sfidare i secoli. Materiali morti. Ed è questo il paradosso finale: inconsapevolmente, nell’intento di inneggiare alla sconfitta della morte, abbiamo elevato monumenti essi stessi “morti”. Monumenti a loro modo inneggianti alla morte stessa.
C’è tuttavia un legame tra l’uomo e gli oggetti inerti, “morti”, inesistente nelle altre specie viventi, e derivante dalla nostra capacità di maneggiare utensili. Sarà il tema del prossimo approfondimento.