Non-scienza

Manfred mi segnala, linkandolo in un commento al penultimo post, un documento in formato PDF reperibile in rete, con su il programma del 26° convegno annuale della “Society For Scientific Exploration”. Ho cominciato a leggere e mi sono trovato come catapultato in una sorta di universo parallelo.“Interpretazioni quantomeccaniche della Consapevolezza collettiva”, recita il titolo di uno degli interventi, ed altri: “Sfide sperimentali alla seconda legge della termodinamica”, “Le conseguenze parafisiche dello spazio quadridimensionale”, “Può la teoria dell’Antenna Dielettrica aiutare a spiegare l’olfatto degli insetti?”; per arrivare ad un impagabile: “Ricerca sugli UFO: a che punto siamo?”

Poi ho rammentato la grande passione del mio amico per la parapsicologia (!), disciplina rispetto alla quale afferma da un lato di nutrire grande interesse, ma dall’altro di non credere alla maggior parte delle cose che vengono investigate, ed ho cominciato a riorientarmi nello spaccato di mondo che mi ha aperto davanti.

Confesso di non aver letto per intero il documento, ma almeno a metà delle sue 35 pagine ci sono arrivato… e l’ho trovato bizzarro. Un tentativo di essere contraltare ad una Scienza che viene definita “cattedratica”, che si accusa di non volersi confrontare con “fenomenologie non ripetibili”, e della quale pure si mutuano, in una involontaria parodia, forme e linguaggi.

Ebbene occorre, in questo mondo in cui le mistificazioni sono all’ordine del giorno, a volte perfino operate in buona fede, avere ben chiara la differenza tra cosa si intende per “Scienza”, e cosa invece non lo è. Non essendo questo lo spazio adatto per una trattazione approfondita (peraltro esistono ottimi trattati di filosofia della Scienza…) mi limiterò a mettere giù un po’ di paletti.

Per cominciare, la Scienza si occupa dell’osservazione e dell’interpretazione dei fenomeni naturali, e parte dall’osservazione di un evento per dedurne principi e comportamenti generalizzabili ad altre situazioni analoghe. La ripetibilità delle esperienze ne è uno dei capisaldi. Tutto ciò che non sia replicabile, semplicemente, non si presta ad un’indagine scientifica, attiene all’ambito del caso, o dell’arbitrarietà (a meno di appartenere a fenomenologie con connotati statisticamente trattabili).

Si può applicare un metodo scientifico a delle indagini senza che il metodo trasferisca la sua scientificità alle intenzioni. Esaminare con metodologie “scientifiche” degli eventi presumibilmente casuali, come la correlazione tra una serie di disegni effettuati durante il sonno e le copertine dei quotidiani dei giorni successivi (per cercare di dimostrare la possibilità anche remota delle capacità precognitive del cervello umano), pur utilizzando metodologie prese di peso dalla scienza statistica, non rende ipso facto “scientifica” la ricerca stessa.

Per meglio dire: è “Scienza” osservare un fenomeno e cercare di comprenderlo, mentre è “non-Scienza” partire dal presupposto che un fenomeno esista o possa esistere (la parapsicologia è piena di esempi di questo tipo: precognizione, telepatia, telecinesi, levitazione, esperienze extracorporee…) e cercare “a posteriori” un metodo per verificare l’attendibilità delle nostre aspettative.

Confesso, in passato, di essere anch’io rimasto affascinato se non dai fenomeni paranormali in sé (la cui esistenza, se fosse necessario ribadirlo, nessuno ha ancora inequivocabilmente dimostrato), quantomeno dalle possibilità che la concretizzazione anche di uno solo di essi ci schiuderebbe davanti.

Però di fronte a tutto prevale uno scetticismo critico: i fenomeni possono esistere o non esistere, ma non verificarsi in maniera del tutto imprevedibile. Anche se, magari a volte sarebbe bello illudersi che, da un giorno all’altro, il mondo possa subire positivi sconvolgimenti dalla scoperta, che so, della levitazione, o della telepatia (e nel contempo sperando anche di non aver perso, con questo post, il mio unico lettore/commentatore).

Trasferimento orizzontale di senso

Lo spunto per questa riflessione me l’ha dato la canzone “Space Oddity”, di David Bowie, trovata citata in un giallo fantascientifico che ho da poco iniziato. “Space Oddity” esce alla fine degli anni ’60, quindi in piena ‘corsa allo spazio’. È il racconto in soggettiva un naufragio spaziale: un incidente a causa del quale l’astronauta protagonista si perde nel vuoto cosmico.

“Planet Earth is blue
and there’s nothing I can do”

Con quella assoluta indeterminazione che regola l’arte, oggi questa canzone ci suona profetica, e molto più attuale di quanto probabilmente non apparve nell’epoca in cui fu composta. Anche, a suo modo, ci pare molto ingenua, di un’ingenuità in cui ci riconosciamo. Siamo tutti “Major Tom”, abbiamo tutti perso qualcosa, che specularmente non è la Terra, ma lo spazio, gli altri mondi, il resto dell’Universo.

Ed in ogni caso la riflessione è sul senso: di una canzone, di un’emozione, di una situazione. Assegnare un senso a qualcosa richiede chiavi interpretative che non sono date, ce le forniamo da soli con la crescita, con lo studio, con la conoscenza del mondo e degli altri.

Allora accade che il senso di qualcosa possa essere completamente diverso per due persone di differenti età, cultura, estrazione sociale. Maggiore è la complessità del contesto nel quale l’evento viene inserito, diverso sarà il senso derivante dalla sua contestualizzazione, ma questo ci insegna anche che non è possibile, se non a prezzo di grandi fatica e disponibilità, condividere questo senso con altri.

L’oggettività è impossibile: per pervenire a considerazioni analoghe, anche solo su un semplice brano musicale, bisogna possedere un comune background, condividere chiavi interpretative, avere perfino gusti simili, ed anche così nulla impedisce di avere opinioni assolutamente divergenti, per dire, su un altro brano musicale.

E la pretesa di assegnare un senso alle cose, e consegnare questo senso ai posteri, che ha l’arte (la pittura, la letteratura, la musica), appare di fatto effimera. Sperare in un “trasferimento verticale” del senso, attraverso strati di tempo, situazioni ed esperienze che finiranno col rendere incomprensibile quasi ogni cosa, appare ancora più assurdo alla luce del fatto che non siamo in grado di operare neppure un trasferimento “orizzontale” di senso, alle persone che ci sono più vicine, se non in maniera parziale e con molta fatica.

Per questo ascoltando Bowie, e trovandolo amorevolmente citato in un libro, ci sembra così miracoloso che, a distanza di anni, una canzone possa suonare le stesse corde per tante persone diverse, che magari sono nate e l’hanno conosciuta solo molti anni dopo la sua uscita. Si ha quasi l’illusione, per un attimo, che sia realmente possibile il comprendersi a vicenda.

Il tramonto della fantascienza

Image Hosted by ImageShack.usDevo dire la verità, questo libro l’ho detestato fin dalle prime pagine. Già nella brevissima prefazione alla vicenda l’autore inanella una sequenza di inverosimiglianze scientifiche da lasciare interdetti. Eppure, mi sono detto, se ha vinto un premio “Nebula” qualcosa di buono ci sarà. C’era, ma poco, e anche quel poco non attinente alla parte “fantascientifica”.

In primo luogo dovrei chiarire che cos’è il premio “Nebula” e perché il trovarlo citato sulla copertina di un libro in genere mi muove all’acquisto: trattasi del massimo riconoscimento conferito dall’associazione degli scrittori di fantascienza nel corso di una convention annuale negli Stati Uniti. L’altro grande riconoscimento, ritenuto ancora più importante, è il premio “Hugo” (intitolato a Hugo Gernsback), conferito invece dai lettori.

Cos’è che proprio non va in questo romanzo? Diverse cose. La prima è che si sfrutta una “confezione pseudoscientifica” per raccontare vicende che con la scienza non hanno nulla a che vedere. Per fare un paragone è come se io decidessi di scrivere un racconto in cui dei supertecnici, in un superlaboratorio americano della NASA, analizzano una bacchetta azzurrina e fanno esperimenti con spettrografi ed altre apparecchiature dai nomi altisonanti, per cercare di comprendere come mai afferrando la suddetta bacchetta e pronunciando la frase “Salakabula Magicabula Bibidibobidibù” si producano dei miracoli.

C’è che il concetto di fanta-scienza, quando venne formulato intorno agli anni ’20 del secolo scorso, prevedeva la scrittura di racconti fantastici basati su estrapolazioni delle idee e delle conoscenze scientifiche che si andavano formando all’epoca. Il che produsse una scissione nel campo del racconto fantastico, dal momento che continuarono ad essere scritte storie che non richiedevano un fondamento di plausibilità, racconti di orchi, e maghi, ed incantesimi, ed altre che invece pretendevano di immaginare e rappresentare un futuro quantomeno possibile.

Nei molti decenni da allora trascorsi è cambiato praticamente tutto. Le conquiste che poco meno di un secolo fa potevano apparire realizzabili nel volgere di pochi anni si sono dimostrate, al contrario, del tutto impossibili. La scienza, invece di spalancare mondi di meraviglie alla fertile immaginazione degli scrittori, ha continuato a piantare paletti di negazione.

Basandoci su quello che sappiamo ora, la velocità della luce non può essere superata, nemmeno in via teorica, e se lo spazio si possa “curvare”, in modo da rendere possibili viaggi interstellari, questo di certo non sarà realizzabile con macchinari che siamo lontanamente in grado di immaginare.

Quindi lo “Spazio, ultima frontiera” di cui favoleggiava ancora negli anni ’60 la serie “Star Trek” (verrebbe da dire: favoleggia ancor oggi, ma l’idea di frontiera da qualche parte si è un po’ persa…) non rappresenta al momento alcuna possibilità di diventare, come fu l’America nel ‘700 e nell’800, la valvola di sfogo di un’umanità che tende a sovrappopolare qualunque habitat.

Altri vincoli e paletti vengono posti dalle altre scienze. La fisica ci rende edotti del fatto che non esistono altri elementi oltre a quelli della tavola periodica, che le interazioni fondamentali della materia restano quelle poche e semplici già note, che, sostanzialmente, non esistono fenomeni inspiegabili, ma solo meccanismi poco chiari, che col tempo verranno meglio descritti.

Questo ha prodotto, negli anni, un inaridimento del genere letterario fantastico legato alle speculazioni razionali. Se non si può immaginare di costruire astronavi per colonizzare altri mondi, se non si possono immaginare metabolismi alieni troppo inverosimili, se non si possono immaginare armi ed invenzioni ingiustificabili a fronte delle conoscenze attuali, di cosa si potrà mai scrivere?

Haldeman risolve il problema semplicemente infischiandosene. Inventa materiali impossibili, personaggi impossibili (oltreché inverosimili), situazioni del tutto implausibili, e non si degna di dare la minima spiegazione, limitandosi a far affermare ad uno dei superscienziati protagonisti della vicenda: “credevamo di sapere tutto, ed invece probabilmente non sappiamo nulla…“.

Beh, molto facile, e molto comodo. Troppo comodo. A questo punto mi vado a leggere come documento storico la saga di Mago Merlino, ed anzi, pretendo che esistano gli elefanti volanti descritti nel cartone animato “Dumbo”!

Scherzi a parte, esiste un fondato problema a monte di tutto ciò: l’impoverimento della sfera emozionale legata al magico ed all’irrazionale. La natura umana porta con sé il desiderio di sfide, anche intellettuali, l’esigenza di affrontare e svelare l’ignoto, di esplorare realtà sconosciute. Cosa faremo quando la scienza avrà svelato ogni cosa, quando tutto sarà descritto, quando dovremo arrenderci, più che alla finitezza della nostra immaginazione, alla finitezza stessa dell’Universo che ci circonda?

Anni fa lessi un breve racconto, non saprei più dire chi fosse l’autore, in cui si raccontava della “Convention di fantascienza dell’anno 2020” (o qualcosa di simile), nel corso della quale, dopo il crollo della civiltà in seguito ad una guerra atomica, ed il mondo precipitato in una nuova epoca di barbarie, gli scrittori riaffermavano il diritto della loro immaginazione a viaggiare libera dai vincoli della scienza: “ora che la scienza non esiste più“.

Forse gli autori cominciano davvero a pensarla così. A quanto pare i lettori invece no: il romanzo di Haldeman, al premio Hugo, non è arrivato nemmeno tra i finalisti.

Internet, comunicazione e parola scritta

Osservare e comprendere le trasformazioni sociali nell’arco di tempo in cui si producono è già del suo un’impresa titanica. Alla nostra generazione è toccata in sorte uno di questi cambiamenti epocali, l’avvento di un nuovo paradigma della comunicazione, la "rete delle reti": internet. Una realtà in tale costante, tumultuosa, rapidissima trasformazione da risultare impredicibile ai suoi stessi più entusiasti fautori.

Ancora non avevamo pienamente metabolizzato le potenzialità del web 1.0 (così sono state definite le pagine statiche che si usavano fino a qualche anno fa, ed in casi specifici ancora adesso), ed eccoci proiettati nel "web 2.0", il web "sociale", una realtà talmente nuova ed imprevista da renderci tutti cavie di una sorta di esperimento globale sulla capacità di adattamento umana.

Come stiamo reagendo? Bene? Male? Impossibile dare una risposta certa. Non passa giorno senza che ci si renda conto di qualcosa di nuovo che è divenuto possibile fare, che prima non era neppure immaginabile. Navighiamo a vista con questi nuovi strumenti, credendoli molto più semplici di quanto non siano in realtà.

La "comunicazione asincrona" è di per sé una formidabile invenzione, consente di condividere conoscenze e competenze nei tempi e modi che ognuno/a ritiene più adatti. Per fare un esempio, questo articolo che sto scrivendo verrà letto molte volte in tempi successivi alla sua pubblicazione, e qualcuno/a potrà aggiungere il proprio contributo scrivendo un proprio commento. Ma resta una comunicazione parziale.

L’essere umano si è evoluto per utilizzare una comunicazione diretta, da persona a persona. La quantità di informazioni scambiate in questo tipo di relazione, consce ed inconsce, è probabilmente di un ordine di grandezza superiore a quelle che possono essere veicolate dalla semplice parola scritta, e riguardano nel particolare le sfere emotive e partecipative legate alle informazioni scambiate.

Dirsi a voce, di persona, una frase neutra come ad esempio "l’appuntamento è alle 10 nel tale posto", consente di far capire all’interlocutore se la sua presenza è gradita o meno, se siamo interessati/e a che partecipi, se ci teniamo alla sua presenza. La parola scritta è un dato freddo ed inerte, e ci lascia in balia delle interpretazioni personali.

Purtroppo nell’isolamento individuale prodotto dalla struttura urbanistica delle nostre case e città, poter attingere al serbatoio emotivo della comunicazione asincrona diventa spesso una necessità, ed una cosa che ho realizzato solo recentemente, e direi tardivamente, è che la preferenza per l’utilizzo di questa forma comunicativa è, salvo rari casi, inversamente proporzionale alla capacità empatica degli individui.

Persone con grande capacità empatica risulteranno insoddisfatte dei limiti della comunicazione asincrona, tendendo a privilegiare altre modalità più dirette e coinvolgenti, altri, con problemi di relazionamento interpersonale, riverseranno sul web la propria necessità di contatto umano, con risultati quasi sempre insoddisfacenti.

Forse, e sarebbe una chiave di lettura in fondo ottimista, è questo il motivo per cui l’Italia è tanto indietro per quanto riguarda la penetrazione di internet nelle case, ed il suo utilizzo. Rispetto ai popoli tecnologicamente più avanzati (e forse anche più alienati…) viviamo e ci nutriamo di una sfera emozionale e relazionale diffusa, di una rete di rapporti e relazioni più estesa ed appagante.

N.b.: quanto affermato fin qui non significa che a breve mi riprometta di chiudere il "Mammifero Bipede", solo che inizierò, ed inviterò anche altri a farlo, a rimettere in discussione le reali potenzialità offerte dai servizi "web based" di portare utili contributi alla nostra vita emotiva e relazionale (anzi, guardando indietro, probabilmente è già da un po’ che mi sto muovendo in questa direzione).

Una domenica speciale

Ho scritto nel titolo di una domenica "speciale", per me lo è stata, e forse anche per qualcun altro/a dei diciotto partecipanti all’uscita a Farfa. Per cominciare una bella foto di gruppo (cliccateci su per vedere la versione a piena risoluzione)

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Cos’ha avuto di tanto speciale la pedalata di ieri da spingermi a scrivere un resoconto così "a caldo", appena tornato a casa, tra la doccia e la cena? Beh, diverse cose. In primo luogo la composizione del gruppo, che più eterogenea non poteva essere, con "pezzi" di Ruotalibera, di Pedalando, dei Ciclopicnickers, bambini, ragazzi e "cani sciolti". Un gruppo numeroso, formato da persone con storie diverse, e portatrici di esigenze e sensibilità diverse.

La prima scommessa era di "immaginare" un contenitore in grado di accontentare tutti. La seconda scommessa era di mettere in piedi un’uscita in bici con molti più "gradi di libertà" rispetto a quelli a cui le associazioni hanno abituato molti di noi, facendo venire a mancare tutta una rete di "paletti" e protezioni, sicurezze e garanzie che per molti sembravano indiscutibili.

Nel dettaglio quest’uscita non ha avuto una guida ufficiale… ed anche il sottoscritto, proponente, non conosceva parte del percorso. Ad un certo punto si è scelto di tagliare per una strada sconosciuta (anche se riportata sulla mappa…) seguendo il consiglio di gente del posto incontrata lungo la strada. Sulla via del ritorno almeno metà del gruppo è partita avanti, in piena autonomia, imboccando una strada diversa da quella indicata nell’itinerario proposto, col risultato di allungare, e per metà di loro di perdere il treno delle 17.13, mentre la "presunta guida", seguendo il tracciato suggerito, è riuscita col gruppetto degli ultimi ad arrivare a prenderlo… quando si dice "gli ultimi saranno i primi" (se i primi sbagliano strada!).

Mi sembra che abbiamo dimostrato, oggi, che con un briciolo di esperienza e competenza si possono fare tante cose prima solamente immaginate, lasciare appuntamenti liberi, guidare un gruppo su un percorso sconosciuto, perdersene pezzi sbagliando strada, inventare ed improvvisare. E’ andata bene, forse meglio non poteva andare.

Avrei ancora tante cose da aggiungere, magari lo farò più avanti, ora mi preme lasciare la parola ai partecipanti (qui la pagina del Forum con i commenti).

Piano della ciclabilità del X Municipio


La notizia è ormai vecchia di un mese (l’approvazione è avvenuta il 19 dicembre), ma ci tenevo lo stesso a darvela. Il piano di rete ciclabile del X municipio (alla stesura del quale il sottoscritto e l’ing. Ortolani hanno collaborato) è stato approvato dal Consiglio municipale, ed ora proseguirà il suo iter presso l’assessorato all’ambiente del Comune, che si è impegnato ad integrare i progetti dei diversi municipi per arrivare a presentare all’approvazione del Consiglio Comunale il famoso "bici-plan" cittadino.

Un piccolo passo, quindi, piccolo ma importante perché finalmente disegna un progetto concreto e fattuale di rete ciclabile, per un quartiere delle dimensioni di una media città italiana. A dimostrazione del fatto che l’unica cosa che ora manca (e temo non avremo a breve…) è la reale volontà di realizzare opere piccole ma essenziali per migliorare la qualità delle nostre vite.

Cliccando sull’immagine se ne può vedere una versione ingrandita, mentre l’allegato tecnico è scaricabile qui:

http://www.box.net/static/flash/box_explorer.swf?widgetHash=uywpur2g4g&v=1

La classe operaia va all'inferno

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È da un paio di giorni che ho sotto gli occhi il reportage di Ezio Mauro sulla tragedia della Thyssen-Krupp di Torino. L’ho letto ieri, ed oggi l’ho voluto rileggere. Nel senso d’angoscia che riesce a trasmettere, nel modo asciutto eppure partecipe di raccontare l’irraccontabile, trovo che sia un esempio di grande giornalismo. Uomini che escono, devastati, dal fuoco, parlano, chiedono dei loro cari. Sono già morti, e ancora non se ne rendono conto.

Del fiume di parole versato nei giorni successivi al disastro questi "dettagli" sono andati persi, forse intenzionalmente. La lingua dei notiziari è asettica: "morti sul lavoro", si dice, e la morte evocata sembra un po’ più pulita, meno dolorosa, meno terrificante. Televisione e cinema ci hanno cresciuti con un’idea quasi "meccanica" della morte. I programmi di fiction sono ormai una sorta di "catena di montaggio" dell’omicidio, in cui personaggi più o meno grossolani vengono uccisi, in modi fantasiosi, in grande quantità.

Invece, nei luoghi di lavoro, muoiono persone vere, con famiglie, affetti, amici, colleghi. Muoiono in maniere strazianti, per distrazione, per stanchezza eccessiva, per sciocca leggerezza e sottovalutazione del rischio, o per bieco calcolo economico.

Come possa prender sonno, la notte, chi mette a rischio la vita d’altri per ficcarsi in tasca qualche manciata di euro in più, da sperperare per l’acquisto di beni di nessuna necessità, proprio non riesco a comprenderlo.

E mi domando dove ci porterà questa "rimozione" del valore del lavoro, questa cancellazione, dall’immaginario collettivo, di ciò che un tempo veniva definita la "Classe Operaia", questa marginalizzazione di strumenti e persone che provvedono, silenziosamente ed umilmente, al nostro benessere quotidiano.

Un secolo fa il mondo occidentale immaginava che le macchine, la tecnologia, il cosiddetto "progresso", avrebbero liberato l’umanità dalla servitù del lavoro quotidiano. Era un’utopia che culture differenti hanno provato a declinare in forme e modi diversi, dal socialismo al capitalismo, ma non si è realizzata. Le macchine hanno sì ridotto la necessità di lavoro umano, ma al tempo stesso hanno prodotto una crescita esponenziale delle merci e dei consumi, producendo nuove forme di occupazione materiali ed immateriali.

Il risultato è stato che il numero di ore lavorative di ciascuno, anziché ridursi, è rimasto costante, mentre si è ridotto il numero di addetti alla fabbricazione delle merci, soppiantati da macchine sempre più automatizzate ed efficienti, ed è aumentato quello degli addetti alla gestione delle merci stesse. Questo ha comportato la marginalizzazione della "classe operaia" di cui si parla nell’articolo, ma non è l’unico effetto avvertibile.

L’abbondanza di materie prime e merci ha prodotto anche una crisi nelle forze politiche ispirate ad ideali di cooperazione, storicamente le sinistre. Al giorno d’oggi solo una piccola parte della società è impegnata in attività faticose, pericolose e per cui sono richiesti lavoro di squadra e solidarietà, ed al contrario tantissimi svolgono mansioni d’ufficio, per le quali la competizione è un fatto scontato, quotidiano. Ecco come si realizza il paradosso di un mondo ricchissimo eppure sempre più avido ed egoista.

Ma c’è di peggio, la marginalizzazione degli operai in Italia non potrebbe esistere senza la delocalizzazione delle produzioni nei paesi poveri, dove milioni di persone lavorano dalla mattina alla sera in condizioni disperate, rovinandosi la salute, per salari da fame. Nessun confronto è possibile, ed anche l’operaio italiano più sfruttato e "di sinistra" deve rendersi conto che, se c’è ancora un "proletariato" al mondo, ormai non abita più qui.

Le idee egualitariste delle sinistre, oltreché fiaccate da errori ciclopici perpetrati per decenni (in testa i regimi dittatoriali dell’est europeo), si ritrovano ora a dover fronteggiare un mondo completamente diverso da quello in cui furono formulate, un mondo che erige barriere linguistiche e comunicative insormontabili non già tra "classi" che vivono gomito a gomito, ma tra interi continenti, e dove lo sfruttamento viene fatto valere per mezzo di eserciti mercenari.

Riuscirà l’umanità a trovare la forza e la volontà per cambiare tutto questo, prima che il mondo anneghi in un’ennesima carneficina globale? Mi sforzo ancora di sperarlo, ma non mi faccio troppe illusioni.

Roma mortale

Mörderisches RomMörderisches Rom, di Manfred Poser, è un romanzo giallo ambientato a Roma che, se potessi, inizierei a leggere da subito. Il motivo per cui ne sono impedito non è tanto la difficoltà a procurarmelo, dato che da sabato scorso ne possiedo una copia, quanto il fatto che è scritto in tedesco, lingua che non conosco. Ciò che lo rende, per me, tanto interessante è il fatto di comparire tra i vari personaggi della vicenda narrata.

L’autore, Manfred, ha infatti vissuto a Roma per diversi anni e, da buon appassionato di bicicletta, nell’arco di tempo necessario alla stesura del romanzo ha partecipato alle escursioni ed alle vicende umane dell’associazione Ruotalibera-Fiab (di cui il sottoscritto era, all’epoca, presidente), decidendo di trasporle nella cornice che fa da contorno alla vicenda narrata. Così, nel romanzo, io divento "Mario", presidente dell’associazione "Tuttinbici" di Roma, ed altri personaggi frequentati dal protagonista sono variamente ispirati a persone reali.

Come ci si sente a diventare un "personaggio"? Direi che è abbastanza curioso rendersi conto di appartenere, o di aver appartenuto, ad un microcosmo di fatti, persone ed eventi sufficientemente "non banali" da accendere la fantasia di uno scrittore, e tali da renderci meritevoli di rappresentazione. Senza rendercene conto, vivendo, agendo, sognando, siamo entrati a far parte della "narrazione del mondo", abbiamo lasciato una piccola traccia su pagine di carta stampata. Lentamente entreremo ospiti nelle letture, e forse nei cuori, di persone che non conosceremo mai.

È importante tutto ciò? Non so, magari no. Però non mi dispiace. Nel frattempo continuo a sperare che il libro di Manfred sia, prima o poi, tradotto in italiano… ma in caso contrario mi accontenterei anche dell’inglese!

Ogni impedimento è giovamento…

Ho rubato una delle frasi preferite del mio amico Elio per dare un titolo a questo post. Come mai? Il fatto è che sto proseguendo nella lettura di “Intelligenza Sociale” di Daniel Goleman, e mi sono trovato di fronte ad un apparente paradosso.

Detto in breve, negli attuali capitoli Goleman elenca le evidenze medico/scientifiche che legano il nostro benessere individuale all’avere relazioni affettive stabili ed appaganti. Nulla di nuovo, direte voi, è evidente che chi ha una solida rete affettiva sta meglio di chi vive in solitudine, o con partners che gli/le provocano malumore.

Invece qui la cosa è significativamente diversa: in presenza di situazioni emotivamente appaganti l’organismo produce sostanze che ne migliorano la salute complessiva, il sistema immunitario reagisce più prontamente, insomma ci ammaliamo meno e guariamo più in fretta. Al contrario, quando viviamo situazioni di stress accade l’opposto, liberiamo tossine che ci danneggiano la salute complessiva.

Questo produce una situazione apparentemente paradossale, poiché in assenza di un tale meccanismo il nostro cervello potrebbe benissimo liberare “sempre” sostanze che ci aiutano a star bene ed a guarire, e cosa c’è di meglio che star bene? Eppure dobbiamo, con tutta evidenza, accettare che questa condizione “svantaggiosa” è funzionale alla nostra sopravvivenza, dal momento che la conserviamo come specie.

Dov’è il nesso? Abbiamo avuto milioni di anni per far evolvere un metabolismo che fosse funzionale alla nostra sopravvivenza, e invece ci ritroviamo dentro un meccanismo che pare “sabotarci” dall’interno se non riusciamo ad intessere relazioni interpersonali ed affettive solide ed appaganti.

A questo punto del libro Goleman non ha ancora affrontato la questione, ma nel frattempo io mi sono fatto un’idea, per assurda che possa sembrare: anche un sistema apparentemente nocivo, come quello che libera tossine in caso di stress, deve avere una sua precisa, positiva, valenza evolutiva. Già, ma quale?

Ho immaginato due gruppi umani, uno soggetto a questo meccanismo e l’altro no. In cosa si differenziano? Il primo tenderà dopo un po’, per necessità, a produrre un gruppo compatto, una tribù, in cui i componenti hanno legami affettivi forti, l’altro non ne avrà bisogno, ed i suoi componenti vivranno altrettanto bene da soli. Questa è la differenza chiave.

Il gruppo con legami affettivi forti è evolutivamente vincente rispetto a quello con individui maggiormente indipendenti. Anche se i suoi componenti, presi singolarmente, saranno più deboli e fragili di quelli dell’altro gruppo, il fatto che siano legati emotivamente tra loro li rende collettivamente più forti, aumenta le probabilità di sopravvivenza sia dei singoli individui che dell’intero gruppo.

Come scriveva Shakespeare, “ci sono più cose in cielo e in terra che nella nostra fantasia”: ecco che una debolezza individuale diventa chiave di successo per l’intera specie. C’è davvero di che riflettere. A cominciare da quanto ci penalizzi come individui, in termini di salute, il tipo di società che si è prodotta negli ultimi due secoli in seguito alla rivoluzione industriale.

Conto alla rovescia

Uno dei tanti motivi che mi hanno condotto a Pianello nei giorni tra il capodanno e l’epifania era il concerto previsto per la sera del 4 gennaio al teatro comunale di Cagli, la serata di tributo a Fabrizio de André proposta da una band che risponde al nome di “Conto alla Rovescia”. Se questo nome non vi dice nulla non c’è da preoccuparsi, il motivo di fondamentale interesse, per me, è che vi suonano due miei cugini e diversi altri amici di sempre.

La storia potrebbe essere quella di mille altre piccole band di provincia, prima l’adolescenza passata a strimpellare chitarre negli scantinati, quindi il momento della scelta di strumenti e ruoli: chitarra solista, basso, batteria; poi gli anni della maturità, il lavoro, i figli, gli impegni, ma sempre con quella voglia di suonare che sta lì acquattata.

Ora, dopo aver suonicchiato per diletto per più di vent’anni, dopo concerti alle sagre del paese (Pianello è celebre per la “Sagra della Lumaca”) o sui palchetti delle “Feste dell’Unità”, è finalmente venuto il momento della verità: per la prima volta un vero teatro (offerto dal Comune), ed un vero pubblico pagante. Un pubblico “amico”, ovviamente, ma la differenza, sul piano emotivo, non è poi tanta.

Al di là degli affetti e della simpatia è stato davvero un bel concerto, con un gruppo di base affiatato e “session men” di prim’ordine: fisarmonica, sax e violinista in testa. Ottima musica e decisamente ben eseguita, il che mi ha spinto ad una prima riflessione molto grossolana.

Il fatto è che abbiamo tutti un po’ perso l’abitudine ad ascoltare concerti dal vivo, da un lato per i costi ormai esorbitanti, dall’altro per il livello qualitativo medio delle “novità” non sempre entusiasmante. L’aumentata qualità e diffusione degli impianti di riproduzione (dall’Hi-Fi casalingo all’iPod) fa il resto. E tuttavia ci sono dei “classici” anche nella musica pop contemporanea che meriterebbero una seconda chance.

Riascoltare dal vivo, da una “cover band”, brani del concerto di De André con la PFM è ancora oggi, a trent’anni di distanza dall’uscita dell’album, emozionante. È grande musica, e se ben suonata arriva dritta al cuore. E l’emozione dell’esecuzione dal vivo è ben altra cosa anche rispetto al più perfetto degli impianti Hi-Fi, pur con tutte le imprecisioni tecniche del caso.

In fondo, pensavo, non è poi concettualmente troppo diverso dall’ascoltare un’orchestra classica che esegue una sinfonia o un concerto. A modo loro anche i Wiener Philharmoniker non sono altro che una “cover band”, no?