Da appassionato ciclo-escursionista di lunga data, e con una spiccata tendenza ad affezionarmi agli oggetti ed alle memorie che portano con sé, finisco col ritrovarmi sul groppone biciclette ‘d’annata’, che qualcuno potrebbe addirittura considerare vetuste. Quella di cui scriverò oggi è una bianchi XC-311, fabbricata nella seconda metà degli anni ‘90, ovvero in circolazione da un quarto di secolo.
Passato
La Bianchi ‘gialla’ entra a far parte della mia scuderia fra il ‘97 e il ‘98, già usata e ‘vissuta’, con una interessante (per l’epoca) forcella ammortizzata ad elastomeri al posto dell’originale forcella rigida. È la mia seconda mountain-bike e rimane la bici ‘top’ per un altro paio d’anni o giù di lì, fino all’arrivo della prima biammortizzata [1]. In seguito al declassamento, la Bianchi diventa la mia bici da viaggio [2], di conseguenza portapacchi e cavalletto entrano a farne parte in pianta stabile (il cavalletto è temporaneamente smontato, ma pronto a tornare al suo posto).
La bici subisce, nel corso degli anni, una varietà di rimaneggiamenti. Il primo e più importante riguarda un ulteriore cambio di forcella [3]. Selle diverse vanno e vengono, non di rado prese già usate; gli originali pedali a gabbiette vengono sostituiti prima da una coppia di SPD, quindi dagli universali ‘flat’; il cambio ‘grip-shift’ cede il passo alle levette push-pull, mantenendo le originarie sette velocità; diverse impugnature si avvicendano negli anni. Da ultimo finisco col cambiare anche manubrio e ‘pipetta’ riciclandoli da altre bici, per correggere l’impostazione originaria ed ottenere un miglior controllo su terreni sconnessi.
Negli ultimi anni, trovandomi con un parco bici ridondante, la vecchia Bianchi è finita in prestito ad amici, che l’hanno utilizzata per viaggi e passeggiate. Da pochi mesi l’ho recuperata, con l’intenzione di lasciarla in pianta stabile al paesello nelle Marche [4]. Risalendoci in sella, ho realizzato come l’esperienza con diverse altre biciclette abbia finito col modificare il mio modo di pedalare al punto da richiedere una ulteriore revisione dell’assetto.
Presente
Nel decidere di ristrutturare una bicicletta occorre partire da un’idea abbastanza precisa di come la si utilizzerà, e di cosa sarà possibile aspettarsi. In questo caso, l’effettiva anzianità del veicolo non consentirà le prestazioni cui è abituato un utente della seconda decade del terzo millennio. Nel mio parco bici, tuttavia, restava scoperta una specifica nicchia, quella della bici tuttofare, pronta a servire per esigenze diverse, per l’utilizzo quotidiano casa-ufficio e non da ultimo finalizzata ai lunghi viaggi (attività, ahimè, scarsamente praticata, in tempi recenti…).
Il secondo punto critico riguarda l’ottimizzazione del mezzo, e la scelta delle parti da sostituire. Trovandomi ormai da un po’ perfettamente a mio agio con ‘Blue Raptor’, la bici riemersa dal recupero degli avanzi della mia prima biammortizzata su un vecchio/nuovo telaio [5] e rivelatasi inaspettatamente performante, ho cercato per quanto possibile di riprodurre sulla vecchia Bianchi un assetto analogo. Ciò ha implicato lo scendere a patti con la concezione arcaica della geometria del telaio.
Le bici moderne nascono per ospitare ruote più grandi (27,5” e 29”) forcelle ammortizzate dalla corsa generosa, che da sole producono il sollevamento della piega manubrio e una significativa modifica dell’assetto di guida. Questa trasformazione ha quindi portato allo sviluppo di geometrie ‘sloping’, nelle quali il tubo orizzontale risulta fortemente ribassato per consentire di scendere al volo, ove necessario.
Questa Bianchi del secolo scorso emerge in una fase ancora immatura nella transizione dai telai da corsa a quelli da fuoristrada, nasce per muoversi su strade bianche più che sui sentieri ‘tecnici’ e precede di molto l’avvento delle geometrie sloping. Di conseguenza non consente di montare una forcella dalla corsa superiore ai 60~80mm, pena un’inclinazione ingestibile della forcella stessa, potenzialmente distruttiva per il telaio stesso. Oltre a ciò, il rialzo della serie sterzo per accogliere la corsa di una forcella ammortizzata induce un ulteriore sollevamento del tubo orizzontale, già alto di suo.
Quello che è molto cambiato, dalle MTB anni ‘90 ad oggi, è il tipo di utilizzo. Appena nate, le bici da fuoristrada venivano principalmente usate per ‘correre sugli sterrati’, un adattamento delle discipline sportive stradali alle strade bianche. Le prime modifiche consistettero in ruote più larghe, sistemi frenanti diversi (obbligati dai copertoni maggiorati), manubri dritti e comandi del cambio al manubrio; mentre le geometrie dei telai, almeno all’inizio, non differivano più di tanto da quelle delle bici da strada.
Col tempo il range di utilizzo di queste biciclette si è progressivamente esteso ai sentieri di montagna, caratterizzati da una maggior difficoltà tecnica, e la forma delle biciclette si è adeguata alle nuove esigenze: i manubri sono arretrati più in prossimità dell’asse di sterzo, per ottenere un miglior controllo sui passaggi tecnici, inoltre sono diventati più larghi e sollevati, per meglio gestire la distribuzione dei pesi sulle discese ripide. Nel complesso, l’intero assetto delle bici attuali risulta meno orientato alla velocità nuda e cruda e più alle esigenze di controllo nei passaggi tecnici a bassa velocità.
Ho personalmente percorso questo trend evolutivo nella, purtroppo breve, stagione da freerider, realizzando la differenza essenziale di manovrabilità dei nuovi assetti. L’esperienza con la Santacruz Chameleon [6] mi ha definitivamente portato a preferire manubri larghi ed arretrati (l’esatto contrario di quanto predicavo negli anni ‘90), al punto da spingermi a replicare questo tipo di impostazione anche nella bici poi emersa dalle ceneri della Specialized [5].
Su questa bici, la sostituzione dell’originale forcella rigida con una ammortizzata (al momento anche questa ‘antica’ ed a corsa molto breve), ha comportato un’inevitabile alterazione dell’assetto originario, con diversi effetti. Il manubrio si è sollevato (fattore positivo, perché da tempo non sono più un fautore dell’assetto ‘corsaiolo’); il movimento centrale si è sollevato (fattore neutro: da un lato si rischia meno di sbattere su pietre sporgenti, dall’altro si obbliga la sella ad una posizione più rialzata) ed avanzato (fattore positivo, perché compensabile avanzando il sellino, col risultato di ottenere un telaio leggermente più ‘corto’ dell’originale).
Come risultato complessivo la bici, in origine già di taglia Large, risulta al termine della modifica lievemente più alta e leggermente accorciata in orizzontale. Una dimensione quasi ottimale per la mia altezza di 1,74m, corrispondente ad una taglia M/L (Medio/Large).
Per l’altezza del manubrio ho ritenuto necessario recuperare recuperare centimetri ancora mancanti, procedendo all’acquisto di una piega manubrio larga (700mm) e leggermente rialzata (+50mm), mentre per l’arretramento della stessa ho montato un nuovo attacco di soli 40mm di lunghezza, corredato di spessori per sollevare il tutto fin dove possibile. A questi ritocchi geometrici si sono aggiunti una coppia di copertoni nuovi da cross-country (a tassellatura leggera ma di larghezza abbondante: 2,20”) e la sostituzione delle impugnature, ricavando una bici equilibrata e ben guidabile, non troppo lontana dai miei standard abituali.
Altre limitazioni restano, per caratteristiche immodificabili o semplicemente perché non ritengo valga la pena di intervenire. I freni restano V-brakes (la bici nasceva coi cantilever) perché sul telaio mancano gli attacchi per i freni a disco. Potrei montarne uno singolo anteriormente, ma non mi piace l’idea di un mix. Il cambio posteriore rimane a sette velocità, perlomeno finché non si renderà necessaria, in futuro, la sostituzione delle leve.
Update
(Gennaio 2022)
Nel corso dell’autunno ho montato un nuovo sellino e rimesso mano alla coppia di pedali flat, ripassando le filettature e sostituendo ai perni originali dei nuovi grani filettati. Segni e graffi restano, ma i pedali sono ora, in termini di funzionalità, meglio che da nuovi. Le impugnature in gomma, dopo qualche mese di utilizzo nel percorso casa-ufficio (12+12km, con parecchi tratti di sterrato), sono state sostituite con manopole Ritchey in neoprene. Non ho resistito alla tentazione di rimontarci su un bauletto ‘minimal’ a parallelepipedo, una concessione al gusto vintage ed a mode ormai passate
Recuperata infine la forcella ad aria che equipaggiava la bici di Emanuela (una Marzocchi Bomber dei primi anni ‘2000, smontata in seguito alla crepatura del relativo telaio), ho provveduto alla sostituzione. Oltre ad un modesto miglioramento della performance, anche l’equilibrio cromatico della bici ne ha giovato: il blu della forcella riprende quello delle scritte sul telaio. A breve conto di sostituire anche le leve dei freni, più per un fatto estetico che per necessità funzionali. L’aspetto provvisorio è il seguente.
Conclusioni
Ha senso perder tempo ad aggiornare una vecchia bicicletta? Se le intenzioni sono di usarla, se vi divertite a fare gli interventi in prima persona e se non avrete pretese troppo spinte, la risposta è sì. Non otterrete una bicicletta strepitosa e performante come quelle all’ultimo grido, ma recupererete un attrezzo solido ed affidabile, ancora capace di accompagnarvi in giro per il mondo. Una bici vissuta, che non dovrete preoccuparvi troppo se finisce un po’ maltrattata, se si prende un acquazzone, o se si aggiunge un nuovo graffio ai mille che avrà già.
Importante è essere in grado di stabilire se l’intervento potrà restituirvi una bici comoda, ergonomica, affidabile e godibile. Per quel che mi riguarda sono soddisfatto del risultato. Testata per diversi mesi sul percorso casa-ufficio, un misto asfalto-sterrato di oltre una ventina di chilometri complessivi, la bici si è dimostrata all’altezza delle aspettative. Rispetto alle altre che ho rimane sì un po’ rigida, ma è terribilmente comoda e trasmette una piacevole sensazione di solidità.
E, d’altro canto, quando passi un quarto di secolo a mettere a punto una bicicletta, correggendo e collaudando per mesi ed anni posizioni e geometrie, il minimo che puoi aspettarti è che la bici ti calzi come un guanto. E questa bici ormai è così: ci salgo sopra e me la dimentico, niente è fuori posto, nemmeno di un millimetro. Il processo di reciproco adattamento ha finito col produrre un ibrido uomo-macchina perfettamente affiatato.
Alla fine, dopo tutte queste trasformazioni, la bici si è guadagnata un nuovo nome. Dopo aver rischiato di chiamarsi ‘Accanimento Terapeutico’, la scelta è inevitabilmente caduta su Patchwork!
[2] – Girando il Mondo con la mia Bianchina (Facebook gallery)