De-vintage: aggiornare una bici del passato

Da appassionato ciclo-escursionista di lunga data, e con una spiccata tendenza ad affezionarmi agli oggetti ed alle memorie che portano con sé, finisco col ritrovarmi sul groppone biciclette ‘d’annata’, che qualcuno potrebbe addirittura considerare vetuste. Quella di cui scriverò oggi è una bianchi XC-311, fabbricata nella seconda metà degli anni ‘90, ovvero in circolazione da un quarto di secolo.

Passato

La Bianchi ‘gialla’ entra a far parte della mia scuderia fra il ‘97 e il ‘98, già usata e ‘vissuta’, con una interessante (per l’epoca) forcella ammortizzata ad elastomeri al posto dell’originale forcella rigida. È la mia seconda mountain-bike e rimane la bici ‘top’ per un altro paio d’anni o giù di lì, fino all’arrivo della prima biammortizzata [1]. In seguito al declassamento, la Bianchi diventa la mia bici da viaggio [2], di conseguenza portapacchi e cavalletto entrano a farne parte in pianta stabile (il cavalletto è temporaneamente smontato, ma pronto a tornare al suo posto).

La bici subisce, nel corso degli anni, una varietà di rimaneggiamenti. Il primo e più importante riguarda un ulteriore cambio di forcella [3]. Selle diverse vanno e vengono, non di rado prese già usate; gli originali pedali a gabbiette vengono sostituiti prima da una coppia di SPD, quindi dagli universali ‘flat’; il cambio ‘grip-shift’ cede il passo alle levette push-pull, mantenendo le originarie sette velocità; diverse impugnature si avvicendano negli anni. Da ultimo finisco col cambiare anche manubrio e ‘pipetta’ riciclandoli da altre bici, per correggere l’impostazione originaria ed ottenere un miglior controllo su terreni sconnessi.

Negli ultimi anni, trovandomi con un parco bici ridondante, la vecchia Bianchi è finita in prestito ad amici, che l’hanno utilizzata per viaggi e passeggiate. Da pochi mesi l’ho recuperata, con l’intenzione di lasciarla in pianta stabile al paesello nelle Marche [4]. Risalendoci in sella, ho realizzato come l’esperienza con diverse altre biciclette abbia finito col modificare il mio modo di pedalare al punto da richiedere una ulteriore revisione dell’assetto.

Presente

Nel decidere di ristrutturare una bicicletta occorre partire da un’idea abbastanza precisa di come la si utilizzerà, e di cosa sarà possibile aspettarsi. In questo caso, l’effettiva anzianità del veicolo non consentirà le prestazioni cui è abituato un utente della seconda decade del terzo millennio. Nel mio parco bici, tuttavia, restava scoperta una specifica nicchia, quella della bici tuttofare, pronta a servire per esigenze diverse, per l’utilizzo quotidiano casa-ufficio e non da ultimo finalizzata ai lunghi viaggi (attività, ahimè, scarsamente praticata, in tempi recenti…).

Il secondo punto critico riguarda l’ottimizzazione del mezzo, e la scelta delle parti da sostituire. Trovandomi ormai da un po’ perfettamente a mio agio con ‘Blue Raptor’, la bici riemersa dal recupero degli avanzi della mia prima biammortizzata su un vecchio/nuovo telaio [5] e rivelatasi inaspettatamente performante, ho cercato per quanto possibile di riprodurre sulla vecchia Bianchi un assetto analogo. Ciò ha implicato lo scendere a patti con la concezione arcaica della geometria del telaio.

Le bici moderne nascono per ospitare ruote più grandi (27,5” e 29”) forcelle ammortizzate dalla corsa generosa, che da sole producono il sollevamento della piega manubrio e una significativa modifica dell’assetto di guida. Questa trasformazione ha quindi portato allo sviluppo di geometrie ‘sloping’, nelle quali il tubo orizzontale risulta fortemente ribassato per consentire di scendere al volo, ove necessario.

Questa Bianchi del secolo scorso emerge in una fase ancora immatura nella transizione dai telai da corsa a quelli da fuoristrada, nasce per muoversi su strade bianche più che sui sentieri ‘tecnici’ e precede di molto l’avvento delle geometrie sloping. Di conseguenza non consente di montare una forcella dalla corsa superiore ai 60~80mm, pena un’inclinazione ingestibile della forcella stessa, potenzialmente distruttiva per il telaio stesso. Oltre a ciò, il rialzo della serie sterzo per accogliere la corsa di una forcella ammortizzata induce un ulteriore sollevamento del tubo orizzontale, già alto di suo.

Quello che è molto cambiato, dalle MTB anni ‘90 ad oggi, è il tipo di utilizzo. Appena nate, le bici da fuoristrada venivano principalmente usate per ‘correre sugli sterrati’, un adattamento delle discipline sportive stradali alle strade bianche. Le prime modifiche consistettero in ruote più larghe, sistemi frenanti diversi (obbligati dai copertoni maggiorati), manubri dritti e comandi del cambio al manubrio; mentre le geometrie dei telai, almeno all’inizio, non differivano più di tanto da quelle delle bici da strada.

Col tempo il range di utilizzo di queste biciclette si è progressivamente esteso ai sentieri di montagna, caratterizzati da una maggior difficoltà tecnica, e la forma delle biciclette si è adeguata alle nuove esigenze: i manubri sono arretrati più in prossimità dell’asse di sterzo, per ottenere un miglior controllo sui passaggi tecnici, inoltre sono diventati più larghi e sollevati, per meglio gestire la distribuzione dei pesi sulle discese ripide. Nel complesso, l’intero assetto delle bici attuali risulta meno orientato alla velocità nuda e cruda e più alle esigenze di controllo nei passaggi tecnici a bassa velocità.

Ho personalmente percorso questo trend evolutivo nella, purtroppo breve, stagione da freerider, realizzando la differenza essenziale di manovrabilità dei nuovi assetti. L’esperienza con la Santacruz Chameleon [6] mi ha definitivamente portato a preferire manubri larghi ed arretrati (l’esatto contrario di quanto predicavo negli anni ‘90), al punto da spingermi a replicare questo tipo di impostazione anche nella bici poi emersa dalle ceneri della Specialized [5].

Su questa bici, la sostituzione dell’originale forcella rigida con una ammortizzata (al momento anche questa ‘antica’ ed a corsa molto breve), ha comportato un’inevitabile alterazione dell’assetto originario, con diversi effetti. Il manubrio si è sollevato (fattore positivo, perché da tempo non sono più un fautore dell’assetto ‘corsaiolo’); il movimento centrale si è sollevato (fattore neutro: da un lato si rischia meno di sbattere su pietre sporgenti, dall’altro si obbliga la sella ad una posizione più rialzata) ed avanzato (fattore positivo, perché compensabile avanzando il sellino, col risultato di ottenere un telaio leggermente più ‘corto’ dell’originale).

Come risultato complessivo la bici, in origine già di taglia Large, risulta al termine della modifica lievemente più alta e leggermente accorciata in orizzontale. Una dimensione quasi ottimale per la mia altezza di 1,74m, corrispondente ad una taglia M/L (Medio/Large).

Per l’altezza del manubrio ho ritenuto necessario recuperare recuperare centimetri ancora mancanti, procedendo all’acquisto di una piega manubrio larga (700mm) e leggermente rialzata (+50mm), mentre per l’arretramento della stessa ho montato un nuovo attacco di soli 40mm di lunghezza, corredato di spessori per sollevare il tutto fin dove possibile. A questi ritocchi geometrici si sono aggiunti una coppia di copertoni nuovi da cross-country (a tassellatura leggera ma di larghezza abbondante: 2,20”) e la sostituzione delle impugnature, ricavando una bici equilibrata e ben guidabile, non troppo lontana dai miei standard abituali.

Altre limitazioni restano, per caratteristiche immodificabili o semplicemente perché non ritengo valga la pena di intervenire. I freni restano V-brakes (la bici nasceva coi cantilever) perché sul telaio mancano gli attacchi per i freni a disco. Potrei montarne uno singolo anteriormente, ma non mi piace l’idea di un mix. Il cambio posteriore rimane a sette velocità, perlomeno finché non si renderà necessaria, in futuro, la sostituzione delle leve.

Update

(Gennaio 2022)
Nel corso dell’autunno ho montato un nuovo sellino e rimesso mano alla coppia di pedali flat, ripassando le filettature e sostituendo ai perni originali dei nuovi grani filettati. Segni e graffi restano, ma i pedali sono ora, in termini di funzionalità, meglio che da nuovi. Le impugnature in gomma, dopo qualche mese di utilizzo nel percorso casa-ufficio (12+12km, con parecchi tratti di sterrato), sono state sostituite con manopole Ritchey in neoprene. Non ho resistito alla tentazione di rimontarci su un bauletto ‘minimal’ a parallelepipedo, una concessione al gusto vintage ed a mode ormai passate

Recuperata infine la forcella ad aria che equipaggiava la bici di Emanuela (una Marzocchi Bomber dei primi anni ‘2000, smontata in seguito alla crepatura del relativo telaio), ho provveduto alla sostituzione. Oltre ad un modesto miglioramento della performance, anche l’equilibrio cromatico della bici ne ha giovato: il blu della forcella riprende quello delle scritte sul telaio. A breve conto di sostituire anche le leve dei freni, più per un fatto estetico che per necessità funzionali. L’aspetto provvisorio è il seguente.

Conclusioni

Ha senso perder tempo ad aggiornare una vecchia bicicletta? Se le intenzioni sono di usarla, se vi divertite a fare gli interventi in prima persona e se non avrete pretese troppo spinte, la risposta è sì. Non otterrete una bicicletta strepitosa e performante come quelle all’ultimo grido, ma recupererete un attrezzo solido ed affidabile, ancora capace di accompagnarvi in giro per il mondo. Una bici vissuta, che non dovrete preoccuparvi troppo se finisce un po’ maltrattata, se si prende un acquazzone, o se si aggiunge un nuovo graffio ai mille che avrà già.

Importante è essere in grado di stabilire se l’intervento potrà restituirvi una bici comoda, ergonomica, affidabile e godibile. Per quel che mi riguarda sono soddisfatto del risultato. Testata per diversi mesi sul percorso casa-ufficio, un misto asfalto-sterrato di oltre una ventina di chilometri complessivi, la bici si è dimostrata all’altezza delle aspettative. Rispetto alle altre che ho rimane sì un po’ rigida, ma è terribilmente comoda e trasmette una piacevole sensazione di solidità.

E, d’altro canto, quando passi un quarto di secolo a mettere a punto una bicicletta, correggendo e collaudando per mesi ed anni posizioni e geometrie, il minimo che puoi aspettarti è che la bici ti calzi come un guanto. E questa bici ormai è così: ci salgo sopra e me la dimentico, niente è fuori posto, nemmeno di un millimetro. Il processo di reciproco adattamento ha finito col produrre un ibrido uomo-macchina perfettamente affiatato.

Alla fine, dopo tutte queste trasformazioni, la bici si è guadagnata un nuovo nome. Dopo aver rischiato di chiamarsi ‘Accanimento Terapeutico’, la scelta è inevitabilmente caduta su Patchwork!


[1] – Velociraptor

[2] – Girando il Mondo con la mia Bianchina (Facebook gallery)

[3] – Una bionda disibridata

[4] – A Pianello

[5] – Un vintage inatteso

[6] – Orange is the new Black

Una vacanza bici+mare

Quest’estate, tra covid ed altre beghe, io e mia moglie abbiamo optato per una vacanza in relativo relax, riuscendo a conciliare la sua passione per il mare con la mia per la bicicletta. Non potendo spostarci all’estero, dove questa forma di turismo è ben più sviluppata, e soprattutto non volendo imbarcarci in un viaggio itinerante in un paese, il nostro, che non ha attenzione per la sicurezza dei viaggiatori su due ruote, abbiamo cercato una destinazione ‘bike-friendly’. La scelta è infine caduta sulla Via Verde della Costa dei Trabocchi. Non essendo la ciclovia ancora completata, ragionando sui segmenti già operativi abbiamo stabilito di cercare alloggio in un punto intermedio del tratto fruibile più a nord, quello tra Ortona e Fossacesia, in modo da sfruttare il tracciato ciclabile per spostarci ogni giorno in una spiaggia diversa. La scelta è caduta su Marina di San Vito Chietino, dove abbiamo affittato un appartamento con affaccio sul mare a breve distanza dalla ciclovia.

La ciclovia
Il percorso si snoda sul sedime dismesso della ferrovia Ortona-Vasto, il cui tracciato, a causa della continua erosione operata dal mare, è stato spostato più nell’entroterra. Dopo la rimozione dei binari si è scelto di destinare il sedime dismesso a pista ciclabile, realizzando un tappeto di asfalto e ristrutturando le gallerie. Sebbene il lavoro sia ancora incompleto e la ciclovia non interamente percorribile, allo stato attuale il tracciato risulta ugualmente molto fruibile, consentendo uno sfruttamento ottimale di un lungo tratto di costa prima reso difficilmente raggiungibile proprio dalla presenza della linea ferroviaria. Dal punto di vista ciclistico, pedalare in sicurezza a pochi metri dal mare, con gli affacci sulle spiaggette e sui trabocchi che si susseguono senza soluzione di continuità, rappresenta un’immersione nella bellezza difficilmente descrivibile. L’estrema regolarità del percorso, unita all’assenza di dislivelli tipica dei tracciati ferroviari, consente di chiacchierare amabilmente mentre si percorre la pista alla ricerca della spiaggia ideale. Unica nota dolente l’assenza di illuminazione delle gallerie, prevedibile considerando il fatto che non fossero ancora aperte al pubblico transito.

Situazioni problematiche
A questo riguardo va detto che nei primi giorni della nostra vacanza abbiamo trovato diverse gallerie sbarrate da recinzioni… ostacoli che sono stati poi rimossi, apparentemente, ‘a furor di popolo’. Fatto prevedibile, dato che la domanda di mobilità ciclistica e pedonale, sulla tratta, si è dimostrata estremamente consistente. Gallerie che, nei primi giorni, risultavano sbarrate o di difficile accesso, a fine settimana venivano serenamente percorse da decine di bagnanti che non hanno ritenuto di dover attendere il collaudo di agibilità. Il tratto più affollato, e di gente a piedi più che di biciclette, è risultato proprio quello in prossimità del paese dove alloggiavamo. Mentre a Fossacesia la pista passa più lontano dal mare, ed il transito dei villeggianti si svolge sulle strade a ridosso della spiaggia, a Marina di San Vito i bagnanti provenienti dal borgo affollano il tracciato percorrendo a piedi la ciclovia anche per lunghi tratti. In prossimità di Ortona il rifacimento del fondo asfaltato non era ancora stato completato. Oltre a questo, la galleria detta dell’Acquabella, molto più lunga delle altre e con una curva a metà che impedisce di sfruttare la luce in entrata dal lato opposto, ha richiesto l’impiego di lampade per il transito (cosa che non ha ostacolato più di tanto il significativo viavai di ciclisti e pedoni in ogni occasione in cui l’abbiamo percorsa). Ad Ortona il sedime si riduce ad una pietraia e termina sotto uno svincolo stradale. Ho scoperto solo in seguito che il tracciato, ben sistemato, prosegue ancora oltre, ma le due tratte non sono al momento collegate. Dal lato opposto, oltre Fossacesia la ciclovia prosegue asfaltata ma in mezzo al verde, lontano dalla riva, fino a Torino di Sangro, poi per alcune centinaia di metri il sedime è di nuovo una pietraia sconnessa, fino al punto in cui è totalmente assente, franato a causa dell’aggressione dei marosi. Più oltre la ciclovia prosegue ancora fino a Vasto, ma la distanza da San Vito e l’impossibilità di riallacciarsi al tracciato senza percorrere tratti di strada fortemente trafficati ci hanno dissuaso dall’esplorazione.

Il mare
La costa abruzzese, almeno nel tratto da noi esplorato, è risultata estremamente bella e pulita, oltreché ricca di pesci a farci compagnia nelle sessioni di snorkeling. Le spiagge sono quasi tutte a ciottoli, problema aggirabile con le apposite calzature ‘da scoglio’. Le uniche spiagge sabbiose le abbiamo trovate ad Ortona e Fossacesia. In alcuni punti, sugli scogli e nel fondale, abbiamo riscontrato la presenza di anemoni, che abbiamo avuto cura di evitare di toccare. In una singola nuotata ci ha fatto compagnia una medusa solitaria, che è stata molto bella da vedere… a debita distanza.

Dotazione logistica
Sulle biciclette avevamo una coppia di borse da viaggio per trasportare il necessario: asciugamani, pranzo al sacco, maschere da sub ed una tendina aperta che ha degnamente sostituito il tradizionale ombrellone (potendo oltretutto richiudersi in un sacchetto di dimensioni poco superiori a quelle di un avambraccio), oltre alle suddette calzature da scoglio e ad una piccola telecamera con custodia impermeabile per le riprese subacquee.

Conclusioni
Sicuramente una proposta di vacanza adatta alle esigenze di coppie e famiglie cui piaccia muoversi in bicicletta, senza doversi sobbarcare l’impegno di un vero cicloviaggio. La presenza di una abbondante offerta ristorativa in loco, di ottima qualità ed a prezzi contenuti, ci ha consentito di fare (quasi) del tutto a meno dell’automobile, la cui unica funzione è stata di portarci a destinazione e riportarci a casa, restando poi parcheggiata ed inutilizzata per l’intera settimana.

L’approccio dell’idraulico

Un’idea ha cominciato a prender forma nella mia testa nei giorni scorsi, e non mi piace affatto. Su piccola scala riguarda l’approccio alla ciclabilità della mia città, su scala più ampia riguarda l’intera umanità e la maniera che ha di relazionarsi col proprio habitat.

Per cominciare a delineare il contesto nel quale questa idea si è sviluppata devo partire da un’esperienza di molti anni fa: il viaggio in bici in Albania del 2007. La cosa che più mi colpì di quell’esperienza fu l’enorme contrasto tra vecchio e nuovo, tra un passato di ristrettezze e povertà ed i simboli di un riscatto tanto a lungo desiderato: alberghi, ristoranti, automobili di lusso; ai nostri occhi esibizioni grossolane che stonavano con l’estrema povertà circostante.

“Che senso ha un albergo di lusso in un villaggio che non ha nemmeno una rete fognaria?”, mi domandavo con la ‘vision’ di un occidentale abituato a vivere un’organizzazione urbana dalle stratificazioni millenarie. Ancora meglio: “com’è possibile che non vedano una simile incongruenza?”. La risposta a questa domanda comincia finalmente a prender forma.

Il punto è che un’esperienza di privazione non ti rende in grado di cogliere la complessità di un diverso assetto culturale, politico e sociale. Tutto quello che ti è consentito percepire sono esibizioni di esteriorità: a New York l’italiano vede i grattacieli e pensa che siano quelli la differenza, ad Amsterdam vede le piste ciclabili, allo stesso modo in Italia gli albanesi vedevano i locali notturni e gli alberghi di lusso.

Non percependo (ci vorrebbero anni di studio intenso) la complessità sistemica che ha prodotto tali realtà, ognuno prova a rimetter mano al proprio contesto cercando di riprodurre l’esteriorità di ciò che viene percepito come ‘più evoluto’, con risultati spesso disastrosi. Semplicemente una diversa organizzazione politico sociale non è riproducibile in un contesto diverso, perché oltre agli elementi ‘fisici’ di contorno mancano la radici culturali che hanno prodotto quel diverso processo.

In assenza dell’intreccio di aspettative, volontà, consuetudini, forme mentis e percorsi culturali che hanno prodotto quell’unicum, irripetibile, la sua riproposizione tal quale in altri contesti sociali e culturali può produrre esiti opposti. L’introduzione di elementi culturalmente estranei non è facilmente metabolizzata, dando spesso luogo a crisi di rigetto. È questo, temo, il caso delle piste ciclabili a Roma.

L’attuale amministrazione cittadina ha deciso di investire massicciamente nello sviluppo della ciclabilità, cosa mai avvenuta con le precedenti amministrazioni. Purtroppo, mancando una comprensione complessiva dei meccanismi sociali, politici e culturali che hanno portato all’affermazione di tale forma di mobilità in altri contesti, manca anche l’opera di mediazione culturale in grado di renderla metabolizzabile ad una popolazione abituata ad un paradigma completamente opposto. Quelli che si stanno realizzando sono interventi che risultano incomprensibili ad una porzione significativa della popolazione.

Volendo fare un parallelo (le metafore sono una mia grande passione), è come se un idraulico provasse a realizzare nella propria casa, vecchia di un secolo, le soluzioni viste di sfuggita in un edificio moderno. Ovviamente partirebbe a realizzare gli interventi più esteriori, senza poter accedere ad informazioni che le mura del nuovo edificio celano: l’organizzazione dei cablaggi dei diversi servizi in primis, quindi una serie di piccole accortezze atte a rendere il tutto perfettamente funzionante.

Un’organizzazione complessiva che discende da una vision di tipo ingegneristico, che il nostro idraulico non possiede, e ancor meno possiede l’edificio su cui intende intervenire, non gli consentirà di realizzare gli interventi desiderati. Così rompendo il muro per realizzare le nuove sistemazioni troverà impedimenti non presenti nell’edificio specificamente progettato: colonne portanti, passaggi di cavi elettrici e del gas, pavimenti che non consentiranno le corrette pendenze… Di conseguenza l’acqua calda arriverà tiepida, gli scarichi non saranno efficaci e via elencando.

Questo è quello che rischia di accadere a Roma con le sistemazioni ciclabili, da molti percepite come una forzatura rispetto ad un preesistente stratificato e sedimentato in termini di usi e consuetudini, e rispetto ai quali nessun lavoro di trasformazione culturale è stato operato. Un approccio più da idraulici che da ingegneri.

Da parte mia voglio assumermi parte della responsabilità: un simile rischio sono stato in grado di intuirlo, ma non di formalizzarlo ed esplicitarlo in termini sufficientemente netti. Quello che sto provando a fare adesso, ora che i contorni della questione cominciano a delinearsi, andava probabilmente fatto anni fa, ma né io ne sono stato capace, né si è compresa tale necessità.

l punto, lo ribadisco, è che le sistemazioni ciclabili del Nord Europa sono solo la punta di un iceberg la cui massa complessiva giace, invisibile, sotto il filo dell’acqua. Per vedere il problema nella sua complessità bisogna essere in grado di ricostruire il mosaico che costituisce l’identità del popolo che le ha realizzate, la sua etica, le sue aspirazioni, la maniera in cui gli individui si relazionano gli uni agli altri, le scelte di vita, l’organizzazione del tempo pubblico e privato.

Posiamo copiare l’aspetto esteriore, possiamo sperare che il seme gettato metta radici, ma mancando il processo primario di costruzione del consenso, mancando la maturazione di un’identità culturale, nell’assenza di una consapevolezza complessiva rispetto al processo in essere, il rischio che quanto realizzato venga rigettato, disprezzato ed in seguito spazzato via, rimane alto.

Nomentana

(automobili parcheggiate sulla costruenda ciclabile Nomentana. La foto è presa da qui: https://www.facebook.com/groups/salvaiciclisti.roma/permalink/2288619584509580/)

Dove osano i Pierfuffi

A distanza di quasi dieci anni, su stimolo di un amico, mi sono ritrovato a percorrere un itinerario ‘storico’, e forse vale la pena di raccontarne le origini. Nel corso degli anni ho disegnato parecchi tracciati di raccordo su distanze dell’ordine del centinaio di chilometri tra stazioni ferroviarie appartenenti a linee diverse, e questo in particolare me lo ero quasi dimenticato. Solo dopo averlo rielaborato mi è tornato in mente di averlo già percorso in un passato non recente.

Nel lontano 2007, quando il mondo era giovane, mi ritrovavo a partecipare al blog collettivo Romapedala, in seguito travolto da ingloriosa fine e del quale ho potuto salvare, in extremis, solo una manciata di pagine. Sul blog si confrontavano le diverse anime del cicloattivismo romano, non senza qualche scintilla. In questa tenzone dialettica il sottoscritto rappresentava l’anima ludica-cicloturista, altri quella atletico-sportiva (senza finalità agonistiche). Una delle ‘pietre dello scandalo’ dell’epoca fu un post intitolato La grande sfida, tenzone immaginaria tra due differenti versioni del sottoscritto (Pierfranco vs. Pierfuffo) redatta con evidenti fini sarcastici.

pierfuffo

L’evento scatenante fu una pedalata sulla lunga distanza che, sebbene proposta con ampio preavviso, non aveva racimolato alcun partecipante. Infastidito dall’essere stato lasciato da solo elaborai il post mentalmente (divertendomi anche molto nel farlo) nell’arco della pedalata, ed arrivato a casa lo scrissi e pubblicai. L’accoglienza stizzita potete leggerla nei commenti al post linkato poco sopra.

Ripercorsa oggi, la tratta da Tagliacozzo a Passo Corese (paese che per incomprensibili motivi ospita la stazione di Fara Sabina – Montelibretti) risulta uno dei percorsi più belli e vari accessibili da Roma. L’austero paesaggio abruzzese visibile nel corso del primo svalico di Colli di Montebove cede il passo alle rigogliose sponde del Lago del Turano, coi suoi borghi antichi affacciati sulle acque del bacino artificiale, per poi essere sostituito dagli uliveti della Sabina dopo il secondo svalico verso Poggio Moiano, costeggia l’impressionante aggetto rupestre di Toffia per concludersi con la pigra planata verso la piana agricola che costeggia la via Salaria.

A farmi compagnia, questa volta, al posto di un immaginario Pierfuffo c’era Lapo, un terzo partecipante avendo perso il treno per l’imprevista lentezza della biglietteria elettronica. Abbiamo percorso insieme luoghi che conosco e frequento in bici da anni, e che hanno mantenuto inalterato nel tempo il proprio fascino.

L’inizio di un nuovo viaggio

Ci sono momenti, nella vita, in cui vieni messo di fronte alla mole di aspettative che le persone alle quali vuoi bene ripongono in te. La prima volta è successo il giorno del mio matrimonio, nel 2007. La seconda è oggi.

Accade che la neopresidente M5S del VII Municipio, Monica Lozzi, mi abbia chiesto di ricoprire l’incarico di assessore alla mobilità, e che io abbia accettato. Non che avessi molta scelta, in realtà, dopo aver scassato le balle al mondo per decenni sui temi della ciclabilità, della vivibilità dei quartieri, della mobilità ‘dolce’… nel momento in cui mi viene offerta la possibilità di provare a mettere in pratica quanto incessantemente predicato, non posso rifiutare la sfida.

La conferma dell’incarico rimaneva vincolata ai risultati del ballottaggio, rivelati a notte fonda, poi stamattina il ‘leak’ del quotidiano La Repubblica ha reso noto al mondo cicloattivista romano l’inattesa novità. Il risultato è che sono stato letteralmente sommerso, via ‘social’, da auguri, congratulazioni, esortazioni e commenti entusiastici, a decine, a centinaia…

Come sempre sottovaluto la sfera emozionale, il risultato è che ho passato la mattinata e buona parte del pomeriggio a rispondere, ringraziare, fare i debiti scongiuri, in uno stato d’animo diviso esattamente a metà tra l’euforia ed il panico. Un conto è ragionare di portare avanti un serio lavoro per la ciclabilità, un altro toccare con mano quante aspettative le persone che da sempre ti sono vicine riporranno in te da qui in avanti.

Tutta questa mole di speranze ed attese mi accompagnerà nel cammino. Sarà con me per indicarmi la strada da seguire. Non diminuirà il lavoro o la fatica, ma servirà a mantenere la rotta. Sarà la mia bussola.

Detto questo, buona fortuna a tutti noi.
Si salpa per un nuovo viaggio.
De’ remi faremo ali al folle volo

Da Carsoli a Spoleto

Ieri si è consumata la proposta “Si salvi chi può 2015”, consistente in una pedalata da Carsoli a Spoleto, per una distanza di 135km. Mediamente una volta l’anno la follia prende il sopravvento su di me e mi spinge a queste percorrenze “estreme”. Il trucco consiste nello scegliere per andata e ritorno due linee ferroviarie diverse in modo da partire dall’Abruzzo e tornare, in questo caso, dall’Umbria. Nelle passate edizioni sono state proposte Avezzano-Terni (l’antesignana), Celano-Terni (in due varianti), Tagliacozzo-Terni, Carsoli-Poggio Mirteto e Carsoli-Fara Sabina (cucinate in diverse salse).

Il vantaggio di questi percorsi è che si sviluppano in zone montane a bassissima frequentazione, spesso costeggiando laghi artificiali, e che evitano il traffico letale ed asfissiante dei dintorni di Roma. Oltre a ciò lo spostamento in linea mostra ambienti via via diversi man mano che si procede. Non da ultimo, scegliere il punto di partenza sopraelevato rispetto a quello di arrivo regala del dislivello “in discesa” che consente di estendere il numero di chilometri anche a chi non disponga di un allenamento propriamente agonistico.

Tornando a ieri, una delle cose più belle è sicuramente stata l’espressione del tizio sconosciuto (ce n’è sempre uno) che, appena scesi alla stazione di partenza (Carsoli, in Abruzzo), sistematicamente domanda “Dove andate con queste bici?” e si sente rispondere “Spoleto”. Impagabile. Vedi dalla mimica facciale le rotelle del cervello che si mettono in movimento per cercare di collocare quel nome nei dintorni, senza riuscirci. Poi una volta compreso che Spoleto è in Umbria, una regione nemmeno confinante, si disegna il dubbio: “dicono sul serio o mi prendono in giro?”

A Carsoli la sosta d’obbligo prima della partenza è in un caffè-pasticceria, poi si prende l’acqua e ci si avvia intorno alle 9.30. I primi 20km sono in piano, sulla strada che costeggia il lago del Turano. Percorso bellissimo ma ormai per me stranoto, che ci “beviamo” a quasi 30km/h di media. Poi la breve salita e ridiscesa fino alla diga, quindi una nuova salita e discesa ben più consistente verso la piana Reatina.

Rieti è un po’ il punto critico dell’intero tracciato perché crocevia delle diverse strade che risalgono le vallate adiacenti, una piccola città con la sua inevitabile baillamme di traffico. Inevitabile ma che, fortunatamente, grazie alle ridotte dimensioni, riusciamo a lasciarci alle spalle in fretta. È ormai mezzogiorno quando affrontiamo il forno della piana Reatina, in compenso la velocità delle bici ci tiene almeno ventilati.

Dei sette alla partenza (io, Nicola, Carmine, Angelo, Claudia, Diego e il neo-acquisto Lapo) siamo rimasti in cinque. Un paio (Carmine ed Angelo) si sono sganciati a Castel di Tora con la frase “noi andiamo avanti così possiamo pedalare più lentamente”. Ci ricongiungeremo con loro solo sessanta chilometri dopo, a Piediluco, per il pranzo.

La piana Reatina termina con un breve scollinamento e raggiunge il lago formato dal fiume Velino che da vita alla cascata delle Marmore. Anche se il nostro itinerario piegherebbe verso nord appena prima del paese, decidiamo lo stesso di fermarci lì, in un piccolo parco ombroso in riva al lago, per pranzare tutti insieme. L’itinerario prevede come “via di fuga” la possibilità di tagliare direttamente su Terni, e per un motivo o per l’altro in ben cinque (su sette) scelgono di avvalersene.

Proseguiamo quindi solo io e Nicola, compagno di avventure dell’epoca in cui ero presidente dell’associazione Ruotalibera, dalla quale per motivi diversi entrambi ci separammo circa un decennio fa. Sotto un sole impietoso ci avviamo per lo svalico che conduce alla discesa verso Arrone e l’imbocco della Valnerina, strada meravigliosa che risaliremo per altri 25 chilometri, con continue soste ai fontanili ed una pausa gelato a metà.

In prossimità di Piedipaterno si devia verso sinistra per raggiungere il terzo ed ultimo svalico che ci apre alla lunga e meritata discesa verso Spoleto. La scommessa dell’intero giro consiste nel riuscire a percorrere questi ultimi 400 metri di dislivello in 9 chilometri con alle spalle già 110km percorsi dalla mattina. Un piccolo miracolo fisiologico che puntualmente si compie, aiutati dal fatto che intorno alle cinque del pomeriggio la strada è ormai in larga parte ombreggiata e il sole non cuoce più come all’ora di pranzo.

Sfinito e con la prospettiva di arrivare felicemente in stazione, la discesa finale è un piccolo nirvana di meritata goduria nel corso del quale realizzo, mentre traccio curve paraboliche giocando con la gravità e l’accelerazione centrifuga in equilibrio su due ruote sottili, che la bicicletta è per me da sempre una droga di natura psicologico-metabolica, fortunatamente del tipo che fa bene al fisico ed al morale (anziché distruggerli come avviene per quelle chimiche).

Alle 18.00 sono in stazione, dopo aver salutato Nicola che ha prenotato un alloggio a Spoleto in vista di una ulteriore pedalata in solitaria, il giorno successivo, dalla volta dei piani di Castelluccio. Il treno che mi riporterà a Roma è previsto per le 19.02. Mi resta un’ora di tempo senza far nulla. Chissà se mi ricordo ancora come si fa. A Terni salgono sul treno anche Claudia e Diego, reduci dalla scorciatoia post-prandiale e dalla visita alla cascata delle Marmore.

Un dubbio mi accompagna mentre pedalo ancora dalla stazione verso casa, dove mi attendono Emanuela, una doccia, la cena e poco altro: quanti litri d’acqua abbiano attraversato il mio corpo, procedendo dall’interno verso l’esterno, in una giornata tanto lunga, faticosa e calda. Credo di averne bevuta non meno di quattro o cinque litri, probabilmente anche di più.

Riappropriazione sensoriale

Pincio

Un senso di me prepotente
Ricavo dall’essere solo
Dal muovermi in fretta nel buio
Pensiero che brilla nel vuoto.
(M. B. – Il volo notturno)

Nella notte tra sabato e domenica una cinquantina di ciclisti romani ha spontaneamente aderito al mio ennesimo esperimento: percorrere tutto l’anello del GRAB al buio.
Avete capito bene: non semplicemente di notte, con le luci, ma proprio interamente al buio. Il tracciato attraversa una serie di aree verdi totalmente prive di illuminazione.

L’evento è stato concettualmente suddiviso in tre parti: un ciclopicnic serale, la pedalata notturna ed una passeggiata all’alba nel centro storico di Roma, zigzagando tra vicoletti poco noti in attesa del sorgere del sole. La possibilità di partecipare anche solo a singole ‘tranche’ ha consentito ad un maggior numero di persone di prendervi parte.

Non è la prima volta che guido gruppi di ciclisti in pedalate notturne al buio, l’ultima è stata pochi mesi fa. La condizione ‘necessaria e sufficiente’ riguarda la disponibilità di una sede pedalabile di sufficiente ampiezza e regolarità, con assenza di ostacoli. Situazione presente in diversi parchi urbani, a patto di scegliere bene dove passare.

Ovviamente c’è da vincere una forte resistenza dei ciclisti stessi, al punto che normalmente un piccolo gruppo preferisce viaggiare ugualmente con le luci accese. In questo caso ci si organizza per mandare avanti quelli che intendono sperimentare la pedalata al buio e lasciare in coda gli ‘illuminati’.

Tipicamente si arriva con la luce dei lampioni fino all’ingresso del parco della Caffarella, si spegne tutto (luci posteriori comprese) e ci si inoltra nell’oscurità. Oscurità che in questo caso è quasi totale: si pedala in un tunnel sotto alberi di latifoglie che bloccano la poca luce lunare e tutto quello che si riesce a vedere è un alone più chiaro in lontananza, dove gli alberi si diradano.

Cosa accade dunque in questa situazione? E’ davvero molto più pericoloso rispetto al muoversi di giorno? La risposta, sorprendentemente, è no. Quello che avviene con la ‘perdita della visione’ è lo sblocco degli altri sensi, che inaspettatamente si “accendono”.

Il fatto è che la vista è a tutti gli effetti il nostro senso dominante, ed avendo l’evoluzione sociale della nostra specie eliminato i predatori, gli altri sensi hanno progressivamente perso importanza. Abbiamo finito col non dedicargli più attenzione.

L’udito serve ancora ad ascoltare le parole, anche se spesso lo teniamo occupato con la musica (o con qualcosa che viene definito tale). L’olfatto è pressoché dimenticato e stordito dalle puzze urbane, le sensazioni tattili sono ridotte al minimo indispensabile.

Pedalando al buio si riproduce una percezione di pericolo intimamente connessa allo stare in equilibrio su due ruote, il cervello si attiva per gestirla e, non disponendo della vista, cerca di ricavare il massimo delle informazioni da ciò che gli resta. All’improvviso si diventa consapevoli della temperatura dell’aria, delle vibrazioni della bicicletta sotto di noi, dei suoni che ci circondano a 360°, degli odori della vegetazione, del nostro stesso senso dell’equilibrio che, scopriamo, non ha bisogno della vista per mantenerci in sella.

Dopo pochi minuti si fa la prima pausa, ed è evidente la sensazione di euforia mista ad incredulità dei partecipanti. Un mondo nuovo ed inatteso gli si è rivelato e sono pronti a proseguire nell’esplorazione. Sabato scorso questa ‘esplorazione’ si è protratta per l’intera nottata, fino alle prime luci dell’alba, quando abbiamo assistito ad uno spettacolo diverso e per molti altrettanto inatteso: la città vuota.

Non molti sanno che c’è, in questa stagione, per pochi mesi, un ‘momento magico’ temporalmente collocato in una finestra molto ristretta, tra le 5.00 e le 6.00 di mattina, corrispondente ad un’ora in cui i nottambuli sono già andati a dormire e i ‘diurni’ non si sono ancora svegliati. Da notare che, in questa stagione, è anche già giorno.

In quest’ora magica si possono percorrere, in totale solitudine, le viuzze del centro storico, riappropriandosi di una città normalmente invasa da traffico, rumore, turisti. I palazzi storici appaiono come una quinta teatrale in paziente attesa del ritorno degli attori. E’ persino possibile affacciarsi dal Campidoglio su via dei Fori Imperiali e vederla totalmente deserta, da Piazza Venezia fino al Colosseo.

E’ possibile, per un’ora soltanto a cavallo tra la notte ed il giorno, scoprire la magia di una città fuori dal tempo, prima che i suoi abitanti si affannino nuovamente per cancellarla. A seguire alcune considerazioni postate sull’evento dai partecipanti.

“…è stata una navigazione pazzesca paragonabile ad un viaggio in barca in notturna: mi ha stupito molto la mia/nostra capacità di riuscire a vedere, quasi sentire il percorso, nonostante il buio e addirittura, dopo un po’, andare anche meglio che di giorno (il basolato dell’appiantica era ‘na crema).” – Piero Ventura

“E’ stata un’esperienza piena, intensa di quelle che ti ricordi. L’esperimento di riappropriazione sensoriale è stato fortissimo. Presenza e attenzione ti fanno attraversare indenne percorsi sconosciuti all’interno di un parco al buio. La stanchezza rischia di regalarti una transenna in faccia di giorno nel centro di roma. Grazie Marco per la splendida follia nell’aver concepito e guidato questo tour e grazie a tutti i compagni di avventura.” – Lorenzo Dina

La concentrazione notturna mi ha fatto riappropriare anche di muscoli che non conoscevo, oggi ancora tutti ben contratti!! Bellissima avventura, grazie Marco alla prossima! – Livia Corazziari

(foto di Alboreto DelVecchio)

Aspettando l’app (del GRAB)

Nell’attesa del futuro rilascio di un’app per smartphone che dovrebbe finalmente consentire a tutti di percorrere il Grande Raccordo Anulare delle Bici, vado sperimentando soluzioni alternative ed immediate, anche per testare limiti e potenzialità di una simile soluzione.

Il problema, come ben sanno tutti quelli che hanno difficoltà ad orientarsi, è che non sempre si ha a disposizione qualcuno che conosca il tracciato ad accompagnarci. Nei secoli si è cercato di porre rimedio a questo inconveniente creando la branca scientifica della geografia, purtroppo neppure questo è bastato, rimanendo il livello di astrazione delle mappe alla portata di molti, ma non di tutti.

Più recentemente la tecnologia GPS (Global Positioning System) ha cambiato nuovamente le carte in tavola, trasferendo le mappe all’interno di dispositivi in grado di rilevare automaticamente la propria posizione calcolandola in base ad una costellazione di satelliti in orbita.

Fino a qualche tempo fa questi dispositivi esistevano unicamente come oggetti a sé stanti, più recentemente le tecnologie GPS sono entrate a far parte, come il 99% del mondo informatico, del telefono che abbiamo in tasca.

La tecnologia GPS consente di fare molto più che guardare le mappe con un bel puntolino che vi strizza l’occhio come a dire “voi siete qui”. Quello che è il vero motivo di forza è la possibilità di disegnare sulle mappe un tracciato e seguirlo fedelmente, guidandoci con sicurezza in posti mai visti prima. Per fare questo occorre che il tracciato sia disponibile in un file con estensione .gpx o simili (gpx è lo standard più diffuso). Per questo abbiamo messo online, nell’ultima pagina del sito del GRAB, le tracce .gpx nelle due versioni:

Classic = percorrenza in senso antiorario
Reverse = percorrenza in senso orario

Le tracce possono essere scaricate anche cliccando sui link qui sopra.
(n.b.: le versioni dei tracciati scaricabili dal sito del GRAB sono state aggiornate successivamente alla pubblicazione di questo post… per uno scrupolo filologico si è qui scelto di mantenere disponibili le versioni pubblicate originariamente)

Le due tracce si differenziano essenzialmente per la presenza di strade a senso unico che, qua e là, obbligano a piccole deviazioni, oltre al fatto che il “Reverse” è immaginato per chi abbia già percorso il “Classic” ed evita perciò il passaggio bellissimo ma farraginoso per il centro città, preferendo collegare Caracalla al Tevere passando per la direttrice Circo Massimo anziché passare per Via dei Fori imperiali – Campidoglio – Portico d’Ottavia.

Chi già possieda un dispositivo GPS non avrà bisogno di spiegazioni ulteriori, chi voglia sperimentare l’uso di uno smartphone dovrà necessariamente installare un’app in grado di visualizzare le tracce .gpx. Delle molte disponibili ho alla fine scelto Oruxmaps, che consente di scaricare le mappe sul telefono e viaggiare con la connessione dati disabilitata, cosa che riduce enormemente il consumo di batteria.

 

A G.R.A.B. is born

“GRAB – Grande Raccordo Anulare delle Bici”, questo il nome col quale è stato presentato al pubblico ed alla stampa il progetto di una ciclovia urbana di 44km (la più lunga del mondo) che contiamo possa diventare, a breve, una dei principali attrattori di turisti in bicicletta da ogni parte del mondo, e servire anche ai romani per spostarsi attraverso la città.

Il primo passo del progetto è l’attivazione di un sito web interattivo che consente di navigare il tracciato e comprenderne le diverse caratteristiche. Una storyboard che si dipana come narrazione visuale dei diversi tessuti urbani attraversati, con una panoramica finale sulle potenzialità di sviluppo anche in chiave di rigenerazione urbana.

“Narrazione” è la parola chiave di questo progetto, che attraverso un tracciato serpeggiante attraverso la città ne registra l’intero arco evolutivo, dai boschi e le campagne dell’agro romano passando per le vestigia archeologiche imperiali (templi, strade in basolato, acquedotti, ninfei, mausolei) il medioevo (Portico d’Ottavia) il Rinascimento (Campidoglio) fino alla città Umbertina (Parioli, GNAM), ai quartieri della Resistenza ed ai recenti esempi di street-art a Quadraro e Torpignattara.

Una narrazione visuale della città a 360° che, nell’arco di una giornata, piacevolmente passeggiando in bicicletta, attraversa oltre 2000 anni di storia stratificati intorno a noi, e ce ne rende consapevoli. Il tutto su un tracciato già esistente, fruibile, ed ulteriormente perfettibile con interventi minimi e dai costi contenuti.

Una straordinaria risorsa strategica per quanto riguarda lo sviluppo del turismo in bicicletta nella nostra città che contiamo possa produrre in breve tempo ritorni economici tali da far diventare il G.R.A.B. uno dei fiori all’occhiello dell’offerta turistica romana ed un elemento di forte richiamo per gli appassionati di viaggi in bici.

Da questo momento prende il via un percorso di confronto e condivisione con i territori ed i referenti istituzionali per la sistemazione delle criticità e lo sviluppo delle piene potenzialità del tracciato.

P.s.: quella che ebbi a definire “fase larvale” può considerarsi conclusa.

P.s.2: l’articolo di Repubblica.it

I nomadi, le città e la sfera sociale

Un celebre aforisma di Ascanio Celestini recita (più o meno): “Il razzismo è come il culo: puoi vedere quello degli altri, ma non riesci mai a vedere il tuo”.

Correva l’anno 2007, io ed Emanuela eravamo in viaggio di nozze in Sudafrica e decidemmo di effettuare una visita alle “township” nere, risultato di decenni di segregazione razziale ed infine divenute parte del panorama urbano di Capetown.

Il Sudafrica, a distanza di decenni dalla caduta del regime razzista di Pretoria, continua a mostrare una realtà sociale molto polarizzata, con la popolazione bianca e ricca che vive “all’occidentale” e quella nera e povera che vive “all’africana”. L’apartheid fisica degli insediamenti è sopravvissuta all’abolizione dell’apartheid sociale.

Discutendo di questo col proprietario dell’appartamento dove eravamo in affitto (un italiano andato a vivere in Sudafrica molti decenni prima), questi mi manifestava il suo disagio nei confronti delle scelte di molti neri, acculturati e con un buon stipendio, che continuavano a vivere in realtà povere, gomito a gomito con vere e proprie baraccopoli.

La mia obiezione fu che, probabilmente, per i neri la dimensione sociale che quel tipo di insediamenti consentiva era largamente preferibile al modello “bianco” dei villini monofamiliari con giardino e garage, di grande impedimento alla socializzazione (cosa, questa, lamentata dal mio stesso interlocutore).

“I neri vivono in case povere, ma gli basta uscire per strada per trovare la comunità, i loro amici e conoscenti. I bianchi vivono autosegregati in case linde e perfette, ma per le strade non c’è nessuno, e se vogliono incontrarsi devono darsi appuntamento o organizzarsi per cenare insieme”, fu più o meno l’argomentazione che proposi. Il mio interlocutore ammise: “non l’avevo mai considerata in questi termini…”.

A muovermi in direzione di quest’analisi è stata probabilmente la profonda stima maturata negli anni nei confronti della popolazione nera del Sudafrica, grazie all’opera di Nelson Mandela ed al processo di pacificazione sociale che, dopo la caduta del regime razzista, evitò stragi e rappresaglie in tutto il paese.

Non altrettanta stima (con mio profondo disagio…) ho realizzato di provare nei confronti di popolazioni con costumi analoghi insistenti nel mio stesso contesto sociale. Evidentemente quello che si “legge” analizzando una realtà estranea, nella quale ci si sente poco coinvolti, non è di altrettanto facile interpretazione quando si prova a leggere la realtà in cui si è cresciuti.

Quotidianamente, infatti, mi trovo a passare, pedalando verso l’ufficio, accanto ad accampamenti di nomadi incistati nella periferia romana. Periodicamente, negli anni, sono finito ad interrogarmi sul perché queste persone scelgano spontaneamente una simile forma di “apartheid” rispetto alla cultura ospitante.

La risposta non era molto diversa, ovvero che solo il restare gli uni accanto agli altri poteva restituirgli quel senso di comunità che, adottando i nostri costumi sociali ed abitativi, avrebbero finito col perdere. Ma qui terminava l’analisi.

Quello che il mio stesso razzismo ha finito col nascondermi (e che invece mi era stato chiaro fin dal principio per i comportamenti dei neri sudafricani) è che il loro modello sociale, pur con tutti i limiti igienici e sanitari (determinati principalmente dalla povertà e da fattori culturali), sia nei fatti nettamente superiore al nostro.

C’è stato un momento, nella storia dell’occidente (e, non molto dopo, dell’estremo oriente), in cui il desiderio di possesso ha prevalso sulla necessità di essere comunità, sulla socialità, sull’affettività. Abbiamo finalizzato le nostre vite all’inseguimento di modelli di ricchezza (case più grandi, arredamenti più lussuosi, automobili più costose…) e perso progressivamente di vista le interazioni sociali.

La conclusione di questo processo sta nelle nostre città, nei quartieri, nelle case cui abbiamo dato forma negli ultimi decenni: realtà disumane e disumanizzanti, mausolei di cemento nei quali seppellirci da vivi, con finestre elettroniche (apparecchi televisivi, computer, smartphone…) per affacciarci su mondi fittizi, a vivere vite fittizie, mentre il mondo reale, al di fuori, è precipitato nell’indifferenza e nel degrado.