Letture recenti

Nei mesi scorsi ho avuto occasione di leggere diversi libri, tuttavia ciò non ha coinciso con un pari desiderio di scriverne, per cui mi limiterò ad un breve excursus su ognuno di essi, non foss’altro per serbarne traccia nella memoria della rete.

Delitto e castigo – Fedor Dostoevskij
Lettura sospesa molti anni fa e, come per Moby Dick, completata solo pochi mesi addietro. Ho incontrato Dostoevskij in un momento della mia vita in cui il suo pessimismo mi è risultato intollerabile. Probabilmente le letture degli ultimi anni, Infinite Jest in testa, mi consentono ora di metabolizzarlo più facilmente. Un gigante, anche ad un secolo e mezzo di distanza.

Snow crash – Neal Stephenson
Pubblicato in Italia quindici anni dopo la sua uscita negli USA risulta, purtroppo, un prodotto ormai fuori tempo, con molte delle idee già cannibalizzate dall’immaginario collettivo. Nel leggerlo mi sono scorse davanti agli occhi scene di Matrix e delle ultime, ipercinetiche, produzioni hollywoodiane, ed è impossibile non tributargli il fatto di aver immaginato la realtà virtuale di “Second Life” con quindici anni di anticipo. Narrativa splendidamente “visuale”, purtroppo arrivata in ritardo quaggiù, alla periferia del mondo.

Solar – Ian McEwan
Regalo di Manu, è il libro che mi ha rivelato un grande scrittore. Storia semiseria di uno scienziato pigro, egoista e pieno di difetti, ma nel quale resta difficile, qua e là, non identificarsi. Testo ricco di humor, scrittore sicuramente da approfondire.

I draghi del ferro e del fuoco – Michael Swanwick
Ciclo di romanzi (due) che vengono considerati il capolavoro dell’autore. Swanwick mescola con abilità il genere fantasy con le tecnologie contemporanee creando un ibrido sfuggente ed imprevedibile, ma nel quale rimane impresso a fuoco, dalla prima all’ultima pagina, il carattere di puro “divertissement” intellettuale. Si fa leggere, ma una volta letto “evapora”.

Istanbul – Orhan Pamuk
Massiccio omaggio di uno scrittore premio nobel alla sua città ed alla propria infanzia e giovinezza. Regalo mio a Manu, ho deciso di leggerlo per la tristezza di fondo inevadibile di cui lei stessa mi ha raccontato. Un saggio che ha avuto il potere di evocare dalla mia memoria analoghi ricordi della mia infanzia e giovinezza a Roma negli anni ‘70. 

Come Dio comanda – Niccolò Ammaniti
Ammaniti è, a mio personale parere, uno dei più grandi scrittori italiani del momento attuale. I suoi personaggi sono difficili, ma sempre perfettamente credibili, le situazioni si accavallano a ritmo frenetico senza che sia possibile intuirne il potenziale sviluppo, e confluiscono in un finale assolutamente plausibile. uno spaccato di provincia italiana, di degrado, di emarginazione, di violenza, ma anche di riscatto e sentimenti veri.

Bici ribelle – Luigi Bairo
Agile libretto che raccoglie insieme una summa delle varie forme ed identità assunte dalla bicicletta nell’ultimo decennio, dall’uso urbano alla Critical Mass. Avendo vissuto in prima persona queste trasformazioni ho avuto la sensazione di una sorta di “ripasso generale” delle cose che sapevo già.

L’inferno degli specchi – Edogawa Ranpo
Incuriosito dalla proposizione di un nome del tutto sconosciuto ho passato qualche giorno a leggere i racconti tra il giallo ed il fantastico di questo autore giapponese della prima metà del secolo scorso, pesantemente influenzato dallo stile degli scrittori anglofoni. Un autore di cui, di qui a qualche anno, ricorderò a malapena il nome (peraltro trascrizione in giapponese, deformata, di quello di Edgar Allan Poe)

La voce del padrone – Stanislaw Lem
Lem conferma la sua inarrivabile fantasia ed il suo spessore etico/morale in una vicenda in cui, dall’inizio alla fine, non accade in pratica quasi nulla. Un team di scienziati si arrovella sul mistero di un messaggio proveniente dallo spazio accavallando ipotesi su ipotesi senza sostanzialmente venirne a capo. Una scorribanda intellettuale immobile e al tempo stesso travolgente sulla natura del linguaggio, la difficoltà di empatizzare col “diverso da noi”, i nostri limiti etici, sociali ed immaginativi, il tutto in un clima di guerra fredda (il romanzo è del ‘69) fedelmente restituito. Un lavoro difficile da apprezzare per i “non appassionati” del genere, ma che ci restituisce la grandezza di un geniale autore di fantascienza la cui sfortuna è stata di nascere in Polonia.

Il bambino che è in me

Altan+bici

Diversi anni fa mi imbattei in questa straordinaria vignetta di Altan e mi ci riconobbi immediatamente, come pure, immagino, quasi tutti gli adulti che per un motivo o per l’altro scelgono di andare in bicicletta. Da qualche settimana, avendo rottamato la mia automobile, ho occasione di usare la bici quotidianamente e “il bambino che è in me” ne è molto soddisfatto.

Oggi riflettevo appunto su questa dicotomia bambino/adulto apparentemente insanabile. Dare ad un adulto del “bambino” nella nostra cultura risulta offensivo, si ritiene che la fase di “adulto” rappresenti un superamento ed una maturazione rispetto a quella di “bambino“, richiedendone un distacco netto e definitivo.

Distacco che comporta tutta una serie di rinunce, soprattutto sul piano emotivo, che vengono spesso sublimate attraverso il possesso di oggetti, per quanto “adulti“, dai connotati fortemente ludici (auto sportive e/o motociclette vistose in testa a tutto). Oggetti il cui utilizzo consente degli sporadici abbandoni al mondo dell’immaginario tipico della sfera infantile, tuttavia in una dimensione compatibile con l’accettazione dello status di adulto da parte del consesso sociale circostante.

Questo perché, da animali sociali quali siamo, è in genere il gruppo a definire quali comportamenti sono accettati e quali no. Nella nostra cultura gli atteggiamenti ribelli ed anarcoidi tipici dell’età giovane sono in genere mal tollerati. Essere accettati in un contesto definitivamente adulto passa per la rinuncia a tutta una parte della nostra sfera emotivo/relazionale. Una rimozione per passaggi successivi, necessariamente dolorosa, che consegna alla collettività un individuo ormai conformato alle esigenze richieste dal corretto funzionamento dell’organizzazione sociale.

Tuttavia, nel mio caso, il processo non è giunto a compimento: il “bambino che è in me” è ancora vivo e vegeto ed ha semplicemente raggiunto un compromesso con “l’adulto che è in me“. Ognuno dei due dispone dei propri spazi e tempi, in qualche caso viaggiano addirittura insieme. Ad esempio quando “il bambino” guida la bicicletta “l’adulto” lo osserva, o ragiona per i fatti suoi.

Questo porta a definire un diverso modello di crescita, consistente nella stratificazione di più livelli di personalità al posto della progressiva, e distruttiva, alternanza tra essi. Un modello forse non sempre attuabile, ma a mio avviso desiderabile. Verrebbe a questo punto da citare Walt Withman ed il suo famoso aforisma: “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini…

Nell’incessante mulinello di idee mosso dal moto dei pedali ho collegato quest’idea a diversi agganci con la narrativa fantastica di cui sono ghiotto divoratore. Per cominciare dal protagonista di “Città delle illusioni” di Ursula K. Le Guin, portatore di una doppia personalità costruita in due fasi separate della propria esistenza. Particolarità che si rivela una risorsa sorprendentemente efficace (l’unica possibile, in realtà) per difendersi dai poteri telepatici degli alieni che hanno soggiogato tutti i mondi popolati dall’Umanità.

Una chiave di lettura diversa ma in qualche modo analoga appare in “Caos USA” di Bruce Sterling, in cui viene sviluppato un processo in grado di scollegare i due emisferi del cervello umano consentendo di gestire contemporaneamente due attività distinte (p.e. scrivere con una mano e suonare uno strumento musicale con l’altra). Più analogo al primo esempio il protagonista di “I draghi di Babele“, di Michael Swanwick, opera fantasy con coloriture tecnologiche, il quale conserva dentro di sé la violenza e l’aggressività distruttiva di un drago che ha ucciso e vi ricorre in situazioni di pericolo.

Insomma, nei suoi meandri la narrativa finisce col raccontarci i vantaggi e la ricchezza di possedere una varietà di modalità di reazione ai problemi ed alle difficoltà che affrontiamo quotidianamente, ed io non posso che concordare. Il “bambino che è in me“, e che mi accompagna sempre nei giri in bici, è ugualmente d’accordo.

Cose che ho imparato negli anni

“Il problema comune ad ogni strumento con cui si cerchi di cambiare il mondo è che poi, quando il mondo non cambia, è facile disaffezionarcisi”

Questo è quanto ho scritto nell’ultimo commento al post precedente, in risposta ad uno sconsolato Caiofabricius che lamentava la recente morìa di blog ciclistici. Rileggendolo mi sono reso conto della necessità di un ragionamento di più ampio respiro, che possa dar conto di quanto accaduto nell’ultimo decennio a me ed in generale al mondo della ciclabilità urbana a Roma.

Dieci anni fa, facile a dirsi, “il mondo era diverso“. Non solo tutti avevamo dieci anni in meno, ma anche tutto il complesso politico, economico e sociale pareva ancora in grado di esprimere istanze nuove. Il tanto auspicato “cambiamento” sembrava a portata di mano allora, paradossalmente, ben più di adesso.

Tant’è che dieci anni fa io ero presidente di un’associazione appartenente alla FIAB – Federazione Italiana Amici della Bicicletta, “consigliere nazionale” della Fiab stessa, e vedevo nel dialogo tra associazioni di ciclisti ed istituzioni un valido canale operativo per giungere alla realizzazione di una rete capillare di itinerari per la mobilità ciclabile, come già se ne stavano realizzando nei paesi dell’Europa felix.

Questo slancio appassionato negli anni è andato ad infrangersi contro una serie di barriere sociali, culturali, amministrative, contro l’egoismo autocentrico dei rappresentanti degli stessi ciclisti, contro l’incapacità di auto-organizzazione dei movimenti, contro la sostanziale indifferenza ed apatia della popolazione, senza ottenere alcun risultato apprezzabile e finendone con le ossa a pezzi.

La costruzione di piste ciclabili ha visto dapprima uno stentato, faticoso e qualitativamente mediocre inizio sotto l’amministrazione Veltroni, quindi una pressoché totale battuta d’arresto sotto Alemanno. Negli ultimi tre anni nessun nuovo progetto è stato varato, ciclabili già in avanzato stato di definizione sono state prima definanziate, quindi cancellate (Nomentana, Tor Fiscale…) e le rappresentanze delle associazioni di ciclisti sono state tenute vanamente impegnate nella discussione su un fantomatico, grossolano e raffazzonato “Piano Quadro della Ciclabilità” la cui approvazione in giunta continua a slittare indefinitamente.

Su altri versanti le cose segnano il passo. Le associazioni di ciclisti (urbani e/o escursionisti e/o sportivi) mantengono ed accrescono il numero di iscritti senza essere però in grado di tradurre questo “peso numerico” in strumenti di pressione sulle amministrazioni. Anzi, quando si partecipa ai tavoli di discussione mai si riesce ad esprimere una volontà unica e compatta, pervicacemente perdendosi in cavilli e distinguo e cogliendo sistematicamente l’occasione di scontrarsi su dettagli del tutto secondari.

La realtà un tempo più nuova ed interessante, quella legata alla Critical Mass ed alle Ciclofficine Popolari, si è infine stabilizzata, divenendo la prima un evento “mainstream” molto affollato ma ormai metabolizzato dalla città, e perdendo l’originaria carica conflittuale e “rivoluzionaria” per trasformarsi in una specie di rito collettivo allegro e spensierato, le seconde crescendo di numero ma annaspando nei limiti autoimposti del volontariato e dell’autarchia.

In tutto questo il numero di ciclisti in giro per la città è aumentato, passando dagli originari “quattro gatti” alle attuali “due dozzine“… ben al di sotto comunque della soglia necessaria ad innescare un cambiamento di mentalità. Gli spazi per muoversi in bici in sicurezza, al contrario, si sono ridotti, le piste esistenti e già in partenza malfatte sono state lentamente erose dal tempo e dalle intemperie, allagate dal Tevere, invase dagli stand delle manifestazioni estive, occupate dalle auto e dai motorini in sosta vietata, le righe di vernice disegnate sui marciapiedi via via scolorite, mentre regnano ovunque gli onnipresenti cocci e vetri rotti, eredità di sbronze notturne ed incidenti d’auto.

Il progredire di questo degrado non sembra in alcun modo arginabile a fronte dell’assenza di volontà di cittadini e pubblica amministrazione, del (meritato) discredito in cui versa la classe politica, della perdita di fiducia nelle stesse istituzioni democratiche. E quel che è peggio la questione investe non soltanto il mondo della bici ma l’intero sistema paese.

Nel corso degli anni posso dire di averle provate un po’ tutte. Mi hanno dato del “ciclista istituzionale” quando con la Fiab ho tentato la via del dialogo con gli uffici comunali, del “fricchettone” quando ho mollato la Fiab per abbracciare la Critical Mass, del “menagramo” quando con altri amici abbiamo dato vita al coordinamento “Di Traffico Si Muore“, e adesso mi becco regolarmente del “pessimista cosmico” quando appena provo a fare un’analisi fredda e distaccata come quella che avrete appena letto.

Dunque, le cose che ho imparato:

– che un politico si muoverà solo a fronte di un tornaconto personale, in termini economici (diretti o indiretti) o politici (potere, prestigio, consenso), ed agirà per opere di pubblica utilità unicamente se queste coincideranno col proprio tornaconto, o quantomeno non lo ostacoleranno

– che il volontariato è bello, ma lascia poco tempo ed energie a disposizione, e col tempo la volontà delle persone tende mediamente a scemare

– che per ogni dieci nuovi ciclisti portati sulle strade ogni anno se ne perdono dai cinque agli otto di quelli portati l’anno precedente per disaffezione, rischi eccessivi, esaurimento

– che i giornali riporteranno sempre tutte le sparate del politico di turno, senza andare minimamente a verificare la consistenza delle suddette affermazioni, né se le promesse da lui fatte in precedenza siano state mantenute

– che dieci ciclisti urbani a cui si chieda di definire “l’intervento prioritario” da effettuare daranno dieci risposte diverse, e se messi insieme finiranno a discutere e darsi sistematicamente torto a vicenda

– che è inutile attendersi dalla nostra cultura e dalla nostra società una qualsiasi soluzione che possa tornare a vantaggio della collettività: tutto ciò che non sia “privato” non è minimamente comprensibile ai più

– che dati punti di partenza ed arrivo sufficientemente lontani non esisteranno due ciclisti che percorrano la stessa strada nello stesso modo, ognuno avrà la sua maniera di scegliere l’itinerario (strade, parchi, marciapiedi), di percorrerlo, di attraversare gli incroci, ecc, ecc… e questo rende enormemente difficile tracciare reti per la ciclabilità

– che i ciclisti urbani sono delle persone incredibili, ma anche incredibilmente complesse

– che andando in bici, anche nell’incubo della viabilità romana, ci metto più tempo che in macchina ma almeno arrivo di buon umore