Intelligenza esplorativa

Da almeno un paio di settimane sto combattendo con un’idea relativa all’intelligenza umana. L’idea è che al di là delle differenze quantitative, che pure esistono e sono misurabili, siano presenti differenze qualitative. Non sto parlando delle diverse forme di intelligenza (logico/razionale, linguistica, psicomotoria, sociale e chi più ne ha, più ne metta…) sto parlando proprio di un differente approccio alla realtà ed alla complessità.

Il ‘fattore scatenante’ che ha rimesso in gioco tutto quello che pensavo di sapere sull’argomento è stato un articolo della psicologa Ana Maria Sepe [1] che, in buona sostanza, illustra il mio personale modo di ragionare. Il fatto spiazzante è che lo descrive, per così dire, ‘dall’esterno’, come se fosse chissà quale bizzarro modo di processare le informazioni. Partiamo dal seguente passaggio:

Prima di tutto che le persone intelligenti NON memorizzano le cose. Chi ha un QI alto è bravo a connettere tra loro idee e creare costruzioni mentali tra informazioni che magari potrebbero sembrare irrilevanti o appartenenti ad altri contesti. Quindi questi “geni” trovano con facilità schemi tra dati grezzi e li collegano tra di loro. In parole povere: riconoscono e connettono pattern.

Questo sono esattamente io (al di là dell’appellativo “genio”, nel quale non mi riconosco e che giustamente sta tra virgolette a significare un eufemismo). O, ad essere precisi, è la descrizione del mio personale modo di organizzare le informazioni che raccolgo in strutture relazionali e rapporti di causa/effetto. Mai, fin qui, mi è venuto da pensare che potessero esisterne altre.

È un modo di ragionare che presenta ovvi vantaggi. Consente di applicare schemi interpretativi generali a discipline diverse da quelle per le quali sono stati pensati, consente una comprensione più immediata delle potenziali conseguenze derivanti da una determinata azione. Consente, in ultima istanza, quel ‘pensare fuori dagli schemi’ di cui tanto si parla, perché un modo di elaborare le informazioni che padroneggia gli schemi sa anche riconoscerli e manipolarli con facilità.

Il modo di pensare, di organizzare l’esistente, rappresenta l’essenza di un individuo. Ma, aggiungerei, ogni individuo tende a ritenere se stesso simile agli altri. Questa attitudine, derivante evidentemente da dinamiche evolutive, prende il nome di ‘bias di proiezione’, rientrando nella categoria dei bias cognitivi [2]:

Il bias di proiezione è una tendenza cognitiva che porta le persone a pensare che gli altri la pensino come noi, o che abbiano le nostre stesse caratteristiche. Si tratta di una forma di auto-percezione, in cui le persone proiettano le proprie preoccupazioni, aspettative e opinioni sugli altri. In altre parole, questo bias può spingere le persone a vedere negli altri le caratteristiche che vedono in se stesse o che temono di possedere. Ad esempio, un individuo potrebbe essere incline a sospettare che gli altri siano bugiardi (o generosi) solo perché è consapevole del fatto che mente spesso (o che lui stesso è una persona generosa). Questo tipo di tendenza alla proiezione può influire su come ciascuno percepisce la realtà e interagisce con gli altri.

L’articolo della d.ssa Sepe, in ultima istanza, mi suggerisce un’eventualità mai presa seriamente in considerazione, quella di essere una bizzarra eccezione. Ora, a nessuno piace essere un’eccezione, fosse anche positiva. Gli individui eccezionali ingenerano aspettative, sono loro richieste prestazioni eccezionali. Preferiamo, tutti, sentirci ‘uguali agli altri’, questo ci suggerisce il bias di proiezione.

Intere ideologie e fedi religiose sono state costruite per soddisfare questa aspettativa. Ma è realmente così? Se guardiamo alle dinamiche evolutive dei gruppi umani realizziamo che questa condizione non soddisfa un criterio di massima efficienza per la collettività (sto saltando di palo in frasca, è evidente e ne sono consapevole, ma questo, come già detto, è il mio modo di ragionare). L’intelligenza umana è il prodotto di processi evolutivi, e se vogliamo comprendere come sia distribuita dobbiamo usare questa specifica chiave interpretativa.

Come già spiegato nel post precedente [3], gli studi evolutivi effettuati sulle specie sociali evidenziano una tendenza a disperdere le caratteristiche individuali su uno spettro più ampio rispetto a quanto si osserva nelle specie prive di comportamenti sociali. Questo significa che all’interno delle specie che vivono in gruppi, branchi, stormi, colonie, le diversità tra singoli individui sono maggiori rispetto alle specie i cui componenti praticano esistenze solitarie.

Il tasso di diversità aumenta ancora nelle specie, come la nostra, capaci di comportamenti altruistici, dove cioè i diversi componenti del gruppo possono prendersi cura gli uni degli altri. Questo comportamento può emergere grazie al vantaggio conseguente alla possibilità, per un individuo ferito, di guarire, in modo che il gruppo non abbia a perdere uno dei suoi elementi di forza.

È facile, a questo punto, immaginare come il comportamento altruistico, stante una disponibilità sufficiente di risorse, possa essere esteso a membri anziani e/o ad individui portatori di disabilità fisiche o psichiche. Comportamenti di questo tipo sembrano emergere fin dalla preistoria dell’umanità, e si riflettono nella gran parte delle fedi ed ideologie che attraversano la storia dell’uomo.

Il processo di diversificazione consente al singolo gruppo, e di conseguenza all’intera specie, di sviluppare caratteristiche peculiari ed eccezionali, non strettamente legate alle esigenze di sopravvivenza ma fondamentali per la resilienza del gruppo stesso. Data una sufficiente disponibilità extra di risorse, alcuni individui potranno specializzarsi in attività non strettamente legate alla caccia, alla raccolta ed alla fabbricazione di utensili, esplorando la cura delle malattie, o forme di sollievo psichico come le fedi religiose, e praticare forme di pensiero speculativo che vadano oltre le esigenze immediate.

È in questo contesto sociale che individui portatori di intelligenze atipiche possono prosperare e dar vita a forme artistiche, materiali o immateriali, a filosofie, a narrazioni del mondo, a speculazioni, e risultare motivanti e trainanti per l’intera collettività. Le stesse dinamiche evolutive indicano che queste intelligenze atipiche tendono a rimanere eccezioni alla norma, al pari del mancinismo, della propensione al rischio e di altre caratteristiche relativamente rare, perché la funzionalità del gruppo dipende dalla loro essere poco frequenti.

Torno per l’ennesima volta all’esempio di D. Goleman sullo stormo di uccelli che trae vantaggio dal conservare il tratto genetico della propensione al rischio, perché il fatto che alcuni individui si allontanino dalla massa consente di individuare più facilmente i predatori [4]. Se da un lato questo comportamento è funzionale quando si presenta occasionalmente, dall’altro sarebbe catastrofico se fosse proprio di tutti gli individui.

Allo stesso modo un gruppo umano è avvantaggiato dalla propensione di alcuni individui ad attività rischiose, ma sarebbe sfavorito se tutti i suoi componenti fossero propensi a correre più rischi del necessario. Questo mi porta a ritenere che anche per l’intelligenza valga un discorso analogo: il gruppo è funzionale quando le intelligenze peculiari sono una eccezione, e non la norma. Un gruppo sociale composto unicamente da artisti, musicisti, filosofi, matematici e pensatori inquieti se la caverebbe molto male nel far fonte ad una quotidianità fatta di occupazioni spesso ripetitive e poco intellettualmente stimolanti.

Quindi abbiamo ribadito un primo punto: la presenza di intelligenze diversificate è funzionale all’efficacia del gruppo. Come si arriva, da qui, a definire l’esistenza di differenze di natura qualitativa? Da quello che sono riuscito a ragionare, una differenza di tipo quantitativo si traduce da sé in una differenza di tipo qualitativo. Il semplice poter elaborare più elementi contemporaneamente richiede l’utilizzo di schemi interpretativi, pena il ritrovarsi in un caos ingestibile.

A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro per sviluppare il concetto di intelligenza e darne una definizione meno generica. L’intelligenza è la capacità di far fronte a situazioni complesse. Il grado di complessità dell’operazione da svolgere determina il livello di intelligenza richiesta.

Partiamo da un livello ‘zero’ (arbitrario) con gli organismi filtranti. Molte delle forme di vita sulla Terra sono di questo tipo: spugne, molluschi, meduse, coralli, ecc… L’organismo filtrante vive in un habitat liquido ed estrae i nutrienti dal liquido stesso. Nessuna intelligenza è richiesta per questa modalità di sussistenza. Il risultato è che questi organismi non possiedono una rete neurale.

Non è ancora ben chiaro come le reti neurali si siano evolute, tuttavia osserviamo che la capacità di operare decisioni, unita alla mobilità, renda la predazione più efficiente. Data questa possibilità, milioni di anni di evoluzione e milioni di miliardi di individui consumati nel processo, arriviamo allo stadio successivo, che osserviamo ben conservato negli insetti.

Gli insetti possiedono un addensamento di cellule neurali, il cervello, dal quale si diparte una rete di comunicazione degli impulsi generati a raggiungere il resto del corpo. Il cervello acquisisce informazioni sensoriali dal mondo esterno e le traduce in azioni che impartisce ai diversi organi per mezzo della rete neurale. Le dimensioni degli insetti limitano la dimensione del cervello ai minimi termini.

Questo li rende in grado di esprimere un ventaglio di comportamenti limitato ed estremamente ripetitivo, come se il loro spettro di azioni e reazioni fosse interamente programmato già in partenza durante lo sviluppo cellulare, copiato e incollato direttamente dal DNA. Ovviamente questa modalità risulta efficace per svolgere funzioni ripetitive, ed il suo successo lo misuriamo dall’adattamento degli insetti ad ogni forma di habitat e dal loro coesistere come parassiti degli organismi più grandi e complessi.

Dimensioni corporee maggiori consentono di sostenere cervelli più grandi e l’avvento della ‘plasticità’, ovvero della capacità di apprendere comportamenti non codificati. Questa abilità porta con sé una serie di vantaggi, non ultima la possibilità di trasmettere alla discendenza saperi specifici e locali, oltre ad una maggior adattabilità rispetto a situazioni inattese.

Una specie di erbivori in costante migrazione può trovarsi di fronte a forme di vegetazione sconosciute e potenzialmente letali. Solo l’esperienza, e l’eventuale sacrificio di un individuo particolarmente debilitato, possono informare gli altri della effettiva sicurezza di consumare la nuova risorsa, e generare una specifica cultura che viene poi conservata all’interno del gruppo.

Un comportamento di questo tipo si osserva in alcuni topi (rattus norvegicus), che sono un po’ la ‘forma base’ di tutti i mammiferi sopravvissuti all’estinzione dei dinosauri. È stato osservato che in presenza di un’esca avvelenata il gruppo resta ad aspettare finché uno dei membri più deboli (un anziano, probabilmente affamato) non va a morderla. Quando il topo anziano muore avvelenato, gli altri membri del gruppo ci urinano sopra per marcare olfattivamente la pericolosità di quel tipo di esca, col risultato che da lì in poi tutti gli altri topi della comunità eviteranno di nutrirsene. Questa rappresenta una modalità molto basilare di apprendimento e generazione di una nuova cultura.

Grazie alla plasticità viene a determinarsi una dinamica predatore/preda dove comportamenti troppo prevedibili possono esporre gli individui al rischio di non sopravvivere, mentre la capacità di reagire in maniere inattese diventa un vantaggio immediato nella competizione per la sopravvivenza. Le culture acquisite dei predatori e delle prede si modellano reciprocamente e si trasmettono alle rispettive discendenze.

La nostra specie opera un salto ulteriore liberando gli arti superiori, che possono così essere impiegati per modellare utensili ed utilizzarli, inventando l’evoluzione tecnologica e le forme avanzate di linguaggio, necessarie a trasmettere interi bagagli di competenze da una generazione alle successive, e sviluppando forme di cultura precedentemente inimmaginabili.

Possiamo distinguere tuttavia tra una attitudine di tipo ‘applicativo’ ed una di tipo ‘esplorativo’. La prima è equivalente alla massa dello stormo di uccelli, la seconda ai singoli elementi dotati di maggior propensione al rischio. La massa si limita ad apprendere le conoscenze consolidate, mentre un ristretto numero di individui risulta in grado di forzarne i limiti, ovviamente rischiando in proprio.

In sintesi, mentre per la maggior parte degli individui è sufficiente apprendere ed applicare un bagaglio di competenze consolidato, senza metterlo in discussione, il comportamento ‘estremista’ relativo all’intelligenza consiste nel mettere in discussione il sapere consolidato per estenderlo oltre i confini precedentemente accettati, rischiando evidentemente di fallire nel tentativo.

Questo dilemma è rappresentato in molte delle narrazioni che ci sono giunte dall’antichità, che peraltro continuano a modellare la nostra cultura e le sue espressioni più recenti. Il racconto mitologico di Icaro che vola, con le sue ali, troppo in alto, fino a farle sciogliere dal calore del sole e a morire, rappresenta in forma simbolica l’aspirazione dell’umanità a nuove forme di conoscenza, ed i rischi che ne conseguono per chi provi ad esplorarle.

La conclusione di questo ragionamento rafforza la tesi che le società umane si strutturino ed organizzino per la massima efficienza, e che questo produca una dispersione delle forme di intelligenza e delle attitudini individuali. In più aggiunge una considerazione ulteriore, ovvero che per la maggior parte delle persone sia difficile ragionare per schemi e desumere un quadro coerente della realtà semplicemente dalle evidenze. Di conseguenza il loro approccio alla realtà dipenderà da un sapere acquisito, senza peraltro poter disporre degli strumenti indispensabili a rimetterlo in discussione.

Nel prosieguo conto di sviluppare una riflessione sul Principio di Autorità [5], quindi di esplorare le conseguenze delle presenti conclusioni sulle forme assunte dalle organizzazioni umane per comprendere meglio la loro influenza nei processi di auto-domesticazione [6].


1 – Da cosa si capisce se una persona è molto intelligente (PsicoAdvisor)

2 – Bias Cognitivo (Chiara Venturi)

3 – Evoluzione dell’intelligenza umana

4 – Darwin, Goleman e l’intelligenza diffusa

5 – Principio di Autorità

6 – Domesticazione umana

Darwin, gli estremisti e i disadattati

Ho passato quasi la mia intera esistenza a sentirmi un disadattato. Poi sono approdato a Darwin e Goleman, e la mia sensazione ‘a pelle’ ha trovato una esatta collocazione razionale all’interno di una descrizione in termini evoluzionistici della società umana.

La genetica molecolare ci insegna che, all’interno di una specie vivente, non esistono due individui identici. Questo è il prodotto della riproduzione sessuata: ad ogni nuovo nato avviene un rimescolamento dei geni paterni e materni. La presenza di individui dotati di lievi differenze l’uno dall’altro rappresenta la chiave del processo evolutivo.

Lo scostamento dal modello tipo rappresenta, solitamente, un problema per l’individuo portatore di tale carattere. A titolo di esempio, in una specie che popoli un determinato habitat la lunghezza del pelo è perfettamente adattata al range di temperature solitamente presenti. L’individuo che, occasionalmente, nasca con una peluria più lunga o più folta della media risulterà perciò svantaggiato.

Ma la specie nel suo complesso ha necessità di produrre questi individui ‘svantaggiati’, perché le condizioni climatiche possono variare nel tempo. Se le temperature medie scendono, su un arco temporale di anni o di secoli, gli individui col pelo più folto risulteranno avvantaggiati, e trasmetteranno questo carattere alla propria discendenza, che continuerà a prosperare. Se la trasformazione climatica diventa permanente, ciò causerà una definitiva trasformazione nelle caratteristiche medie della specie.

I ‘caratteri estremisti’ non attengono unicamente l’aspetto fisico degli individui. In una specie caratterizzata da comportamenti sociali, atteggiamenti ‘estremisti’, rispetto alla media del branco, sono propri di singoli individui. Individui che tendono ad allontanarsi, che esplorano il territorio, e che si espongono, in questo modo, a rischi maggiori.

Daniel Goleman, in “Intelligenza sociale”, spiega come la collettività tragga vantaggio dall’esistenza di questi comportamenti estremisti, e trovi il modo di compensare il maggior rischio corso da questi individui, e la relativa brevità delle loro vite, facendoli riprodurre con più facilità rispetto agli individui, la maggior parte, dotati di un carattere più gregario.

Il tratto distintivo della specie umana è rappresentato dall’intelligenza, ed inevitabilmente anche questa, come ogni carattere, è distribuita in maniera diseguale. La gran parte della popolazione dispone di un Q.I. (quoziente intellettivo) pari a 100, mentre il ventaglio dei restanti si estende, con numeri via via più ridotti, in entrambe le direzioni.

Estendendo il parallelo darwiniano alla sfera intellettiva, dovremo aspettarci che gli individui dotati di Q.I. più elevato della media tendano ad allontanarsi più degli altri dall’areale (culturale) in cui staziona il branco, ad esplorare territori sconosciuti, a padroneggiare materie che la maggior parte dei consimili non sente alcun bisogno di approfondire.

Da questa esigenza intellettuale al diventare dei ‘disadattati’ il passo è breve. Conoscere più della gran massa delle persone, maneggiare concetti che per gli altri sono astrusi, avere una comprensione lucida di cognizioni complesse, finisce con l’alienare questi individui dalla massa dei propri consimili, e consegnarli alla solitudine.

Da adolescente disadattato ho esplorato la questione e mi sono sottoposto a test del Q.I. ed è risultato che i miei valori eccedevano significativamente la media. Parliamo di esiti superiori a 140 punti (più prossimi ai 150) su diversi ventagli di abilità (letterarie, numeriche, visivo/spaziali). Ma non sempre conoscere il proprio problema consente di affrontarlo nella maniera migliore.

Perché mi aspetto che questo tema interessi i lettori del mio blog? Qui entra in gioco un bias cognitivo noto come Bias di Proiezione: il nostro cervello rifiuta il fatto che gli altri siano diversi da noi. Questo fa sì che le persone particolarmente intelligenti tendano a considerare gli altri al loro stesso livello, spesso commettendo errori grossolani.

Prima di passare ad illustrarvi le conseguenze di questo ragionamento sarà utile contestualizzare il problema che vi/ci riguarda. La maniera migliore mi sembra partire da un grafico. La curva qui sotto raffigura la distribuzione del quoziente intellettivo nella popolazione umana. La freccia indica dove si collocano, secondo una mia verosimile stima, i lettori di questo blog.

Non mi interessa accattivarmi le simpatie di chi legge. È ormai acclarato che quasi metà della popolazione italiana sia costituita da analfabeti funzionali, fatto che, da solo, già esclude tutta la parte sinistra della curva. Del rimanente 50%, solo una piccola frazione frequenta spazi informativi (la maggior parte di chi è in grado di leggere e scrivere passa il tempo a battibeccare sui social). Di questi spazi informativi i meno gettonati risultano quelli caratterizzati da un linguaggio prolisso, argomentazioni cervellotiche ed uso di locuzioni desuete. Ed eccoci qui.

Se siete arrivati a leggere la mia paginetta è perché la produzione culturale di massa (perdonatemi la definizione) non vi soddisfa pienamente, o perché state cercando risposte che altrove non trovate. Magari perché vi ponete domande senza aspettare che qualcun altro le formuli per voi, avendo compreso che le domande di quel tipo sono strumentali al rifilarvi risposte già belle e confezionate.

Siete qui per un’insoddisfazione di fondo che non sapete spiegare. Perché vi sembra che manchi sempre qualcosa, qualche pezzo di ragionamento, o qualche sfumatura artistica nei prodotti di intrattenimento, o qualche sviluppo nei termini dell’agire umano che sarebbe altamente auspicabile… ad esempio una svolta ambientalista negli indirizzi politici globali.

Siete qui perché pensate che in un sistema democratico valga la volontà della maggioranza, e non riuscite a spiegarvi come mai la vostra volontà non venga quasi mai rappresentata nelle scelte politiche ed economiche. Perché vi siete sempre riconosciuti in partiti di minoranza. Perché vi sentite apostrofare come ‘estremisti’ quando sviluppate analisi del tutto ragionevoli. Perché non siete ‘adattati’ al sentire corrente… altrimenti passereste il vostro tempo ad ascoltare la radio o ad informarvi sul mondo del calcio.

Il motivo di ciò sta nel grafico di cui sopra: voi ed io non facciamo parte della ‘maggioranza’. È brutto sentirselo dire, l’animo umano soffre nel sentirsi emarginato, il Bias di Proiezione scalpita e protesta. Purtroppo è la realtà: la maggioranza opera scelte che in gran parte ci escludono.

Di conseguenza i prodotti di intrattenimento vi appaiono spesso mediocri, i film prevedibili, la musica banale, i programmi di approfondimento superficiali, i giornali buoni per incartare il pesce. Il problema non è loro (quantomeno non completamente), è nostro. Nella società dei consumi ogni prodotto è indirizzato ad un target ben preciso, di norma il più vasto possibile. Semplicemente, quel target non siamo noi. I prodotti adatti ad interessarci vanno cercati col lanternino.

E se vi sembra che i prodotti culturali del passato fossero mediamente migliori, anche questo ha una spiegazione. Nel passato gli artisti avevano un maggior controllo sulla propria produzione, ed erano necessariamente le menti più brillanti del proprio campo. Non cercavano unicamente denaro e consenso, non producevano per un pubblico massificato: spesso facevano le cose che più gli piacevano.

Quindi era più facile che cogliessero aspetti in grado di interessare il lato estremo della curva, quello di cui anche loro facevano parte, e nel generare una produzione artistica di alto livello trascinavano con sé anche il proprio pubblico. Penso alla musica, alla letteratura, alla pittura, alla danza, ma il discorso può essere esteso a qualunque ambito espressivo.

Nel tempo, la democratizzazione del processo artistico ha fatto sì che gli strumenti di creazione fossero alla portata di un ventaglio sempre più ampio di persone, e la diffusione dei relativi prodotti raggiungesse una capillarità mai vista prima. Questo ha consentito anche ad artisti non eccelsi di generare forme d’arte rudimentali, in grado di raccogliere l’approvazione di un pubblico più vasto, e generare un maggior indotto commerciale, rispetto ad altre forme d’espressione più colte.

La massificazione è un portato del processo di domesticazione che interessa la nostra specie ormai da millenni. Nell’allevamento di massa la ricerca di un nutrimento (intellettuale) per gli individui ‘estremisti’ è uno spreco di tempo e risorse, e non ha un adeguato ritorno sull’investimento.

Perciò continueremo a cercare musica che ci racconti qualcosa di nuovo, mentre intorno a noi risuonano i ‘Tunz-Tunz’ della dance fabbricata in serie. Continueremo a cercare film e romanzi che non siano brutte copie di quanto già visto e letto in passato, scavandoli fuori da canali distributivi sempre più minuscoli e capillari. Continueremo ad attendere proposte politiche sensate, e ad aspettarci che il mondo intorno le accolga.

Lo so, fa male, ma ve lo dovevo dire. Questa è la terra incognita che il mio peregrinare ‘estremista’ ha finito con lo scoprire. Questa è la conoscenza che sono riuscito ad acquisire scampando ai predatori e percorrendo sentieri solitari. Non serve a molto, dato che l’areale di questa specie è impossibilitato ad espandersi, le risorse si vanno progressivamente esaurendo, e non c’è segno che la parte sinistra della curva possa cominciare ad interessarsi al problema. E men che meno provare a reagire.


Update: ho cercato di ragionare la questione da una prospettiva meno personale.

Raccontino #2


Universo 4D

(un racconto di Marco Pierfranceschi)


(porge/dispone/colloca) Si è bloccato!
– Vedo.
– È “Universo 4D”.
– L’ho riconosciuto. È un gioco molto diffuso.
– Piace moltissimo alla mia (appendice/prolasso/falange) (superiore/anteriore/ulteriore) (sinistra/torsione). Per questo vorrei cercare di ripararlo.
– Non è un po’ grandicella per questi trastulli?
(con aria sconfortata) Lasciamo stare. Puoi ripararlo?
– Certo, ne ho aggiustati diversi.
– Ma il problema qual è? Ci capisci qualcosa?
(sospiro/disappunto) Vedi qui? Ha spostato troppo in avanti la coordinata temporale. È un’operazione che non fa quasi nessuno.
– Deve averci giocato troppo a lungo…
– Anche perché la parte iniziale è quella più interessante, dopo diventa abbastanza noioso.
– Va a capire che ci trova!
– Le (appendice/prolasso/falange) non ragionano come noi.
– Dice che la affascinano le civiltà.
– Le civiltà, in questo gioco, non sono davvero un granché. Dovrebbe provare quelle di Metaverso 27D!
– Ne sto cercando uno usato, ma al momento niente. Nel frattempo puoi aggiustarmi questo?
– Prima verifichiamo se il problema è quello che penso io (armeggia un po’ coi comandi). Infatti, come immaginavo.
– Cioè?
– È un problema documentato che affligge alcune versioni della prima release. Vedi questa galassia?
– La spirale?
– Sì. Ora ingrandiamo ed andiamo a cercare un pianeta. Eccolo!
– Quello azzurro?
– Esatto! Su questo singolo pianeta si sviluppa una civiltà atipica che prende ad interagire con la struttura fondamentale della (realtà/matrice/simulata/cognizione) portando al blocco del gioco.
– Cosa???
– Eh, trovano il modo di sfruttare un (bug/errore/metafunzione/entanglement) necessario al funzionamento del sistema. E mandano tutto in ‘crash’.
– Non ci posso credere! Vabbé, ma si può sistemare?
– Certo, ci vuole un attimo. Fammi (ottenere/sintetizzare/materializzare) la ‘patch’… Ecco qui. Ora resettiamo… applichiamo… Fatto!
– Tutto qui? E cosa fa, esattamente?
– Questo è interessante. I (produttori/creatori/taumaturghi) hanno provato a modificare il (bug/errore/metafunzione/entanglement), ma è stata una perdita di tempo. Nessuna alternativa rendeva il gioco altrettanto interessante. Quindi sono intervenuti con una soluzione rimediata ma a suo modo brillante. La ‘patch’ modifica una (fluttuazione/interazione/accoppiamento/virtuale) all’inizio del gioco, e guarda cosa succede (armeggia di nuovo coi comandi)
– È il pianeta di prima.
– Sì, solo che adesso…
– BUM! Bel botto! Cos’era?
– Un asteroide.
– E cosa cambia?
– Estinzione di massa. La civiltà atipica non si sviluppa più.
– Non elegantissimo, ma a suo modo brillante. Ma aspetta (scorre l’asse temporale)… Vedo che la vita riprende. Non si sviluppa una nuova civiltà?
– Ovviamente. Ma questa è una civiltà standard! Sai come funzionano… crescita incontrollata, sfruttamento delle risorse, collasso, estinzione.
– Sì, funzionano tutte più o meno allo stesso modo.
– Per l’appunto! Le civiltà non sono davvero un granché in questo gioco.
– Vabbé, l’importante è che ora funzioni. Quanto ti devo?
– Per così poco? Niente! Alla prima occasione mi offri una (alimento/bevanda/psicotropo/fermentazione) e siamo pari.
– Perfetto, ti ringrazio. A presto, allora!
– Ciao, e divertiti!
– Eh! Ma non è mica per me…!
– Si, certo! Come no? (contrazione/occlusione/strizzamento/assenso)

Fine

Wow

Sui dialoghi

scimmia fumetto

Quando si scrive spinti dall’ispirazione, non si perde tempo a ragionare il processo. Per questo, mentre il mio racconto “La Principessa Scimmia” prendeva corpo, non mi sono messo a sviscerare cosa stessi facendo, né perché. La vicenda si sviluppava e modellava una pagina alla volta, e a me andava bene così. Solo a posteriori ho avuto il tempo di ragionare, a mente fredda e ad opera compiuta, su quello che avevo fatto.

L’esigenza di avere una misura del valore del mio lavoro mi ha portato a confrontarmi con quello degli altri. Nel corso di una passeggiata sono entrato in libreria ed ho iniziato a sfogliare, un po’ a casaccio, volumi di narrativa di autori italiani contemporanei.

Con sommo stupore mi sono ritrovato a pensare, di un autore anche famoso (ma mai letto prima): “ma come scrive questo??”. E, immediatamente dopo: “a che titolo posso permettermi di giudicare gente più affermata di me?”. Da cosa nasceva questa supponenza? Sempre più sconcertato ho quindi messo mano ad un tomo di J. K. Rowling (un volume a caso del ciclo di Harry Potter) che, aperto in un punto qualsiasi, mi ha restituito una prosa ben redatta, efficace, leggibile.

A questo punto mi è tornata in mente una questione emersa più volte nelle discussioni con la mia consorte. Commentando un testo dello scrittore David Foster Wallace (nostra comune passione), Emanuela ha avuto a dire: “Leggendo D.F.W. capisco perché ho lasciato a metà la maggior parte dei libri che ho iniziato a leggere negli ultimi tempi”. “Perché sono scritti male”, ho concluso io al suo posto. “Esatto: perché sono scritti male”, ha confermato lei.

Ragionando su come fosse scritto “La Principessa Scimmia”, la mia prima riflessione ha analizzato la tecnica di scrittura. Come Rowling, sentivo la necessità di realizzare un testo leggibile ad alta voce e facilmente comprensibile anche dai ragazzi, e questo mi/ci ha obbligato a rifinire la prosa in un determinato modo. Ma la risposta, per quanto plausibile, non mi soddisfaceva appieno, mi sembrava incompleta.

Rileggendo il testo per l’ennesima volta (sempre dietro richiesta di mia figlia, che ama sentirselo leggere e partecipa emotivamente delle vicende) mi ha colpito l’efficacia dei dialoghi. Anche i più semplici, come ad esempio quelli che si sviluppano fra e con gli animali (personaggi che nella storia hanno tutti, intenzionalmente, un livello di complessità molto inferiore agli umani), restituiscono una sensazione di verosimiglianza.

Sensazione che, ragionandoci su, discende direttamente dal modo che ho usato per immaginarli, calandomi di volta in volta nel personaggio, pensandomi nei suoi panni all’interno della situazione, dandogli voce. Questa maniera di scrivere le battute mi è parsa, fin da subito l’unica possibile, per cui non sono stato a ragionarci troppo su. Ma poi mi sono dovuto confrontare con l’artificiosità dei dialoghi di altri autori.

Un dialogo appare evidentemente artificioso quando il lettore percepisce che ha l’unica funzione di mandare avanti la vicenda. Come molti ‘spiegoni’, che appaiono nei film per raccontare fatti avvenuti prima di quelli rappresentati, tanti dialoghi scritti finiscono col rappresentare non tanto le necessità dei personaggi, le loro urgenze, ma solo quella dello scrittore di condurre la storia verso la conclusione che ha immaginato.

Non mi è stato semplice ricostruire da chi, e dove, ho appreso il mestiere di scrivere i dialoghi. Sicuramente un grosso imprinting l’ho avuto dal laboratorio di scrittura teatrale cui ho partecipato una decina d’anni fa, condotto da Giampiero Rappa presso il Teatro Piccolo Re di Roma. Lì ci siamo confrontati con l’esigenza di dar voce ad un personaggio, di viverlo, di rappresentarlo in scena.

Il lavoro dell’attore richiede di essere, all’interno della rappresentazione, altro da sé; di provare le emozioni di un altro individuo, di dar loro un corpo, una fisicità, una credibilità. L’attore, il bravo attore, deve ‘indossare’ la vita del proprio personaggio, le sue fatiche, i suoi sogni, le sue ambizioni, e restituirle al pubblico.

Chi scrive per il teatro deve fare un lavoro analogo, ma partendo da zero. Deve immaginare un intero personaggio, con la sua vita, il suo passato, i suoi ricordi, il suo carattere, le sue emozioni, e tradurli in poche battute che siano vere, credibili, efficaci.

La stessa cosa deve fare un bravo scrittore. Con conseguenze analoghe a quelle che coinvolgono l’attore… ovvero che i personaggi, dopo essere stati ‘indossati’, finiscono col rimanerti dentro.

Di cosa parla ‘La Principessa Scimmia’

Sto ragionando, in questi giorni, su quanto sia difficile raccontare di un libro di narrativa senza svelarne i dettagli della trama. Quando poi la trama è caratterizzata da un susseguirsi di situazioni del tutto inattese, risulta quasi impossibile spiegare i motivi di interesse senza finire con l’accennare a vicende che è importante non conoscere a priori. Il libro in questione è ‘La Principessa Scimmia’, da poco disponibile su Amazon.

Di cosa parla il mio racconto? Di molte cose. La protagonista è inizialmente una scimmia, che attraverso il coraggio e la determinazione riesce a riacquistare la propria umanità, solo per trovarsi ad affrontare il mistero della propria esistenza, della quale non ricorda nulla. La giovane donna inizia quindi un lungo viaggio alla scoperta di se stessa e del mondo, ed attraverso una serie di prove dimostrerà le proprie capacità, e saprà farsi accettare per i propri pregi ed abilità. C’è quindi una componente che attiene ai racconti di viaggio, un’altra alle avventure fiabesche, un’altra ancora è rappresentata dalla ricerca e scoperta della propria identità, che nella storia si viene costruendo un pezzo alla volta.

Il racconto è diviso in tre parti nettamente definite, ognuna delle quali rappresenta il riappropriarsi di una porzione necessaria ed importante dell’identità della protagonista. Nella terza parte si lascia spazio a personaggi apparentemente secondari, che si mettono in moto per soccorrere la protagonista e devono perciò attraversare, ognuno nella sua specificità, un percorso di confronto e cambiamento, una messa in discussione delle proprie identità, dal quale escono tutti trasformati e più maturi.

L’universo fantastico che fa da cornice al racconto ha le proprie regole. Gli animali parlano tra loro, e si comprendono tutti, anche fra specie diverse, solo gli umani non parlano più la lingua degli animali, e non la comprendono più da millenni. La civiltà è di tipo pre-industriale. Esistono i maghi, ma sono pochi, e passano più tempo a studiare la magia che non ad esercitarla. I personaggi stessi, per quanto di fantasia ed, in qualche misura, improbabili (i moltissimi animali parlanti su tutti), vivono con estrema coerenza ed umanità la propria condizione, e si finisce con l’accettarli come persone reali.

La magia viene usata come escamotage narrativo, ma in chiave fortemente metaforica. Le trasformazioni che i protagonisti subiscono sono trasfigurazioni di situazioni reali, nelle quale ognuno di noi può trovarsi, o essersi trovato in passato. Umanità ed animalità diventano due facce della stessa medaglia, complementari e non auto-escludenti, trasposizioni di modi diversi di pensare e relazionarsi all’esistenza.

Il Bene ed il Male non sono entità astratte in contrapposizione, emergono semplicemente da diversi approcci alla vita. I ‘buoni’ sono personaggi semplici, attenti a quello che hanno intorno, empatici e rispettosi degli altri. I ‘cattivi’ sono individui vuoti, che non riescono a costruirsi motivi d’interesse all’esistenza non dipendenti dall’opinione altrui, che sono quindi obbligati ad assoggettare.

La scrittura si sforza di essere sempre presente alle vicende narrate. La prosa asciutta ed essenziale mira a fornire le informazioni necessarie e sufficienti a dare corpo e tridimensionalità ai personaggi ed alle situazioni descritte, senza appesantire inutilmente lo svolgersi degli eventi con dettagli sovrabbondanti e superflui, piuttosto lasciando all’immaginazione del lettore la costruzione degli scenari all’interno dei quali i personaggi agiscono.

Rispetto a ciò che accade è meglio non sapere nulla in anticipo. Essendo un viaggio di scoperta, di pagina in pagina ogni nuova rivelazione apre scenari prima inaspettati. Svelare troppo di quello che accadrà significherebbe togliere magia e mistero ad una storia che merita di essere assaporata un passaggio alla volta.

A questo punto non mi resta che augurarvi buona lettura.

PS quadrato

La Principessa Scimmia

PS

Da poche ore è online su Amazon la mia ultima fatica. Si tratta di una fiaba un po’ dark, un racconto fantasy che si sviluppa con toni prima infantili, per poi maturare man mano che la vicenda procede. Il racconto di com’è nato questo libro è già, del suo, una storia che merita di essere narrata.

Nell’accompagnare a letto mia figlia, che ormai ha otto anni, le ho sempre letto storie scritte da altri. Si è addormentata con le fiabe dei fratelli Grimm, con Perrault, con Hans Christian Andersen. Poi le ho letto Il Piccolo Principe, il Pinocchio di Carlo Collodi (nella versione integrale), la Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, di Sepúlveda ed altri ancora, finché non ha insistito perché le raccontassi una storia inventata da me.

Non sentendomi all’altezza, ho deciso di farle uno scherzo innocente, buttando là una fiaba per prenderla un po’ in giro. Siccome la bambina era in una fase di fissa per le principesse, le ho inventato una storia senza capo né coda.

‘C’era una volta una scimmia che voleva diventare principessa. Allora va in giro a chiedere a tutti gli animali “come posso fare?”. Tutti gli animali le rispondono che non si può. Alla fine si fa coraggio, va dal Leone e gli chiede “Re della foresta, come posso fare a diventare una principessa?”. Il Leone le risponde “Non si può!”, e se la mangia’.

Come previsto la nuova storia è stata accolta con notevole disappunto. “Papà, ma che storia è?”. “È la storia della scimmia”, le ho risposto io. E pensavo fosse finita lì. Se non che il giorno dopo mia figlia mi ha avvicinato con una richiesta: “Papà, la storia della scimmia… Puoi inventare un finale dove lei riesce a diventare principessa?”. E come si fa a dire di no ad una figlia?

Solo che, a quel punto, non mi potevo rimangiare le premesse. Gli animali non dicono bugie. Se le avevano detto che una scimmia non poteva diventare principessa, doveva essere vero per forza. Qui nasce il secondo colpo di scena della storia (il primo è come riesce a non farsi mangiare dal leone).

Continuando a sviluppare le idee, ho deciso che la vicenda meritava maggior dignità di un semplice racconto orale. Ho quindi scelto di scriverla, così come era scritto il Piccolo Principe, o Pinocchio, con una prosa adatta ad essere letta ad un bambino. Questo mi ha obbligato ad uno stile di scrittura nuovo, con frasi brevi, ed in cui per ogni battuta pronunciata viene anche specificato quale personaggio la pronuncia. Uno stile di scrittura adatto ad una lettura ad alta voce.

Ma le premesse mi avevano messo in una situazione molto difficile. Una volta che la scimmia (ri)diventa principessa, che tipo di principessa è? Che ci fa in mezzo alla savana? E sono le domande che si pongono sia il lettore che la protagonista. Comincia quindi un lungo viaggio alla ricerca di una storia passata di cui la ragazza stessa non sa nulla.

Scrivendo un pezzo alla volta, a gruppi di poche pagine, la storia prendeva forma e veniva raccontata a mia figlia, che non vedeva l’ora di scoprire le nuove avventure della principessa scimmia, interrogandomi tra una stesura e l’altra su cosa sarebbe successo. La storia prendeva forma in un bizzarro miscuglio di magia e realtà.

Mentre scrivevo, già dalle prime pagine, ho anche compreso che la narrazione poteva essere uno strumento per comunicarle una visione del mondo e delle relazioni umane, diventando uno strumento per insegnare, così come nelle antiche fiabe, delle lezioni di vita.

La scrittura stessa, procedendo in avanti, si è modificata per accogliere situazioni e soluzioni meno schematiche ed infantili quando ho iniziato a proiettarvi i miei timori per quello che attenderà mia figlia con la crescita, evitando di scivolare su soluzioni scontate e prevedibili. Il tutto nei confini di situazioni adeguate e comprensibili ad una bambina della sua età.

Una particolarità di questa storia è che si è articolata senza un’idea preconcetta di quello che sarebbe accaduto. Non ho costruito lo scheletro della storia, andandolo poi a riempire. Ho sviluppato la vicenda un passo alla volta, calandomi nei panni dei personaggi e facendoli agire in base a quello che era accaduto fino a quel punto.

Credo che questo contribuisca all’imprevedibilità delle situazioni, mentre un altro motivo di interesse sono i continui cambi di scenario e l’alternarsi dei personaggi di secondo piano, che entrano ed escono di scena portando con sé le proprie peculiarità e caratteristiche.

Una volta completato lo sviluppo dei personaggi e delle vicende, e confezionato il prevedibile lieto fine, ho quindi sottoposto il mio lavoro al vaglio di un ventaglio molto selezionato di amici e parenti, ricevendone pareri mediamente positivi. Questo mi ha convinto a pubblicare questo bizzarro ed improbabile oggetto letterario.

Mi sarebbe piaciuto farne una versione illustrata, ma fin qui non mi è stato possibile. Sarò contento se la storia piacerà. La sua funzione primaria, divertire mia figlia, è comunque assolta.

Il libro è acquistabile su Amazon in versione e-book e cartacea.

N.b.: mi sono reso conto, a posteriori, di non aver detto molto sui contenuti del libro. Nell’intento di rimediare, ho proseguito il discorso.

La rivincita della fotografia

Da ragazzo, a metà degli anni ’80, mi appassionai alla fotografia. Era un mondo molto diverso dall’attuale, fatto di fotocamere meccaniche, regolazioni manuali, pellicole, camere oscure per stampare da sé le proprie foto, interi corredi di costosi obiettivi da portare sempre con sé.

I materiali erano cari, le pellicole consentivano un massimo di 36 scatti, poi dovevano essere sviluppate e stampate. A meno di utilizzare le diapositive, che comunque necessitavano dell’allestimento di una sala da proiezione per poter essere apprezzate.

Ma, volenti o nolenti, questi erano passaggi necessari per ottenere risultati di qualità. Con la transizione al digitale tutto questo cambiò. Le immagini potevano essere acquisite in grandi quantità, corrette, elaborate, aggiustate, ma soprattutto le dimensioni delle fotocamere continuarono a scendere, fino a scomparire all’interno dei telefoni.

La mia passione per la fotografia viveva, nel frattempo, sorti altalenanti. Non essendo riuscito a farne una professione, come hobby doveva contendersi tempi e spazi con le mie innumerevoli altre passioni, attraversando momenti di grande slancio, seguiti da lunghe pause improduttive.

Collettivamente si assisteva però ad una trasformazione ancora più radicale: l’avvento della telefonia di massa. Il mio primo cellulare non poteva fare altro che chiamare e mandare SMS, il successivo fu poco dissimile. Il terzo montava una rudimentale fotocamera dalla qualità pietosa, che finii con l’utilizzare pochissimo.

Fu circa un decennio dopo, col mio primo smartphone, un oggetto senza grandi pretese, che cominciai a riscoprire il piacere di avere una macchina fotografica perennemente in tasca e pronta all’uso. I limiti di un’ottica a focale fissa, dopo aver posseduto ottiche professionali dall’ipergrandangolare ai lunghi tele, non mi consentirono di prenderla sul serio fin da subito.

Tuttavia ero già stato, per un lungo periodo, abituato ad una fotocamera tascabile a pellicola, una Minox 35GT, con ottica fissa dalle caratteristiche non troppo dissimili da quella dello smartphone. Con quella avevo imparato ad utilizzare i limiti dell’attrezzatura come uno stimolo per tirar fuori riprese comunque interessanti.

E fu così che qualche anno dopo, in occasione di una vacanza in Grecia, decisi di lasciare a casa l’ingombrante fotocamera digitale per lavorare solo ed unicamente con quella integrata nel telefono. Scoprii una cosa sbalorditiva: il fatto di disporre di un’unica inquadratura mi aiutava a comporre le fotografie prima ancora di metter mano allo scatto.

Nel frattempo si andava trasformando l’uso sociale delle immagini fotografiche. L’avvento dei Social Network, la possibilità di condividere con immediatezza e facilità i propri scatti, ha donato nuova vita all’antica arte fotografica. Nuovi media, Instagram in testa, sono stati votati ad ospitare unicamente immagini, finendo col generare un nuovo linguaggio. O forse solo col riscoprirne uno antico.

Pochi giorni fa, trovandomi a dover nuovamente cambiare smartphone, mi sono messo a cercarne uno dalle elevate prestazioni fotografiche. Quello che mi ritrovo ora in tasca non è più un telefono con fotocamera integrata, ma una fotocamera con funzioni di telefonia (e networking).

Il che, a mio parere, rappresenta un po’ la rivincita della fotografia, che finalmente semplificata e messa a disposizione di tutti può rivendicare il proprio ruolo di forma comunicativa alternativa al linguaggio scritto ed alla comunicazione verbale. Funzione un tempo prerogativa di pochi specialisti ed ora democraticamente restituita a tutti.

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(nella foto, il mio vecchio telefono fotografato dal nuovo)

Musica

Nelle scorse settimane una fortunata serie di coincidenze mi ha portato a riflettere sulla musica, sul suo rapporto con la società contemporanea e su quanto sia mutato questo rapporto nel corso del mio arco vitale, un abbondante mezzo secolo nel corso del quale innovazioni stilistiche e tecnologiche hanno più volte modificato modalità e funzioni sociali legate alla fruizione musicale.

La prima di queste ‘coincidenze’ riguarda la messa in onda della serie televisiva Vinyl, centrata sulla scena musicale newyorkese degli anni ’70. Tra le cifre stilistiche della fiction c’è la ricostruzione filologica (tra i produttori figura Mick Jagger) dei live-set degli artisti dell’epoca, all’interno dei quali i protagonisti si trovano ad interagire.

La seconda ‘coincidenza’ riguarda l’oscar a Ennio Morricone per le musiche del film “The Hateful Eight” di Tarantino. Credo che anche qui sia il caso di lasciarsi andare alla musica ed alle immagini, prima di proseguire.

Due universi musicali lontanissimi, indubbiamente, ma con un unico filo conduttore: l’attenzione. La partitura di Morricone muove da una sequenza di poche note per costruire un panorama musicale inquietante e perennemente mutevole. L’ascoltatore è obbligato all’attenzione perché non ha modo di intuire come la musica potrà svilupparsi.

E questo ci riporta (almeno chi ha potuto vivere quel periodo) agli anni dai ’60 alla fine degli ’80. Anni che videro la progressiva diffusione degli strumenti di riproduzione musicale (i dischi in vinile, le audiocassette, quindi i Compact Disk) e l’ascesa di un mercato musicale completamente nuovo.

Per secoli l’ascolto musicale era rimasto limitato alle esecuzioni dal vivo. Solo nella prima metà del ventesimo secolo l’invenzione della radio cominciò a portare la musica nelle case, ma la scelta dei brani da proporre (ed ascoltare) spettava ancora ai disk jockey. Si dovette attendere il secondo dopoguerra, quando il boom economico portò nelle case i giradischi, per la nascita del commercio di musica nella forma in cui lo intendiamo attualmente.

Credo di aver vissuto, nella mia esperienza personale, l’intero ventesimo secolo compresso nell’arco di pochi decenni. Da ragazzo in casa dei miei nessuno sentiva la necessità di ascoltare musica. Per poco meno di vent’anni mi limitai ad una fruizione passiva, principalmente attraverso la televisione. Degli anni ’70 ricordo più che altro l’avvento della disco music e “La Febbre del Sabato Sera”, che ritenni da subito troppo edonistica per potermi entusiasmare.

Nei primi anni ’80 l’avvento delle televisioni private portò finalmente in casa un po’ di musica ‘straniera’, ma l’effetto collaterale fu quello di una baraonda caotica. Mancando di cultura musicale non ero in grado di strutturare una qualsiasi comprensione di quello che andavo ascoltando, oltre ad una comprensione viscerale ed istintiva. Si aggiunga che la qualità dei suoni emessi dall’apparecchio televisivo non era minimamente decente.

D’inverno c’erano le chiacchiere, a scuola, dei tifosi dell’una o dell’altra band, gli appassionati dei Led Zeppelin vs. quelli dei Deep Purple vs. quelli dei Jethro Tull. D’estate c’erano le serate passate a suonare (io solo ad ascoltare) nei garages. C’erano Dire Straits e Pink Floyd e Francesco Guccini che giravano sulle autoradio.

A metà degli anni ’80 mi regalarono un Sony Walkman in grado di restituire una minima fedeltà a quello che arrivava alle mie orecchie. Cominciai a spazzolare dalle librerie Remainders, che si occupavano di commercializzare materiale invenduto (avanzi di editori falliti, o pubblicazioni ‘da edicola’ tornate indietro), a prezzi stracciati, i fascicoli della collana Rock – Storia e Musica, corredati di audiocassette tematiche suddivise per autori.

La collana non proponeva dischi completi, ma una sorta di ‘the best of’ di ogni autore/gruppo, con i brani più significativi (almeno secondo il compilatore). Ricordo ancora la stanza semibuia con un enorme cesto traboccante di fascicoli. Dalla prima spedizione tornai a casa con tre cassette corredate dei relativi pamphlettini: Jimi Hendrix, Bob Dylan e Bruce Springsteen, scelti in virtù di non so quale esatto criterio (la scelta non era comunque vastissima). Quello fu il primo passo: pur non capendo un’acca dei testi, all’ascolto la distanza con la musica ‘commerciale’ risultava siderale.

Credo di aver consumato il nastro di Springsteen durante il servizio militare. ‘Thunder Road’ e ‘Jungleland’ mi facevano compagnia nelle agrodolci serate tra commilitoni in libera uscita in quel di Portogruaro. Fu lì che conobbi Andrea, un ragazzo di Milano dalla sconfinata passione per la musica, che mi aiutò ad organizzare il caos.

La musica divenne quindi un progredire di stili, artisti, filosofie e correnti musicali, e parole come Jazz, Folk, Hard-Rock, Blues, New-Age, Pop, Punk, Progressive, iniziarono ad avere un senso ed una collocazione. Dopo il ritorno a casa non passò molto tempo perché, coi primi guadagni, mi decidessi ad acquistare un impianto stereo.

Avevo abissi di ignoranza da colmare. Iniziai a leggere riviste musicali (“Il Buscadero” e “Il Mucchio Selvaggio” in testa) e a comprare dischi uno dopo l’altro. Una media di un centinaio di dischi all’anno… due a settimana. Per aver modo di ascoltarli dappertutto li copiavo immediatamente su nastro, così da avere con me almeno i più recenti.

Andai avanti così per almeno tre anni, poi qualcosa si incrinò. Vissi il passaggio dal vinile al Compact Disc come una bieca speculazione commerciale: la stessa musica a prezzo doppio su un supporto meno costoso, solo per avere il suono digitale privo di difetti. Non compravo CD perché sovraprezzati, ed al tempo stesso non compravo più vinili perché pensavo che a breve sarebbero spariti dal mercato.

Ma, più che altro, ormai da un po’ i nuovi acquisti non mi raccontavano nulla di nuovo. Avevo saccheggiato in breve tempo due o tre decenni di evoluzione musicale (considerati, a posteriori, i più ricchi di creatività), non potevo aspettarmi miracoli. Continuai a seguire gli artisti cui ero più affezionato. L’unico vero sconvolgimento degli anni ’90 furono, per me, i Nirvana di Nevermind e i Red Hot Chili Peppers di Blood Sugar Sex Magic (peraltro dischi entrambi usciti nel ’91).

Più in là aggiunsi anch’io un lettore CD all’impianto stereo, e nel corso degli anni di CD ne acquistai diversi, recuperando un po’ di cose trascurate ed autori minori. Ma la vita adulta, il cambiamento di lavoro ed abitudini, oltre alla vita di coppia, mi lasciavano molto meno tempo ed attenzione di prima per l’ascolto musicale.

Fa un po’ tenerezza confrontare il mondo musicale nel quale sono cresciuto con quello che è attualmente l’offerta musicale. La diffusione di internet ha portato nelle case quello che non era immaginabile neppure nei miei più folli sogni di adolescente. Praticamente qualsiasi album di qualunque artista è ormai alla distanza di pochi ‘click’, ed è possibile ascoltare musica in qualità digitale praticamente gratis.

Quello che manca, tuttavia, è proprio l’attenzione. Grazie ai “Walkman” prima ed ai lettori mp3 poi (ed infine direttamente agli smartphone), la musica pervade ormai ogni momento della nostra vita. In questa trasformazione ha perso però ciò che più gli dava valore, l’attenzione dell’ascoltatore. Priva della necessità di attenzione l’offerta musicale si è appiattita su soluzioni progettate a tavolino, tanto scintillanti e rifinite quanto piatte ad un ascolto attento.

Per questo l’opera di Morricone, perfettamente a cavallo tra tradizione classica e contemporaneità, spicca tanto drammaticamente. E ci riporta indietro a tempi lontani, in cui la musica aveva un valore. Bisognava recarsi in un negozio ad acquistarla, scegliendo con attenzione. Poi il disco, di cui non sapevi nulla tranne forse un brano ascoltato di sfuggita, veniva estratto e posato con cura sul piatto, la puntina scendeva frusciando leggermente ed il ‘viaggio’ iniziava.

C’era, all’epoca, questa idea che la musica potesse insegnarci qualcosa. I suoni possedevano un’aura magica e misteriosa, non essendo ancora stati cucinati e ripassati infinite volte in infinite canzonette mediocri e commerciali. I cantanti, i musicisti, erano più simili ad antichi depositari di culti esoterici, sacerdoti officianti di ritualità pagane, capaci di evocare sensazioni dai più reconditi anfratti della psiche.

Cosa sia rimasto di quel mondo di grandezze ed eccessi è difficile dirlo. Giovani vite immolate sull’altare di uno star system distruttivo ed autodistruttivo, riti sacrificali basati sull’assunzione massiccia di droghe ed alcool in cerca di verità negate ai comuni mortali. Resta la musica registrata, a testimonianza di mondi culturali e musicali ormai perduti. Che tuttavia il mutare del contesto e della cultura musicale, la fruizione massificata e sciatta, rendono negli anni via via più incomprensibile.

Intelligenza e raziocinio

“Intelligenza e raziocinio sono due cose distinte” (M.B.)

Parto da questa considerazione per una riflessione sull’intelligenza che covavo da un po’  e di cui finalmente ho completato il quadro. Ritengo di poter trattare di intelligenza con cognizione di causa, essendo un problema che da lungo tempo mi affligge.

Generalmente si pensa all’intelligenza come ad una dote, un vantaggio, una ricchezza. Se questo era vero in tempi passati lo è probabilmente molto meno ai giorni nostri (soprattutto in Italia, come dimostrano gli alti tassi di disoccupazione intellettuale nel nostro paese). L’intelligenza, come ogni cosa, rappresenta un vantaggio quando è richiesta ed uno svantaggio quando non lo è.

Sul come e perché si sia venuta a determinare una tale situazione contingente posso formulare solo delle ipotesi. Quello che è avvenuto nel corso dei secoli è, a mio avviso, una progressiva crescita del controllo dell’Uomo sull’ambiente naturale: man mano che allevamento ed agricoltura sostituivano caccia e raccolta, la necessità di abilità superiori si è progressivamente ridotta, continuando a far parte del nostro genoma in termini via via più marginali.

È un processo che ho avuto modo in passato di definire “domesticazione umana”. In maniera analoga a come sono state modificate nel tempo le caratteristiche degli animali da allevamento e delle varietà vegetali, rendendole via via più “produttive” e sempre meno adatte alla sopravvivenza nelle condizioni selvatiche di origine, l’umanità ha trasformato sé stessa, privilegiando alcune caratteristiche a sfavore di altre.

Tali caratteristiche di eccellenza sopravvivono ancora, per quanto minoritarie. Le abilità di tipo fisico trovano una canale di esercizio nello sport, nelle discipline agonistiche e nel mondo dell’intrattenimento circense, quelle intellettuali vengono impiegate nella ricerca scientifica, nel marketing in tutte le sue forme e nell’ideazione di nuove varietà di intrattenimento audiovisivo di massa.

L’intelligenza vissuta come “dote” ha però un inevitabile lato oscuro. Il filosofo Friedrich Nietzsche lo ha condensato in uno splendido aforisma:

“Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”

La “stella danzante” è una metafora per il parto artistico, l’opera di genio, l’espressione più alta delle capacità umane, impossibile ai più. Non è casuale il riferimento alla danza, fusione perfetta di intelligenza e controllo del corpo, creatività ed addestramento, una tra le espressioni probabilmente più alte e complete dell’essere umano.

Ma in questa frase è il riferimento all’intelligenza che ne racconta il “lato oscuro”, dal momento che viene definita come “un caos dentro di sé”. Questa è la condizione perenne dell’individuo intelligente: il caos. Da un lato una fame di nuovo, una curiosità inesauribile (molto spesso frustrata), dall’altro un continuo vortice di idee, concetti, significati, interpretazioni, potenzialità, che rende difficile mantenere la concentrazione.

È un po’ il contrario di come l’intelligenza ci viene solitamente raccontata, e non è un caso. Fin dai tempi dell’illuminismo si è voluto far coincidere l’intelligenza con la razionalità, la capacità di estrarre ordine dal caos, di organizzare un’idea coerente del mondo in grado di spiegare ogni cosa, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.

Ma la razionalità non è che una delle possibili forme che l’intelligenza assume dietro la propria pressione, o meglio una delle possibili risposte ai problemi che l’intelligenza stessa produce, a partire dall’affaticamento del cervello.

Un’alternativa è accettare di vivere il caos, non avere punti fermi, riferimenti fissi, osservare il fluttuare continuo dei confini di ciò che si conosce e diventarne parte. Un’altra possibilità ancora è quella di fermare il moto incessante dei pensieri attraverso tecniche mentali, dalla ripetizione di formule verbali, di mantra, alle tecniche di meditazione orientate allo “svuotamento della coscienza”.

Non da ultimo c’è il ricorso alla chimica, alle sostanze psicotrope in grado di alterare i processi mentali, dall’alcool agli stupefacenti. Il caos mentale produce una domanda di stordimento, un’esigenza di rallentamento dei meccanismi mentali. Una ulteriore risorsa in tal senso è ad oggi rappresentata dalle forme di intrattenimento (si veda, in tal senso, il monumentale romanzo dei paradossi “Infinite Jest”, di David Foster Wallace).

La reazione del primo tipo, la razionalità, produce il pensiero scientifico. La seconda, l’accettazione del caos, produce la maggior parte delle espressioni artistiche. La terza è più tipica di un orientamento mistico religioso. La quarta generalmente non produce nulla ed espone al rischio di forme di dipendenza.

Tutto questo ragionare ha finito col dare nuova luce ad una riflessione molto pessimista formulata diverso tempo fa:

“Abbiamo, come specie, la stessa capacità di pianificazione nell’utilizzo delle risorse di una colonia di virus nell’organismo ospite” (M.B.)

Per lungo tempo ci si è illusi che il raziocinio ci avrebbe salvato da noi stessi. Il grande autoinganno dell’illuminismo è stato proprio confidare che la scienza e la tecnologia avrebbero finito col risolvere i problemi da esse stesse creati.

Purtroppo non è così, e per molti e diversi ordini di questioni. In primis c’è il fatto che parecchi guasti prodotti ex-novo potrebbero, per loro natura, non avere alcuna soluzione (lo stoccaggio a tempo indeterminato delle scorie radioattive prodotte dalle tecnologie nucleari appare essere di questa natura).

In secondo luogo perché anche a quei problemi cui sono applicabili soluzioni dettate dal raziocinio, quest’ultimo potrebbe non essere sufficientemente diffuso da rappresentare una via percorribile. E questo per il semplice, banalissimo motivo che intelligenza e razionalità non coincidono.

Non è la razionalità ad essersi evoluta assieme a noi per garantirci la sopravvivenza, bensì forme di “intelligenza” totalmente irrazionali. L’istinto di sopravvivenza è il primo fra questi, le pulsioni riproduttive e la cura parentale sono altre. In buona sostanza sono proprio le reazioni istintive, ed in altri contesti ed epoche “intelligenti”, che l’evoluzione ha modellato in noi ad impedirci di esercitare quel raziocinio che solo potrebbe (forse) correggere gli eccessi da noi stessi innescati.

Ed il parallelo con la colonia di virus che uccide l’organismo ospite, estinguendosi con esso, non è soltanto un’amara constatazione dei fatti ma anche l’unica possibile evoluzione della situazione attuale. La catastrofe malthusiana è scritta nel nostro DNA.
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La lunga attesa dei mammiferi

Sono reduce dalla visione di un documentario che mi ha chiarito i tempi reali dell’evoluzione dei mammiferi. Pensavo, come credo molti di voi, che i mammiferi si fossero evoluti dai rettili in occasione dell’estinzione di massa di questi ultimi, avvenuta intorno a 65 milioni di anni fa. Niente di più sbagliato, i mammiferi sono molto più antichi.

La linea evolutiva del nostro theria prende il via dal Triassico, 215 milioni di anni fa. A fronte della spettacolare esplosione di forme e varietà avvenuta negli ultimi 65 milioni di anni dobbiamo confrontarci con precedenti 150 milioni di anni di pressoché totale anonimato. Dunque, cosa facevano i mammiferi in quelle interminabili epoche remote?

Bisogna capire a questo punto la ragione delle differenze tra mammiferi e rettili. In breve, i mammiferi svilupparono un metabolismo molto più energivoro di quello dei rettili per mantenere il proprio sangue caldo e riuscire a cacciare di notte. Questo sul lungo periodo produsse una serie di adattamenti come la copertura di pelo, sensi più efficienti ed un cervello più sviluppato in proporzione alle dimensioni corporee.

Non stiamo parlando di grosse creature ma di minuscoli topolini, capaci di muoversi a caccia di insetti nel buio più totale ed obbligati a sparire nelle proprie tane di giorno, quando i rettili riprendevano il dominio del mondo. E questo per 150 milioni di anni.

Una lunga, interminabile attesa, fino al momento in cui il meteorite, precipitando nell’attuale Golfo del Messico, piomberà il mondo nell’oscurità, sterminando i grossi sauri ed aprendo le porte al domino dei mammiferi.

Vi ricorda qualcosa? A me fa venire in mente il romanzo di Richard Matheson: “Io sono leggenda” (non chiedetemi del film, quello non l’ho voluto vedere), in cui il protagonista umano si affanna a combattere ed uccidere i vampiri che hanno invaso il mondo, finché da ultimo si rende conto che un “nuovo mondo” è nato, che i vampiri hanno instaurato una civiltà in sostituzione di quella umana e, in una perfetta inversione di ruoli, adesso il “mostro” è lui che va in giro di giorno ad ucciderli, come prima erano i vampiri ad uccidere gli umani di notte.

Questo è già accaduto, in qualche modo, nel nostro lontanissimo passato. In quell’epoca i rettili dominavano il mondo di giorno ed i mammiferi si muovevano furtivi di notte, minuscoli ed inafferrabili, a caccia di vermi e insetti, portando con sé ed allattando i propri cuccioli. E aspettando.

Ed è lì che probabilmente è nata la nostra fame insaziabile: dalla necessità di alimentare quel sangue sempre caldo che ci scorreva nelle vene. Il passaggio dai rettili ai mammiferi comporta la necessità di un dispendio molto maggiore di energia, sia per la termostabilizzazione che per le esigenze di un cervello molto grosso ed attivo.

Anche per questo, probabilmente, ci è così difficile trovare un equilibrio con l’ambiente circostante. Siamo “creature di carne e sangue (caldo)”, una fame inestinguibile di vita ci brucia dentro. Abbiamo atteso a lungo, ere interminabili, ma quando finalmente è giunta l’occasione ci siamo presi il Mondo.