Orfano della fantascienza

Torno su un tema già esplorato, e tuttavia con poco da aggiungere. Purtroppo sempre più spesso mi ritrovo a girare tra gli scaffali delle librerie ed a constatare la sostanziale estinzione di un intero genere letterario al quale sono da sempre affettivamente legato: la fantascienza.

La maggior parte di quelli che leggeranno questo post faticherà persino a farsi un’idea di cosa stia parlando, abituati a trasposizioni televisive o cinematografiche delle opere più celebri, spesso disastrosamente rimaneggiate, o a prodotti di puro intrattenimento depurati di qualsivoglia complessità.

Risulterà strano anche solo immaginare l’esistenza di una forma letteraria nata con l’intenzione di esplorare i mondi del possibile, le reazioni dell’essere umano all’aprirsi di nuovi orizzonti, la faticosa transizione dall’umano al post-umano, il confronto con forme di vita ed intelligenza diverse dalla nostra.

Tutto questo ha occupato per decenni centinaia, se non migliaia, di autori, alimentato tirature di riviste e collane tematiche, dato vita a case editrici di settore. Pur non rappresentando che una minima parte di quanto scritto e pubblicato in passato i miei scaffali sono pieni di centinaia di volumi, molti dei quali pubblicati in serie economiche, dei quali nelle librerie non vi è più traccia.

Ovvio, non tutti sono dei capolavori, molti rimangono indissolubilmente legati alle epoche in cui furono scritti ed alle conoscenze scientifiche dell’epoca, proporli senza una chiave di lettura critica rappresenterebbe un anacronismo.

Ma quello che colpisce e stupisce un lettore accanito come me è proprio la sostanziale sparizione dell’intero genere dagli appetiti letterari dei lettori. Quello che rimane in vendita nelle grandi librerie è solo la pallida ombra di una produzione letteraria sconfinata, una manciata di autori di culto scomparsi da decenni (P. K. Dick in testa), qualche contemporaneo (Evangelisti) e pochissimo altro.

Paradossalmente va un po’ meglio nelle edicole, dove Urania continua a proporre in collane parallele nuovi autori e classici, ma manca del tutto la permanenza, la possibilità di organizzare un percorso conoscitivo, dato che si tratta di materiale “di consumo” che viene ritirato e mandato al macero il mese successivo a quello di uscita.

Ma anche, va detto, la qualità dei nuovi autori spesso non regge il confronto coi grandi del passato: rara la capacità di stupire, più frequente l’abbandonarsi a cliché narrativi, situazioni stereotipate e prevedibili, prolissità che hanno più a che vedere col mestiere che con la creatività.

L’altra faccia della medaglia riguarda però il lato della domanda, ed è inevitabile constatare che l’abbassamento in termini quantitativi e qualitativi dell’offerta sia il riflesso speculare di un declino della “fame di novità” nei lettori.

Forse siamo soltanto iper-stimolati dalla società dei consumi, che continua a bombardarci di nuovi giocattoli tecnologici senza lasciarci il tempo di assimilare a fondo quelli acquistati pochi mesi addietro. Fatto sta che mai come in quest’epoca di incalzanti trasformazioni tecnologiche siamo divenuti collettivamente refrattari all’immaginario scientifico.

Ad oggi osservo gli spazi desolatamente esigui riservati nelle rivendite ad un genere un tempo floridissimo, mentre a breve distanza gli scaffali del fantasy traboccano di tranquillizzanti e prevedibilissimi vampiri e lupi mannari e maghi e cavalieri, domandandomi se mai la fantascienza si risolleverà dall’oblio, nelle future trasformazioni a cui andrà incontro la nostra società, oppure si stia avviando ad un definitivo tramonto.

L’organizzazione dei contenuti

Il passaggio da Splinder a WordPress ha significato un update radicale di piattaforma, al punto che sto ancora finendo di studiare tutte le nuove potenzialità dello strumento. Una di queste, che trovo essenziale, riguarda l’organizzazione di contenuti particolarmente importanti in una struttura diversa dal tradizionale sistema dei Tags/Categorie.

I più attenti avranno notato che sotto l’header del blog (la foto che al momento cambia ogni tot minuti) sono comparse un po’ di parole chiave, con tanto di “sottomenu”. Man mano che trovo il tempo ci sto inserendo gli scritti a cui sono particolarmente legato, andandomeli a ricercare nell’archivio.

E’ sicuramente un lavoro lungo, e non terminerà a breve (forse mai), in ogni caso per chi vada cercando le cose più significative che ho scritto negli ultimi anni molto probabilmente, prima o poi, le troverà lì.

Il problema dei link

Scrivo questo appunto per spiegare perché i link interni al blog, nei post ereditati da Splinder, non funzionano più, e perché non credo che perderò tempo a ripararli. Attualmente in quasi tutti i post precedenti la “migrazione” i link all’interno sono stati trasferiti tali e quali e rimandano al blog originario, su Splinder.

Nel vecchio blog ogni riferimento a post scritti precedentemente seguiva la definizione di permalink (link permanente) di Splinder, che è differente da quella utilizzata in WordPress, per capirci non basta trasformare il link esistente:

http://mammiferobipede.splinder.com/post/19949222/

sostituendo solo il nome di dominio e trasformandolo in:

https://mammiferobipede.wordpress.com/post/19949222/

perché il (nuovo) link corretto è invece il seguente:

https://mammiferobipede.wordpress.com/2009/02/26/un-vecchio-guerriero-testardo/

Di conseguenza l’unica maniera di sistemarlo consta di:

  1. individuare il post linkato nel nuovo blog e prelevarne l’URL
  2. editare il post contenente il link e correggere l’indirizzamento

In qualche caso, man mano che il tempo passa, procederò a tale correzione, almeno nei post importanti (l’ho già fatto per “Diario di un ritorno alle stelle” ed altri ne seguiranno), ma dubito che troverò il tempo e la voglia di farlo per l’intero blog, che consta di oltre 400 post.

Una soluzione alternativa è che il vecchio post il lettore se lo trovi da solo, usando delle parole chiave e la nuova funzione “cerca” non precedentemente disponibile in Splinder (ora nel menu a destra). Mi rendo conto che non è una soluzione elegante, ma se proprio non vi riesce di rintracciare un post segnalatemelo nei commenti che provvederò a trovarvelo io.

La soluzione al problema delle forature

Chiunque sia andato prima o poi in bicicletta si è trovato alle prese con la più grande seccatura legata a questo mezzo di trasporto: le forature. Si fora per colpa di schegge di vetro, o chiodi, o più frequentemente spine. Dalle mie parti, uscendo in mountain bike nei mesi autunnali, è frequentissimo ritrovarsi dopo anche solo una mezz’oretta di pedalata con qualcosa di simile che spunta dal copertone.

E che si rivela, dopo l’estrazione, nient’altro che una maledettissima spina del tipo chiamato “baciapiedi”. E quando va bene (raramente) è una sola, ma più tipicamente se ne ritrovano diverse conficcate in entrambi i copertoni, tanto che il ciclista si ritrova puntualmente a scomodare diverse divinità.

Dopo diversi anni passati a sostituire e rattoppare camere d’aria, col problema in continuo aggravamento (sarà anche che, con l’evoluzione delle biciclette, ho progressivamente abbandonato i sentieri battuti per addentrarmi in varianti via via più fuoristradali…), ho avvertito la necessità di porre un argine al proliferare delle forature. La prima sperimentazione ha riguardato le fasce in kevlar della Geax.

Queste fasce si inseriscono tra la camera d’aria ed il copertone, costituendo un ulteriore elemento “anti intrusione” da parte di corpi estranei. Nell’arco di diversi mesi ho potuto apprezzare una riduzione anche del 90% delle forature, risultato buono ma non definitivo, dal momento che su dieci spine mediamente una riusciva ugualmente a bucare la ruota.

Le fasce in kevlar hanno un ulteriore vantaggio perché anche in caso di foratura la perdita d’aria risulta notevolmente più lenta che in loro assenza, consentendo spesso di completare il giro senza dover riparare la ruota. In ogni caso dopo qualche giorno ci si ritrova con la ruota a terra e la necessità di provvedere alla riparazione.

Più di recente, però, un nuovo prodotto è giunto ad illuminare una situazione seppur migliorata ugualmente non entusiasmante: le camere d’aria autoriparanti “Slime Lite”.

Queste camere d’aria contengono all’interno un denso lattice di colore verde che ha la proprietà di fuoriuscire al momento della foratura, solidificandosi al contatto con l’aria e sigillando nuovamente il foro, senza necessità di intervento.

Messe alla prova il risultato è stato soddisfacente, ma perfettibile. Alla prima uscita mi sono ritrovato tre spine sulla ruota davanti ed altrettante su quella dietro. Una volta rimosse l’aria ha iniziato ad uscire per poi fermarsi quando la pressione è scesa a sufficienza. In pratica le ruote si sono sgonfiate, ma una volta rigonfiate sono rimaste gonfie, senza ulteriori perdite.

Volendo evitare anche il fastidio di rigonfiarle ho deciso di mettere in opera entrambe le soluzioni, affiancando alla protezione delle fasce in kevlar le camere d’aria autoriparanti. Il risultato è incoraggiante al punto da lasciarmi sperare di aver finalmente realizzato l’antico sogno di ogni ciclista: l’essere sollevato dal flagello delle spine.

A dirla tutta esistono soluzioni più eleganti e leggere, copertoncini “tubeless” latticizzati in testa, ma sicuramente più costose sia come investimento iniziale (è necessario sostituire i cerchi con un modello specifico) che come manutenzione, mentre le camere d’aria autoriparanti possono essere messe in opera facilmente e con poca spesa.

P.s.: dopo diverso tempo ed ulteriori sperimentazioni la soluzione migliore è risultata consistere nella “latticizzazione” delle camere d’aria“.

Il Mammifero migrante

Qualche giorno fa mi era caduto l’occhio su una minuscola informativa nel profilo di Splinder, che mi aveva incuriosito ed inquietato:

Tradotto in soldoni i proprietari di Splinder hanno deciso di smettere di vendere il prodotto Blog, e quando non c’è più sotto un “business plan” tira aria di chiusura. In fondo fa parte dell’idea di offrire uno strumento gratuitamente la possibilità che il fornitore, se non riesce più a guadagnarci con pubblicità o altro, smetta di erogare il servizio.

Con un certo grado di leggerezza ho trascurato di approfondire, se non che negli ultimi giorni l’accesso al blog si era parecchio rallentato e mi sono deciso ad indagare più a fondo, realizzando di essere a pochissimi giorni dalla chiusura definitiva della piattaforma, con conseguente perdita di tutto quello che avevo inserito negli ultimi cinque anni.

Dopo aver affrontato un primo momento di relativo panico (di fatto tutti i miei post vengono redatti con OpenOffice.Org e salvati in un file in locale prima della pubblicazione… ma a parte il lavoro improbo per reinserirli avrei perso ugualmente i commenti dei lettori) mi sono messo alla ricerca di una soluzione che consentisse di salvare capra e cavoli.

Trovata la soluzione si è trattato di metterla in pratica, cosa che mi ha portato via alcune ore e bruciato parecchi neuroni. L’articolo linkato spiega per filo e per segno i diversi passaggi, di volta in volta rimandando ad altri tutorial in rete, ma in buona sostanza si tratta di:

  • installare un webserver in locale
  • scaricare e configurare il pacchetto software di WordPress
  • generare un database
  • scaricare, installare e configurare un plugin “ad hoc”
  • modificare la configurazione di Splinder sostituendo il template
  • avviare l’importazione dal blog di Splinder al DB creato
  • esportare il DB in un file
  • aprire un nuovo blog su wordpress.com
  • importare il file generato dall’installazione locale su quella in rete
  • aggiustare, sistemare, configurare, ecc. ecc.

Se vi sembra “abbastanza un incubo” posso confortarvi sul fatto che lo è, a meno di essere ingegneri informatici, hacker o smanettoni per passione, ed ovviamente vi risparmio tutti i passaggi in cui le operazioni si inceppano ed occorre indagare per capire cos’è che non va (p.e. quando il plugin di importazione ha iniziato ad estrarre solo sei messaggi per mese a causa del fatto che il server di Splinder, nonostante il messaggio di conferma, non aveva recepito i nuovi settaggi…)

Al termine di questa “lunga traversata” mi ritrovo in una nuova casa, con uno strumento tutto da scoprire ma discretamente più articolato del precedente e tutta una serie di piccoli e grandi problemi, non ultimo il fatto che molti dei link interni al blog non funzionano più (al momento rimandano ancora a Splinder) ed altri indirizzati ai blog della stessa piattaforma (Romapedala in primis) dureranno finché Splinder esisterà.

Se WordPress.com sarà la nuova “terra promessa” oppure mi troverò a dover nuovamente ed ancora migrare/emigrare altrove non lo so dire. Auguratemi buona fortuna…

Back in G.S.A.

Oggi ho approfittato della bella giornata per ripercorrere il tracciato del Grande Sentiero Anulare e verificarne lo stato di salute. La buona notizia è che il G.S.A. c’è ancora tutto ed è interamente percorribile. La notizia cattiva è che non si vedono progressi, anzi, la parte del percorso che si sviluppa su piste ciclabili appare in stato di semi abbandono.

In Caffarella sono comparse delle recinzioni di cui non si comprende l’utilità, anche se fin qui relativamente innocue (ma brutte). La discesa da Testaccio all’argine “povero” è malmessa come sempre, e data la stagione piena di fango e pozzanghere. Ma il tratto più desolante è quello seguente, coperto di foglie, guano e rami spezzati. Viene da pensare che l’unica pulizia la faccia il Tevere con le sue piene.

Sotto Ponte Sisto incontro… un clown, con tanto di abito a colori sgargianti e bombetta. Se andare in bicicletta non fosse già del suo abbastanza fuori dagli schemi apparizioni di questo tipo lo rendono ulteriormente bizzarro. All’altezza dell’Ara Pacis passo sull’altro lato e proseguo come da copione, salvo andare a sbattere contro il cantiere del Ponte della Musica.

Quest’opera racconta più di ogni altra il “veltronismo”: un ponte ciclopedonale costruito per collegare un marciapiede con un altro marciapiede, che passa al di sopra di una pista ciclabile senza traccia di rampe di collegamento con la ciclabile stessa! E suona! Il Ponte della Musica “suona” grazie a degli altoparlanti che diffondono nell’aria le note di un violino (almeno stamattina era un violino… tra le altre cose ho ascoltato una sorta di versione yiddish dell’inno d’Italia: veltronismo al quadrato).

In tutto questo, in attesa che almeno la percorribilità della pista ciclabile sia ripristinata, sul marciapiede largo un metro scarso i ciclisti fanno lo slalom tra i pedoni, per la gioia di entrambi. Raggiungo Ponte Milvio e mi concedo un break a base di pizza e chinotto, quindi attraverso il ponte “di Moccia” (lo scrittore) inorridendo per le ringhiere artificiali dove i “mocciosi” continuano ad appendere lucchetti in quella che è sicuramente una delle mode più idiote dell’ultimo decennio.

Da qui a Ponte Nomentano va in scena la sciatteria con cui Roma gestisce le poche e malandate piste ciclabili: fondi sconnessi, foglie scivolose, segnaletica orizzontale scolorita, piste che terminano nel nulla per poi riapparire da qualche altra parte (Auditorium), automobili parcheggiate in sosta d’intralcio sulla pista, segnaletica verticale carente e tutti, tutti i problemi segnalati fin dall’inaugurazione.

Da ponte Nomentano a Ponte Milvio va un po’ meglio, la riserva dell’Aniene è tutta pedalabile. Sulla Palmiro Togliatti decido di tirare dritto evitando l’ultima parte “off-road” che comunque conosco abbastanza bene. Decido invece di collegare insieme i due monconi affrontando il cavalcavia privo di corsia ciclabile (…piste che finiscono e poi ricominciano a chilometri di distanza, tanto per cambiare…).

Concludo il tracciato passando per il Parco degli Acquedotti, ci arrivo percorrendo viale Giulio Agricola, la cui ciclabile è impercorribile a causa del cantiere di un PUP bloccato da un paio d’anni dalle proteste dei residenti. Al momento niente PUP, niente cantiere, niente ciclabile e nemmeno i platani secolari che con un blitz furono tagliati una mattina d’estate, prima che i residenti di viale Giulio Agricola fermassero le ruspe.

Insomma, dopo anni di chiacchiere su chiacchiere, di piani quadro rimbalzati dal comune ai Municipi e quindi di nuovo al Comune, di uffici biciclette che scompaiono e riappaiono, di assessori che si impegnano poi non si fanno più vivi, poi vengono sostituiti dal rimpasto di giunta, poi si ri-impegnano e ri-spariscono, di piste finanziate, definanziate, cassate, di GRAC (GRande Anello della Ciclabilità… che fa capolino dalle interviste dopodiché torna di nuovo lettera morta), almeno il G.S.A. resiste.

P.s.: guardate le date dei post che ho linkato, c’è veramente di che deprimersi!

UPDATE (2013): il materiale aggiornato sul GSA è ora reperibile sul relativo blog.

Il Re Volante


Oggi vi racconto una fiaba. Non è mia, ma di Terry Jones, ex membro dei Monty Python. Mi ci imbattei per la prima volta poco più di un anno fa e, penso come tutti gli adulti, il confronto con una forma di narrazione rivolta ai bambini mi colse impreparato. Ma è una fiaba particolare, una fiaba dalla morale amara, che racconta di un patto scellerato ed in cui il “vissero felici e contenti” finale funziona solo nel rassicurante contesto della storia, mentre nel mondo reale, quello in cui tutti viviamo, avviene l’esatto contrario.

Ora, a distanza di più di un anno, mi sono deciso a rimetterci mano per tradurre in italiano l’originale in inglese (non credo che il libro di fiabe di Jones sia mai stato tradotto e pubblicato nel nostro paese, al limite potreste trovarlo ed ordinarlo su Amazon). Il motivo che mi ha spinto a ciò ve lo rivelerò al termine del racconto.


IL RE VOLANTE

C’ERA UNA VOLTA un diavolo dell’inferno chiamato Carnifex, a cui piaceva mangiare i bambini piccoli. Alle volte gli piaceva prenderli vivi per frantumarne tutte le ossa, altre volte preferiva strappargli la testa, oppure picchiarli con tanta violenza da spezzar loro la schiena come un ramo secco… Oh, non c’era limite alle cose terribili che era in grado di fare. Ma un giorno, Carnifex scese dal suo letto all’inferno e si rese conto che non gli era rimasto più nemmeno un bambino. “Ho bisogno di un approvvigionamento regolare”, si disse. Così andò in un paese che sapeva essere governato da un re estremamente sciocco. Lo trovò nella sua stanza da bagno (che conteneva oltre un centinaio di vasche) e gli disse: “Maestà, Vi piacerebbe poter volare?” “Certamente”, disse il re, “ma cosa vuoi in cambio, Carnifex?”

“Oh… non molto in realtà”, rispose Carnifex, “vi renderò in grado di volare tanto in alto quanto vorrete, alla velocità preferita, semplicemente alzando le braccia così”, e mostrò al re come avrebbe potuto volare. “Mi piacerebbe essere davvero in grado di farlo”, pensò il re. “Ma che cosa vuoi in cambio, Carnifex?” chiese ad alta voce. “Guardate! Fate una prova!” rispose Carnifex. “Allargate le braccia… ok, bene così… e ora si parte!” Il re allargò le braccia e subito iniziò a salire sempre più in alto, fino a quando fu sopra le nuvole, e volò come un uccello in un giorno d’estate. Poi atterrò di nuovo di fianco al diavolo e gli chiese: “Cosa vuoi in cambio, Carnifex?”

“Oh, niente di importante”, rispose Carnifex. “Voglio solo un bambino al giorno, in cambio potrete volare dove e come vorrete”. Ora il re era davvero molto desideroso di poter volare in quel modo, tuttavia conosceva le cose terribili che Carnifex faceva ai bambini, così scosse la testa. “Suvvia, ci sono migliaia di bambini nel vostro regno”, rispose Carnifex. “Io ne prenderò soltanto uno al giorno… il popolo quasi non se ne accorgerà.” Il re rifletté a lungo, perché sapeva che era una cosa cattiva, ma il pensiero di dover camminare per andare dove voleva, ora che aveva assaporato l’ebbrezza del volo, gli apparve una cosa talmente lenta e noiosa che alla fine accettò. E da quel giorno poté volare.

Da principio tutti i suoi sudditi rimasero molto colpiti. La prima volta che prese il volo una grande folla si radunò nella piazza principale e tutti stettero lì a bocca aperta mentre guardavano il loro re che a braccia distese, saliva in aria, per poi volare oltre le nuvole e fuori di vista, quindi piombare giù di nuovo e volare basso sopra le loro teste, mentre tutti applaudivano e festeggiavano. Ma dopo pochi mesi era diventato uno spettacolo talmente comune vedere il re volare sopra la città che smisero di farci caso. In realtà qualcuno cominciò perfino a risentirsi. Ed ogni giorno una qualche famiglia povera scopriva che uno dei loro bambini era stato preso dal diavolo Carnifex.

Ora la figlia minore del re aveva una bambola preferita, ed era così realistica che l’amava e la trattava esattamente come se fosse un bambino in carne ed ossa. Aveva l’abitudine di intrufolarsi nel bagno del re (quando lui non stava guardando) per fare il bagno a questa bambola. Accadde così che stava facendo proprio questo il giorno in cui il re stipulò il suo patto con Carnifex, e così lei sentì ogni parola che si scambiarono. Naturalmente era terrorizzata da quello che aveva sentito, ma poiché le ragazze non erano granché considerate in gran parte del regno a quell’epoca, e siccome era l’ultima e la più insignificante di tutte le sue figlie, non osò raccontare a nessuno ciò che era accaduto.

Un giorno, tuttavia, Carnifex venne e prese il figlio favorito del re. Il re si immerse nello studio del bilancio e non disse una parola. Più tardi, quel giorno, se ne andò per un lungo volo e non ritornò che dopo il tramonto. Ma la madre del ragazzo era così sopraffatta dal dolore che si mise a letto e sembrò sul punto di morire. Allora la figlia più giovane andò da lei, come sempre stringendo la sua bambola preferita, e le disse tutto ciò che sapeva. A quel punto il dolore della regina divenne rabbia contro il re. Ma lei era una donna astuta, e sapeva che se fosse andata dal re a lamentarsi lui, come nulla, poteva farle tagliare la testa prima che potesse pronunciare un’altra parola. Così, invece, si vestì come una mendicante e, portando la figlia più giovane con sé, strisciò fuori dal palazzo nel cuore della notte.

Quindi andò girando per il regno in lungo e in largo, domandando attenzione. E, ovunque andasse, sistemava la sua figlia più giovane in piedi su uno sgabello, mentre stringeva la sua bambola preferita (che tutti pensavano fosse un bambino vero), a raccontare la sua storia. E tutti coloro che ascoltavano il racconto dicevano: “Ecco com’è che il re può volare!” E così furono tutti pieni di rabbia contro il re.

Alla fine l’intero popolo, da ogni angolo del regno, si recò dal re per protestare. Si erano riuniti tutti nella piazza principale e il re svolazzava sopra di loro, visibilmente a disagio. “Non sei degno di essere il nostro re!” il popolo gridò. “Hai sacrificato i nostri bimbi solo per poter volare!” Il re volteggiò un po’ più in alto, in modo da essere fuori portata, quindi ordinò a tutti di tacere e gridò: “Carnifex! Dove sei?” Ci fu un lampo ed un odore di zolfo, e Carnifex il diavolo apparve seduto in cima alla fontana al centro della piazza.

Immediatamente un grido si levò dalla folla, qualcosa a metà tra la paura e la rabbia, ma Carnifex gridò: “Ascoltate! Capisco come vi sentite!” Furono tutti piuttosto sorpresi da queste parole, ed alcuni cominciarono a pensare che forse Carnifex non era poi così malvagio, dopo tutto. Alcune delle signore cominciarono addirittura a trovarlo affascinante, in qualche diabolica maniera… Ma la figlia più giovane del re si alzò in piedi sul suo sgabello, e gridò: “Lui è un diavolo! Non ascoltatelo!”

“Sì, certo”, disse Carnifex, leccandosi le labbra alla vista della ragazzina che stringeva ancora la sua bambola preferita. “Ma posso ugualmente comprendere la situazione tragica dei genitori che vedono i loro amati figli strappati via sotto i loro occhi…” “Beh! Sorprendente!” disse più d’uno al suo vicino. “Chi avrebbe mai pensato che fosse un tale galantuomo?” sussurrò più di una casalinga alla sua migliore amica. “Non ascoltate!” gridò la figlia più piccola del re.

“Allora vi dirò quello che farò”, disse Carnifex, senza mai distogliere gli occhi luccicanti dalla ragazzina che stringeva a sé quello che lui pensava fosse un neonato. “Vi darò una compensazione per le vostre tragiche perdite. Vi lascerò volare tutti!” E indicò il re, che volò su e giù per un po’ e infine eseguì un avvitamento verticale, solo per mostrare loro esattamente come sarebbe stato. E non vi fu una sola di quelle brave persone che non si riempì di un desiderio quasi insopportabile di unirsi a lui in aria. “Non ascoltatelo!”, gridò la ragazzina, “Vorrà i vostri figli!”

“Tutto quello che chiedo”, disse Carnifex con la sua voce più carezzevole, “è solo un piccolo… piccolissimo… bambino al giorno. Sicuramente questo non è chiedere troppo!” E, sapete, forse vi erano uno o due laggiù tra la folla così rapiti dalla voglia di volare che sarebbero stati d’accordo, se non fosse successo un fatto imprevisto. La figlia più piccola del re improvvisamente si alzò in punta di piedi, sollevò la sua bambola preferita in modo che tutta la gente potesse vedere e gridò: “Guardate! Questo è quello che farà ai vostri figli!” E, detto questo, scagliò la bambola, che lei amava tanto, giusto in braccio a Carnifex.

Naturalmente questo fu troppo perché il diavolo potesse resistere al proprio istinto. Pensando che fosse un bambino in carne ed ossa, in quattro e quattr’otto gli strappò la testa e la ridusse a brandelli. E quando la folla vide Carnifex apparentemente smembrare un neonato vero (poiché nessuno di loro sapeva che fosse solo una bambola) improvvisamente tornarono in sé. Cacciarono un grido rabbioso, e conversero con i visi stravolti dal disgusto dove Carnifex stava accovacciato, insultandolo e minacciandolo. Non so cosa avrebbero fatto se lo avessero preso, ma prima che potessero afferrarlo Carnifex fece un salto dalla fontana proprio sulla schiena del re volante, e con un grido di rabbia e delusione se lo trascinò giù all’inferno cui ormai appartenevano entrambi.

Dopo questi fatti il popolo diede alla figlia più giovane del re una nuova bambola altrettanto realistica della precedente, e le fu concesso di farle il bagno nel bagno del castello tutte le volte che voleva. Per quanto riguarda Carnifex, tornò ogni anno per cercare di indurre la gente a rinunciare a un solo bambino al giorno per lui. Ma, qualsiasi cosa offrisse loro, essi non dimenticarono mai quello che gli avevano visto fare quel giorno, e così rifiutarono, e lui se ne dovette tornare sempre a mani vuote. Tutto questo avvenne centinaia e centinaia di anni fa, e Carnifex non riuscì mai più ad inventare qualcosa che potesse convincerli.

Ora, però, si potrebbe giustamente pensare che Carnifex fosse un diavolo terribile, e si potrebbe anche pensare che il re volante fosse un uomo terribile per dare quei poveri bambini in pasto a Carnifex solo per poter volare. Ma vi dirò qualcosa di ancora più sorprendente, ed è che al giorno d’oggi, proprio qui in questo paese, noi lasciamo che non uno… non due… non tre… ma venti bambini ogni giorno abbiano la testa fracassata o la schiena spezzata o siano schiacciati vivi… e nemmeno per poter volare, ma solo per poter andare in giro guidando delle robe che chiamiamo automobili. Se l’avessi letto in una fiaba io non ci avrei creduto… E voi?


Il motivo che mi ha fatto ripensare a questa storia è un incidente occorso pochi giorni fa a Milano: un’auto che si ferma in doppia fila, una portiera aperta senza guardare, un ragazzo in bici di dodici anni che scarta di lato, un tram che sopraggiunge e lo uccide sul colpo. L’ennesima tragedia annunciata, figlia di cattive abitudini, di distrazione, dell’assenza di infrastrutture e di controlli, di tanta, troppa pigrizia ed indifferenza da parte di tutti noi.

Secondo la fiaba di Terry Jones è il diavolo che ci seduce per mezzo delle automobili, ma siamo noi che cediamo alle sue lusinghe e gli regaliamo le vite dei nostri bambini ed anziani. Una chiave di lettura molto rudimentale, infantile forse, ma anche tragicamente esatta.

Gettare la spugna

Le trasformazioni della rete e del modo in cui siamo abituati ad usufruirne scorrono incessantemente ormai da diversi anni, trascinando a valle cocci e relitti di varia natura. Non ultimo tra essi questo blog, accompagnato dall'idea stessa di blog che solo cinque anni fa mi convinse ad aprirlo. Difficile dire, a questo punto, cosa sia cambiato di più nel frattempo, se io o il mondo.

Questo blog nasceva, ad inizio 2007, con l'idea di dar vita ad uno spazio di confronto e discussione. A fine 2011 mi appare ormai come uno spazio rivolto ad un soliloquio digitale. Non saprei dire se mi pesi di più il fatto che i miei quattro lettori siano poco interessati a quello che scrivo, o il non esservi più interessato io stesso. Dovendo usare un paragone per rappresentarmi l'unico che mi viene in mente è un personaggio che per hobby "invia segnali nello spazio", memoria di un film semi-assurdo degli anni '80 ("True Stories", per la regia di David Byrne).

Lo "spazio", ora come ora, è la vastità della rete, che nel frattempo si è sovrappopolata di "messaggi" al punto da risultare una cacofonia totalmente caotica e pressoché ingestibile. Il meccanismo straordinario degli hyperlink, unito all'onniscenza dei motori di ricerca, se da un lato consente l'approfondimento capillare di ogni possibile argomento, dall'altro produce una dispersività frattale in ogni possibile direzione. Non so se il "rimbambimento" che provo al termine di ogni sessione in rete sia il riflesso di un dato generazionale o altro, ma la vivo giorno dopo giorno come una fatica vieppiù insostenibile.

Da qui la disaffezione ad un mezzo, questo blog, che di fatto non mi sta portando da nessuna parte. Ho già scritto molto in passato, forse troppo… la sensazione di ribadire concetti già espressi è soverchiante. L'inutilità di ripetere all'infinito la stessa strada, la stanchezza derivante da panorami già visti, mi frena dallo scrivere ancora ed abbatte in partenza la volontà di farlo.

Il blog non chiuderà, né oggi né domani, ma sento che è arrivato ad una sorta di ideale capolinea, sovrastato ed annientato da altre forme di comunicazione più immediate ed efficaci, o semplicemente più fagocitanti (Facebook in testa). Ringrazio tutti quelli che mi hanno seguito fin qui, con pazienza ed affetto, e mi scuso se non sarò in grado di alimentare le aspettative cui implicitamente ho dato vita con i miei scritti nel corso degli anni. A presto, comunque.

Chi sorveglia i sorveglianti?

copertina watchmen
Il 1986 è stato un anno di svolta per quanto riguarda i fumetti di supereroi. In quell’anno uscirono due lavori monumentali che cambiarono irreversibilmente il modo di intendere gli “eroi in costume”. Del primo, “Il ritorno del cavaliere oscuro” di Frank Miller, ne avevo parlato a suo tempo. Il secondo, “Watchmen” di Alan Moore e Dave Gibbons, ho atteso qualche decade di troppo prima di procurarmelo e finalmente leggerlo.

Come negli anni ’60 Stan Lee aveva intuito che l’unica maniera di rendere interessanti i fumetti di personaggi con superpoteri fosse quella di raccontarne i problemi personali e le complicazioni date dal loro essere “speciali” sulla vita di tutti i giorni, così negli anni ’70 ed ’80 è andata lentamente maturando l’idea di fare un ulteriore salto di qualità, rendendo i superumani ancora più umani.

In tutto ciò il lavoro di Miller, operato su un personaggio stranoto come Batman, risulta scioccante se paragonato all’eroe pop e scanzonato portato in tv negli anni ’60, mentre quello di Moore & Gibbons appare ancora più radicale nel volersi tirar fuori da ogni “continuity” e ridefinire ex-novo l’intero concetto di supereroe. Moore inserisce i suoi personaggi un universo ucronico, in cui la presenza di eroi mascherati ha leggermente modificato il corso degli eventi, portando il mondo ancora più vicino alla catastrofe nucleare.

In “Watchmen” i giustizieri in costume sono persone senza superpoteri che combattono la delinquenza armati solo di doti atletiche, di un’intelligenza superiore e di qualche gadget, ma non sono immuni dai vizi umani: ci sono fra loro stupratori, assassini a sangue freddo, criminali di guerra, il tutto mescolato in un mix inestricabile. L’essersi elevati al di sopra dei “comuni mortali” li pone in un limbo etico-morale a sé stante, il confrontarsi quotidianamente con la violenza li porta ad accettarla come naturale ed inevitabile, il trovarsi anno dopo anno a fronteggiare generazioni successive di criminali fa perdere ad alcuni di loro la percezione dei confini etici. Al punto da obbligare il governo degli Stati Uniti a dichiararli fuorilegge.

L’unico personaggio a discostarsi drasticamente da questo cliché è anche quello realmente dotato di superpoteri, a livelli semidivini. In un singolare parallelo con il Superman di Miller, arruolato permanentemente dal governo USA come arma strategica, anche il Dr. Manhattan combatte le “sporche guerre” americane (portando p.e. alla vittoria del conflitto in Vietnam), ma matura nel tempo un’alienazione via via più marcata dalle proprie origini umane, accettando o forse meglio subendo il nuovo retaggio sovrumano. La possibilità di manipolare la materia a livello subatomico, la perdita del proprio corpo sostituito da un simulacro di color azzurro, la percezione degli avvenimenti futuri come contemporanei al presente, lo rendono alieno perfino a sé stesso.

Allan Moore non si accontenta di riscrivere da capo un’intera mitologia. Intenzionato a dar vita ad una sorta di “Moby Dick del fumetto di supereroi” (sono parole sue) arricchisce la narrazione, anche sul piano visuale, di continui rimandi, richiami e citazioni, producendo nel contempo un alternarsi di diversi piani temporali che sviluppano l’approfondimento dei personaggi in una maniera fino a quel momento mai vista. Gibbons, il disegnatore, del suo ci mette una impressionante ricorsività di simboli, rendendo ogni singola tavola un puzzle di ardua decifrazione.

“Watchmen”, nell’ambito fumettistico, ottiene un risultato ancora più immediato e drammatico di quello operato dal capolavoro di Melville per la letteratura. Dopo la sua pubblicazione tutte le storie di supereroi appaiono grossolane ed infantili, e le varie testate fanno a gara per adeguarsi al nuovo standard. Il genere, nato per un’audience pre-adolescenziale, tenta il grande salto per agganciare un pubblico più adulto… fermandosi però a metà del guado.

Letto a venticinque anni dalla sua uscita, “Watchmen” conserva ancora una potenza narrativa impressionante, intrecciando alle proprie radici pop collegamenti con le forme artistiche più classiche, dalla letteratura alle arti iconografiche, andando a pescare riferimenti dalle “Satire” di Giovenale alla pittura simbolista, utilizzando una scansione di taglio cinematografico per le tavole e forme altamente evolute di narrazione.

L’opera nel complesso rappresenta una riflessione sul superamento dei propri limiti, e sulle drammatiche conseguenze che sia il successo sia il fallimento in questo intento comportino. Come il superuomo di Nietsche i protagonisti di “Watchmen” sono obbligati a ridefinire progressivamente i propri confini etico-morali fino al punto, in qualche caso, di perderli del tutto.