"Creature di carne e sangue"

Da oggi cambia la seconda riga dell’intestazione di Mammifero Bipede.

La precedente: "Schegge di Pensiero Liberate ad un Dialogo col Mondo" va in pensione insieme a tutte le sue buone intenzioni. Il "dialogo" è stato abbastanza al di sotto delle aspettative (le "mie" aspettative, come al solito eccessive…) e forse, come in diversi mi hanno fatto notare, lo stile dei post poco si presta ad un dialogo. Ne faccio tesoro.

Non sono scontento, ad oggi ho una cinquantina di contatti al giorno, più di un centinaio a settimana, anche se non so chi e perché: gente che mi segue con continuità o capita per caso sul blog grazie ai motori di ricerca. Non so chi siate, e forse non lo saprò mai. Un tempo pensavo che fosse importante, adesso molto meno. Mi piacerebbe conoscervi tutti/e, ma credo sia impossibile.

La nuova frase nasce come parte di una poesia, dal desiderio di descrivere in pochi concetti cosa significhi essere "umani". Chi ha più confidenza con la poesia può smettere di leggere qui, chi ne ha meno forse troverà giovamento dalla spiegazione che segue.

"Creature di carne e sangue"
La prima parte ci parla dell’essere vivi, del ribollire di emozioni che pulsa sotto la nostra pelle, dell’appartenere alla vita. Non siamo macchine, non siamo statue, non siamo intelligenze astratte. Siamo corpi, sistemi complessi, fragili, esposti, in continuo scambio con l’esterno.

"ossa curvate dal tempo"
La seconda parte racconta della non estemporaneità. Viviamo attraversando un arco temporale che ci modella, ci cambia, forza il nostro destino e prima o poi troverà conclusione. Questo tempo è l’arco della nostra vita, viviamo cambiando e lasciandoci cambiare, trasformando e lasciandoci trasformare. E nella consapevolezza del nostro essere "finiti", nell’accettazione di poter attraversare solo una piccola parte del tempo del mondo, sta anche la nostra grandezza.

"e sogni di felicità"
In ultimo, oltre a quello che è parte della nostra interazione col mondo, resta il nostro mondo personale. La felicità è un sogno, qualcosa di non definibile a partire solo dalla semplice materia di cui siamo fatti, qualcosa che nasce da noi. Ci eleviamo al di sopra di quello che siamo perché siamo in grado di sognare, e di immaginare qualcosa che chiamiamo "felicità". Un’idea che appartiene solo all’essere umano, e nessun esperimento scientifico potrà mai misurare.

Avevo immaginato di dare una descrizione minima ed efficace di "esseri umani" in un massimo di quattro righe… ne sono bastate tre.

Minicervello

Una delle teorie più affascinanti della scienza neurologica è quella secondo cui utilizziamo solo il 10% delle nostre capacità cerebrali, il restante 90% sta lì, non si sa bene a fare cosa. Su quest’idea hanno sguazzato per anni gli appassionati di fantascienza e del paranormale, fantasticando che il cervello possa essere la sede di facoltà mentali perdute nel corso dell’evoluzione, come la telepatia, o altre ancora più bizzarre.

Certo l’idea che l’organo al quale dobbiamo la nostra identità sia composto al 90% da cellule inutili o inutilizzate ha sempre destato la mia perplessità. Da pochi giorni, però, la medicina ha dimostrato come questa stima, più che in eccesso, potrebbe invece essere probabilmente in difetto.

Secondo questo articolo di Repubblica.it, che dà conto di un caso individuato in Francia, una persona venuta alla luce più di 40 anni fa con un danno cerebrale notevolissimo vive, nonostante ciò, una vita perfettamente normale. E stiamo parlando di un cervello che, oltreché danneggiato da un’idrocefalia prenatale, si è sviluppato ad un volume pari ad 1/10 del normale… il volume, per capirci, di una palla da tennis!

Che dire? Uno se ne sta bello tranquillo con le sue convinzioni, e da un giorno all’altro arrivano notizie come questa e deve rimettere in discussione tutto quello che credeva di sapere…

La prima considerazione che mi viene da fare è che se ha un senso, ai fini strettamente evolutivi, avere una ridondanza tale da consentire al cervello (ed all’individuo che lo "ospita") di sopravvivere a traumi gravi, una ridondanza del 90% o più è comunque inaspettata. La seconda è che da oggi possiamo di nuovo immaginare che creature molto più piccole di noi (scimmie, ma anche gnomi, "hobbits", perfino cani e gatti), con cervelli strutturati ed organizzati in modi più efficienti, possano avere capacità intellettive pari, se non superiori, alle nostre attuali.

Vengono in mente i romanzi di David Brin del ciclo dell’ "Elevazione", in cui l’umanità sviluppa la scienza medica al punto da rendere specie senzienti e dialoganti i delfini e gli scimpanzé (che poi cominciano ad elaborare delle proprie culture molto diverse dalla nostra).

Ma sovvengono anche fantasie di altro tipo, per esempio la possibile esistenza di "osservatori" extraterrestri camuffati da animali domestici, che tengono d’occhio la nostra specie dall’alba dei tempi, aspettando con pazienza il raggiungimento di un grado di sviluppo sociale e culturale soddisfacente.

Pensateci, la prossima volta che il vostro gatto mostra di guardare con troppa attenzione la tv.

La mala volontà

Ci sono cose che non si comprendono immediatamente. Ad esempio una, che fino a pochi giorni fa non mi era così lampante, è la "cattiva volontà" di molti "organizzatori" nei confronti delle iniziative di altri. Parlo per quello che è il pezzetto di mondo che conosco, ovvero i gruppi ed associazioni che a Roma si occupano di biciclette.

Già quattro anni fa, entrando in contatto con gli attivisti di Critical Mass, non mancò di stupirmi il fatto che nessuno di loro (e parliamo di diverse decine di persone) avesse mai partecipato alle escursioni proposte dall’associazione Ruotalibera-Fiab di cui ero, all’epoca, presidente.

Allora ne diedi la colpa alla forte componente politico/ideologica di quel movimento. A distanza di anni vedo però riproporsi dinamiche del tutto simili quasi ovunque, ne devo necessariamente dedurre un tratto comune.

Per quale motivo persone dichiaratamente appassionate di qualcosa tendono a restringersi in gruppi piccoli, poco permeabili ed altrettanto poco propensi a scambi di esperienze? La paura di confrontarsi coi "simili ma diversi"? L’esigenza di frequentare solo persone idealmente affini?

Per me resta un mistero, indagherò. Nel frattempo ho battezzato questa modalità: "noi siamo i giusti e tutti gli altri sono str***i".

In tournee

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Domenica 22 luglio 2007, ore 6.15, il sole fa capolino tra l’orizzonte di colline che circonda Foligno. Mi sono svegliato prima degli altri e cerco di tirare le fila di questa "mini tournee" di tre giorni che ci ha portato l’altro ieri a Lesignano ai Bagni, nel Parmigiano, e ieri qui in Umbria, all’agriturismo "I Cupacci".

Venerdì, spendendo un giorno di ferie, siamo partiti tutti quanti in auto alla volta di Parma. Un viaggio lungo, caldissimo, sfiancante, sei ore e mezza tra autostrade e stradine di campagna per arrivare al posto dove dovremmo tenere la nostra rappresentazione assieme ad un altro gruppo teatrale concorrente.

L’appuntamento di Lesignano fa parte del concorso "L’Ermo Colle", per il gruppo che risulterà vincitore ci sarà un premio in denaro ed una ulteriore data in Sardegna ad agosto. Arrivati troviamo il nostro regista intento al piazzamento delle luci, stremato ed in piena "eruzione" artistica, che comincia a spiegarci in che modo pensa di stravolgere ed arricchire l’azione scenica che abbiamo faticosamente organizzato, al Piccolo re di Roma, su un palco di quattro metri per sei, dividendola in due diversi spazi.

C’è un palcoscenico, dove organizzeremo "il corto", la parte più onirica della rappresentazione, e l’ingresso di un edificio abbandonato (le vecchie terme) dove tra porte e finestre metteremo in scena la parte finale, il fatidico terzo atto del "Giardino dei ciliegi" di Cechov.

La creatività di Gianluca risulta come al solito esplosiva e devastante, senza nemmeno darci il tempo di fare una prova tecnica comincia a darci istruzioni sulle cose da aggiungere: giochi d’ombre, interazioni interno-esterno, movimenti al piano superiore per aggiungere affacci alle finestre. Un utilizzo totale delle risorse sceniche che richiederà una notevolissima componente d’improvvisazione.

Per una compagnia di non professionisti come la nostra è normale gestire cambiamenti dell’ultimo minuto con estremo spirito di adattamento, ma l’incertezza sul risultato finale, unita alla fatica del viaggio, mette a dura prova i nervi di molti di noi.

Nel bene o nel male si va in scena. Il palcoscenico è uno spazio alieno, tutte le distanze e le traiettorie vanno ricalibrate, le luci sono irriconoscibili. Esaurito "il corto" rientriamo, mentre il famoso gioco di ombre su cui Gianluca ha speso tanto tempo va a farsi benedire perché il riflettore interno all’edificio semplicemente non viene acceso (!).

Ci muoviamo e ci cambiamo alla luce di un candelabro, poi partiamo con Cechov nel secondo spazio, usando porte e finestre un po’ secondo le indicazioni del regista, un po’ integrando con nostre idee estemporanee. Il risultato finale è più che buono, la vicenda si sviluppa con estrema naturalezza e senza artificiosità, il pubblico è coinvolto ed alla fine applaude con convinzione.

Passato il break eno-gastronomico offerto dall’organizzazione assistiamo al lavoro dell’altra compagnia, "La Gramigna", un trio di Roma. Il lavoro che presentano è basato su vicende che riguardano gli ultimi anni della vita di Vincent Van Gogh. Questi sono professionisti, e si vede.

Tuttavia al di là della padronanza tecnica e dell’allestimento curato fin nei dettagli il loro spettacolo mi risulta freddo e decisamente cervellotico, oltreché poco adatto ad una rappresentazione all’aperto, che disperde le voci ed i toni più interiori ed intimisti. Paradossalmente pur non essendo noi professionisti, tutto il lavoro di quest’anno svolto in spazi aperti ed in mezzo al verde ci ha reso in grado di rendere efficacemente il nostro spettacolo in una situazione atipica come quella del recitare in esterni.

Ormai a notte fonda raccogliamo le nostre cose e ce ne andiamo a dormire in un alberghetto poco lontano. Rapida doccia quindi piombiamo stremati sui letti.

Sabato mattina, dopo abbondante colazione, ci muoviamo di buonumore alla volta di Foligno. Purtroppo anche stavolta le distanze ci traggono in inganno, le quattro ore preventivate, complice anche l’esodo estivo verso le vacanze, diventano sei, e ci fanno arrivare ai "Cupacci" in ritardo sulla tabella e più stanchi del necessario.

Si ripete per la seconda sera la dinamica caotico-creativa di Gianluca, che a fronte di un gruppo stanco e stressato continua a proporre aggiunte, cambiamenti, integrazioni e stravolgimenti. Più le idee risultano inapplicabili ed ingestibili, più lui continua a sfornarne a getto continuo, mantenendoci sotto pressione fino all’ultimo minuto.

In partenza lo spettacolo sembra un disastro, tra candele romane e torce che non si accendono a causa del venticello che soffia, macchine parcheggiate che non sono state rimosse da punti strategici del "percorso itinerante", luci sistemate in fretta e furia che non ci lasciano vedere e gestire adeguatamente gli spazi, momenti di panico (come quando, appena prima di partire col "Giardino dei Ciliegi", vediamo entrare Gianluca nervosissimo che ci dice: "fermi, non iniziate, non c’è la musica! …avete per caso visto dov’è il tecnico del suono???")

E però, alla fine tutto più o meno funziona, senza tecnicismi esasperati, senza cura maniacale dei dettagli, colmando le lacune organizzative con spirito di adattamento ed un allenamento ormai collaudato ad improvvisare spazi, reazioni e movimenti all’impronta. Io mi accontenterei di aver finito, invece il pubblico è entusiasta e dopo il primo giro di applausi ci richiama fuori. Considerato che sono le dieci e mezza e che hanno dovuto aspettare la fine dello spettacolo per cenare (!), il fatto che siano lì ad applaudire invece di precipitarsi sul buffet è un segnale concreto che gli abbiamo davvero regalato delle emozioni.

Oggi, viaggio di rientro a parte, è il primo giorno di vacanza vera da due settimane a questa parte. Ce ne staremo sbracati in questo bellissimo agriturismo affacciato sulle colline umbre a ritemprarci, dopo lo scorso weekend speso interamente a fare prove ed una settimana in cui, oltre agli impegni lavorativi, siamo andati in scena cinque sere su sei, di cui le ultime due in trasferta.

Mi consola il fatto che ci resta ormai solo l’appuntamento del primo agosto, poi se ne riparlerà forse a settembre. Bello e divertente, sì, ma che sgobbata ragazzi!

Gemelli diversi

E’ di pochi giorni fa la notizia che la città di Parigi ha deciso di dotarsi di un servizio di noleggio bici di proporzioni per noi impressionanti: 10.600 biciclette con punti di scambio capillarmente distribuiti.

Tempo addietro il nostro assessore all’Ambiente (con delega alla ciclabilità) ebbe a dire che "Roma non è Ferrara", cosa dirà stavolta? Che "Roma non è Parigi"? La cosa parrebbe ovvia, se non che Roma è effettivamente "gemellata" con Parigi, tant’è che gli abbiamo copiato la "Notte Bianca". Il gemellaggio funzionerà solo per la parte ludico-ricreativa, o anche per le iniziative concrete, tipo la riduzione del traffico veicolare privato e dell’inquinamento?

Nel frattempo questa storia del "gemellaggio" mi ha fatto tornare in mente un film comico degli anni ’80, in cui da un esperimento genetico nascono due gemelli diversissimi: uno bello, aitante ed intelligente, l’altro stortignaccolo e furbetto. Il parallelo è inevitabile.

La Prima

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E venne il tanto temuto momento della "prima".

Dopo un fine settimana di prove sfiancanti, con codazzo personale di litigate serali e diurne, faccio in modo, dopo l’ufficio, di regalarmi una mezz’ora di relax, ed inaspettatamente riesco a recuperare un umore se non decente perlomeno gestibile. Manu intanto è indaffaratissima con i preparativi: oggetti, candele ed il minestrone da portare e cucinare in scena.

In teatro, a parte me che sono ancora emotivamente "fuori squadro", l’ansia da prestazione è altissima, tutti sono nervosi e ripassano le parti. Ci sono ancora diversi piccoli dettagli da rifinire, attacchi, posizioni… Ristudiamo maniacalmente i monologhi che non abbiamo mai recitato di fronte ad un pubblico. Sistemiamo gli innumerevoli oggetti di scena, organizziamo i cambi d’abito.

Un’ora prima dell’inizio il regista ci costringe ad una "prova tecnica" dell’ultima parte, quella tratta da Checov. Ripassiamo posizioni e movimenti, i gesti da fare, come trovarci sotto le luci, il tutto recitando di corsa il parlato. Il risultato è grottesco, ma il ripasso è utile per essere più sicuri quando lo faremo sul serio.

Poi si va. Il primo intoppo c’è subito: Manu dovrebbe entrare in teatro da fuori, con un candelabro, ma le candele si rifiutano di rimanere accese, e l’accendino a gas si è scaricato. Attimi di attesa, panico, poi si riesce a risolvere e si parte.

Quando arriva il mio turno Manu anticipa il momento della "scoperta" e resto un intero (interminabile) minuto immobile in attesa che il pubblico si sistemi. Non me l’aspettavo, non so che fare, mi sento ridicolo ma non ho alternative al cercare di restare fermo. L’effetto sorpresa ormai è andato, e tutto il monologo esce fuori con meno convinzione del necessario. Peccato.

Il resto della spettacolo scorre via velocissimo con numerose piccole imprecisioni che il pubblico non può cogliere, niente di catastrofico, direi niente di veramente importante. Il senso c’è, e tiene nonostante i nostri inevitabili vuoti di memoria.

È strano il confronto tra le prove, in cui tutto sembra durare un tempo infinito, e lo spettacolo vero e proprio, che invece sembra volar via in un soffio. Sipario. Il pubblico applaude, forse con meno convinzione di quanto ci aspettassimo… ma è uno spettacolo abbastanza difficile, sicuramente li abbiamo sottoposti ad un lavorio intellettuale ed emotivo notevole, sono stanchi.

Invece è molto piacevole ritrovarsi dopo, direttamente in sala, a smangiucchiare le torte che qualche mamma premurosa ha portato, a stappare uno spumante, a spazzolare il minestrone di legumi che Manu (o dovrei dire il suo personaggio) ha cucinato sul palcoscenico per dare al pubblico un aroma di casa.

È un teatro, il nostro, abbastanza fuori dagli schemi, dalla "forma", dalle convenzioni. Niente di estremo, o provocatorio, o gratuitamente irritante. Solo tanti piccoli spiazzamenti dalla "normalità", minuscole situazioni fuori registro, inviti a guardare il mondo con occhi diversi.

L’unico rammarico è il dover condividere questa esperienza con pochi, e sempre gli stessi. Il non riuscire realmente ad uscir fuori, a regalarlo agli altri, al mondo.

Quanti volti amici avremmo voluto incontrare tra il pubblico, e invece sappiamo già che non vedremo mai. Quanti conoscenti, che su questa passione ci prendono amichevolmente in giro, si tirano indietro proprio nel momento in cui potrebbero verificare l’infondatezza dei propri lazzi. Quanta fatica da parte di tanti a misurarsi con i propri pregiudizi.

E qui pure, come in altri ambiti, rinasce la sensazione di essere un minuscolo drappello di combattenti in una guerra ormai persa. Ma, nonostante questo, decisi a non arrendersi. E stasera si parte di nuovo all’attacco!

Esaurimento psicofisico

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Lo spettacolo "Il giardino dei ritorni" è giunto ormai alla stretta finale. Dopo un anno di weekend intensivi (alla cadenza di uno al mese) di prove ed elaborazione del testo in contesti "agresti" andremo in scena nei prossimi tre giorni 16, 17 e 18 luglio, ore 21.00, al "Piccolo Re di Roma" in via Trebula 5, venerdì a Parma e nel weekend successivo all’agriturismo "I Cupacci" presso Foligno. Poi ci aspetta un’altra trasferta nel parmigiano all’inizio di agosto ed, eventualmente, una breve "ripresa" in autunno sempre al "Piccolo".

Dar conto delle emozioni, positive e negative, che questo lavoro mi ha dato è decisamente improponibile. Sicuramente mi ha insegnato moltissimo, ma ad un prezzo fisico e psicologico come al solito eccessivo. Ora come ora mi resta dominante la sensazione di spossatezza ed esaurimento prodotta da due giorni di prove continuative, ed un senso di rigetto nei confronti di tutto.

Fino a ieri lo spettacolo non era pronto, nemmeno lontanamente. Adesso è pronto, ma io sono distrutto. Come si dice: "l’operazione è riuscita, tuttavia il paziente è morto". Andrebbe trovato il modo di fermarsi prima, accettare una soluzione di compromesso, piuttosto che salvare uno spettacolo al costo di far disaffezionare le persone che in esso tanto ci hanno speso.

Sabato mattina ero pronto ad andare in scena anche con un lavoro imperfetto. Ieri mattina ero ancora di buonumore quando sono entrato in teatro. Ora l’opera di definizione è compiuta, ma di andare in scena non me ne importa più niente, sono al di là di ogni desiderio ed emozione, tutto mi sembra privo di senso e non vedo l’ora che sia finita. Salirò sul palcoscenico per dovere nei confronti degli altri, ma se fosse per me preferirei chiudere qui, rimanere a casa, dimenticare tutta questa storia e non pensarci più.

Che dire… lo spettacolo merita comunque, e vi consiglio di non perderlo. Anche perché, se sarò abbastanza saggio da evitare in futuro di sottopormi a questi livelli di stress, questa potrebbe essere l’ultima occasione che avrete di vedermi recitare.

Stephen King reinventa gli zombi

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Strana sorte quella dei "morti viventi". Nati dalle leggende sui riti Voodoo haitiani hanno vissuto una stagione d’oro a cavallo degli anni ’60-’70 grazie al geniale George Romero, che prima con "La notte dei morti viventi" e quindi con "Zombi" ha portato il terrore su scala planetaria, narrando l’epopea dei pochi sopravvissuti ad una catastrofe globale che ha ridotto l’intera umanità a morti deambulanti affamati di carne viva.

In realtà "Zombi", ambientato all’interno di un centro commerciale dove i morti viventi tornano ripetendo i comportamenti indotti e compulsivi che avevano da vivi, sovrappone al tema horror una feroce, caustica e spettacolare critica della società dei consumi, mostrando quanto l’abbrutimento da shopping riduca le persone alla stregua di esseri decerebrati.

A questa geniale intuizione è dovuta l’incipit del frontespizio di "Cell" con cui il "Re" (nomignolo con cui i fans chiamano S. King) dedica il romanzo a Romero, oltre che a Richard Matheson, indimenticato autore di "Io sono leggenda", storia dell’ultimo uomo normale in un mondo ormai interamente popolato da vampiri.

Il "re dell’horror" prova a reinventare a modo suo i "morti viventi" di Romero, e l’innesco della catastrofe è dato dai telefoni cellulari, strumenti ormai talmente entrati nell’uso quotidiano delle popolazioni industrializzare da aver raggiunto una estrema capillarità di diffusione.

Immaginate ora, suggerisce King, che chiunque si trovi ad usare un cellulare riceva un "impulso" che gli danneggi il cervello al punto da rendere l’individuo stesso una belva decerebrata ed assetata di sangue. È quello che succede tutt’intorno al protagonista di "Cell" mentre, come in una catastrofe al rallentatore, una tranquilla mattina d’ottobre si trasforma nell’alba dell’apocalisse.

Pur mostrando evidenti incongruenze e "buchi" nella trama, il libro gode ancora del "tocco magico" dell’autore, i personaggi sono credibili e ben definiti ed è estremamente facile partecipare delle loro pur improbabili vicende. In questo come in altri casi è la grande capacità narrativa di Stephen King a prendere il sopravvento su un "plot" spesso sopra le righe, ed a guidare il lettore verso un finale "esplosivo" anche se un po’ raffazzonato.

Diciamo non uno tra i suoi migliori romanzi, ma una lettura comunque piacevole (per gli amanti del genere!). Io personalmente continuo a preferire "Pet semetary", in cui l’orrore scaturisce dalla perdita di una persona cara, ed "IT"… che pure nel finale mi aveva convinto poco, ma all’inizio offre una ricostruzione dell’infanzia dell’autore nell’America degli anni ’50 talmente perfetta e veritiera che ricordo mi fece venir nostalgia di un mondo in cui non avevo mai vissuto.

Italiani e turpiloquio

Leonardo lamenta la "deriva linguistica" del nostro paese con un post dei suoi, come al solito ricco di spunti interessanti. Diciamo più parolacce, afferma in sostanza, e questo fa sì che le parolacce stesse perdano forza, col risultato che ci si ritrova in mano uno strumento di comunicazione "azzoppato", non più in grado di descrivere ed esprimere violenti sbalzi emotivi.

Sul perché questo accada penso si potrebbero scrivere tomi su tomi, per quanto mi riguarda mi limiterò ad aggiungere un paio di punti a quanto già scritto da Leonardo. La mia sensazione è che la perdita di impatto delle parolacce dipenda in larga misura da due fattori. Il primo è che la nostra cultura è molto meno formale e borghese di un tempo, e tanti comportamenti in origine percepiti come riprovevoli sono stati, nel corso degli anni, sdoganati. Il secondo è che abbiamo fatto in modo da "esorcizzare" molti degli oggetti originariamente ripugnanti e disgustosi che davano alle parolacce la loro energia.

Nel primo punto ricadono buona parte delle parolacce attinenti la sfera del sesso. La "rivoluzione sessuale" cui si aspirava negli anni ’60, nel bene o nel male, alla fine c’è stata, siamo più indietro rispetto ad altri paesi ma la differenza rispetto all’Italia degli anni ’50 è evidente. Molti comportamenti un tempo inaccettabili sono stati metabolizzati, ad esempio le infedeltà coniugali. Dare oggi del "cornuto" a qualcuno/a è molto meno grave di, poniamo, 50 o 100 anni fa. Le famiglie si disfano, si rifanno. La stessa omosessualità, pur se a rilento, è entrata a far parte dei comportamenti socialmente accettati.

Questo è in parte dovuto alla mercificazione della sessualità, operata da campagne pubblicitarie spesso gratuite e volgari. Ma al di là di questa "banalizzazione del sesso" resta il fatto che oggi abbiamo molti meno problemi a relazionarci con il nostro apparato riproduttivo. Abbiamo imparato, e stiamo ancora imparando, ad accettarlo, non nasconderlo, gestirlo. Certo, questo ha significato la perdita di un po’ di quel "mistero" che per i nostri antenati rappresentava una potente fonte di eccitazione, ma anche un approccio molto meno problematico alla materia ed un più basso livello di insoddisfazione collettiva (anche se la frustrazione sessuale viene tutt’ora pesantemente usata come leva per promuovere l’acquisto di beni accessori e superflui).

Un altro dato di fatto è che abbiamo migliorato a tal punto le nostre condizioni igieniche da non percepire più come altamente sgradevoli tutta una varietà di secrezioni corporee, escrementi compresi. Cent’anni fa dare dello "stronzo" a qualcuno evocava il tanfo delle latrine, o una presenza intensamente puzzolente che veniva "deposta" negli angoli delle strade, qualcosa di che ti si appiccicava alle scarpe ed avevi il tuo bel daffare in primis ad evitare di calpestare, Quindi a ripulire. Oggi la stessa parola rimanda ad un naturale prodotto di scarto del nostro organismo che, deposto in un candido water, sparisce in un istante alla pressione di un bottone. Un oggetto relativamente sgradevole, ma ormai emotivamente gestibile.

Dunque non è solo l’uso, o abuso, delle parole che ne modifica e diluisce nel tempo la funzionalità, ma anche le mutazioni sociali e culturali, che veicolano trasformazioni di cui fatichiamo, in "corso d’opera", a definire e comprendere la portata. E, di fondo, se ad oggi non disponiamo più di strumenti linguistici violenti ed aggressivi come un tempo non significa semplicemente che "abbiamo perso qualcosa", piuttosto che tributiamo loro, come all’aggressività in generale, meno valore, meno utilità. E questo mi sento di considerarlo un dato positivo.

CycleHeroes

Quante volte abbiamo sognato una campagna pubblicitaria che promuovesse l’uso della bicicletta in chiave ambientalista. Una campagna aggressiva, etica, immediata, che desse conto in poche immagini di quello che da anni pensiamo della bici. In Inghilterra l’hanno realizzata, eccola qui:

Ora non so voi, ma io la trovo fantastica. Mi ha davvero commosso. Sarà che sono un quarantenne cresciuto a pane e supereroi (e l’inizio sembra davvero un trailer di X-Men), sarà che sono quasi vent’anni che penso queste cose mentre il mondo intorno a me continua a dormire e sognare petrolio, sarà che aspetto da sempre il segno di un’inversione di tendenza, di un ravvedimento collettivo, ma veramente vedere questo video mi ha scaldato il cuore.

E penso a quanto poco basterebbe per cambiare di tanto il modo di vedere miope di milioni di persone. Semplicemente farlo girare, mandarlo tra le altre pubblicità in prima serata, proiettarlo all’inizio dei film nelle sale cinematografiche. Un minimo investimento finanziario per iniziare una rivoluzione culturale ormai in ritardo di decenni.

E invece penso che alla tv italiana non lo vedremo mai, per cui l’unica maniera di diffonderlo è farlo circolare via internet. Guardatelo, amatelo e fatelo girare il più possibile. E date un’occhiata anche al loro sito web: www.cyclehero.com