Due persone che conoscevo, due ragazze giovani, sono morte nell’arco di una settimana. Di Ely ho scritto nel post precedente a questo. Di Eva hanno scritto altri, che le sono stati più vicini… Un mio amico è in ospedale, in coma farmacologico e prognosi riservata, per un ictus. Un dolore sordo, un senso di inutilità, pervadono ed ottundono ogni cosa.
Scrivere mi aiuta, tuttavia, ragion per cui proverò a rispondere ad una domanda che mi è stata posta diverse volte nel corso degli anni, in molte e varie forme riassumibili in: “come si relaziona con la morte un non credente?” Se, infatti, per il credente la morte non è una fine bensì il passaggio ad una diversa condizione di esistenza, come affronta l’idea della morte un non credente, che non ha questo conforto?
La prima considerazione che mi viene da fare è che la morte, come condizione, non esiste. La morte è l’assenza di vita: la vita esiste, la morte no. È come discutere del vuoto. Il vuoto è assenza, per definizione “non è“. Così la morte. Dal momento che ha senso solo discutere di qualcosa che “è“, inizierò ragionando della vita.
Definiamo vita, genericamente, una forma estremamente complessa di organizzazione della materia che si verifica in presenza di particolari condizioni ambientali. Sul nostro pianeta la presenza prolungata di temperature comprese tra il punto di congelamento e quello di evaporazione dell’acqua ha consentito, nell’arco di miliardi di anni, la nascita e lo sviluppo di innumerevoli forme di vita di sconcertante complessità.
Una caratteristica delle forme di vita più complesse è la costante trasformazione, sia come specie che come singoli individui siamo alla perenne ricerca della sopravvivenza fino alla riproduzione. Una forma di vita, o una specie, che non sopravviva si estingue, lo stesso dicasi di una che non si riproduca. Questo fa si che le diverse forme di vita siano in perenne competizione per l’alimentazione.
La competizione ha fatto sì che nel corso degli eoni si sviluppasse una varietà di adattamenti in grado di garantire un miglior successo a specie nuove, rispetto alle vecchie. L’adattamento vantaggioso della nostra specie è consistito nello sviluppo di un cervello di grandi dimensioni, in grado di operare sull’ambiente circostante e far fronte a problematiche più complesse di quelle gestibili, con un cervello meno complesso, in base al semplice istinto.
In ultima istanza un grosso cervello ha finito col produrre il pensiero complesso, col suo portato di consapevolezza di sé, delle conseguenze delle proprie azioni, della propria ineluttabile finitezza. La nostra specie ha dovuto elaborare concetti totalmente nuovi come etica, morale, responsabilità.
Vivere in piena consapevolezza un’esistenza felice è un’esperienza fantastica, oltreché la summa di tutte le esperienze che mai potremo sperimentare. Descartes condensò questa idea nel celebre motto “Cogito ergo sum“, “Penso, dunque sono“: l’assenza di pensiero è perciò assenza di essere, e come tale rifuggita razionalmente, oltreché istintivamente.
Il desiderio di sopravvivere, in sé positivo, ha tuttavia come portato negativo l’angoscia della morte, dell’assenza, il dolore empatico per la perdita di persone care. Questo ha portato la nostra specie, fin dall’antichità, ad elaborare complesse teologie per descrivere mondi ultraterreni in cui il nostro “pensiero” (l’anima, per chi crede, l’attività elettrica dei neuroni, per la scienza) possa trovare ospitalità dopo la morte del corpo fisico, e sperimentare l’immortalità.
E tuttavia l’avvento del pensiero razionale e scientifico ha posto un ulteriore limite a queste elucubrazioni, affermando che esiste solo ciò che è dimostrabile, o meglio fornendoci un apparato concettuale in grado di smontare e ridurre a semplici manifestazioni antropologico-culturali le grandi religioni, e restituendoci intatta la paura della morte. La scienza non si occupa dell’alleviare le sofferenze dell’animo umano, non è suo compito.
Quindi, non potendo discutere di ciò che non è, ognuno di noi deve fare i conti con ciò che è, ma a questo punto forse varrebbe la pena di comprenderlo meglio. Ognuno/a di noi è un unicum, irripetibile, una creatura che non esisterà mai più. Siamo il prodotto di un miscuglio genetico con miliardi di variabili, e di un contesto familiare e socio culturale anch’esso unico tra miliardi.
Possiamo immaginare milioni di individui, risultanti da diverse combinazioni tra il patrimonio genetico dei nostri genitori, che non sono mai nati. Possiamo immaginare miliardi di miliardi di individui che sarebbero nati se i nostri genitori si fossero uniti con altri partner: sarebbero stati altri, non noi.
Possiamo immaginare il nostro stesso patrimonio genetico, un nostro clone, crescere e vivere una vita diversa, in una famiglia diversa, in una cultura diversa: non saremmo noi, sarebbe qualcun altro/a.
Tuttavia l’Universo non è in grado di ospitare questa infinita diversità, ma solo una unica linea probabilistico-temporale, un unico stato di esistenza a fronte di infiniti stati, potenziali, di non esistenza. Noi ci siamo, gli altri miliardi, che possiamo immaginare, non solo non esistono: non esisteranno mai. Bisogna essere pienamente consapevoli del miracoloso privilegio di vivere anche una sola vita.
E dov’è che inizia, questa vita, e dove finisce? In termini oggettivi la fisica è in grado di definire la direzione di scorrimento del tempo, ma non il “tempo presente“. L’idea di “presente” dipende dall’osservatore, ed è puramente soggettiva. Il nostro cervello ha necessariamente la percezione dello scorrere, determinata dalla sua evoluzione nel tempo e scandita dal suo orologio interno, ma il tempo soggettivo personale non è misurabile. Ognuno/a di noi vive nel proprio momento presente, che si sposta nel corso della vita.
Ora io ho quarantacinque anni, posso dire di essere “più vivo” di quanto lo fosse mio padre, a quarantacinque anni, nel 1975? No, evidentemente. Il suo tempo soggettivo, allora, gli faceva percepire il presente in quel momento. Per la fisica l’intero Universo è una bolla di spaziotempo che esiste (forse) all’interno di qualche macrostruttura al momento totalmente incomprensibile, una sorta di orologio che si scarica lentamente, dall’inizio alla fine, e per il quale il tempo è solo un vettore, unidirezionale ma finito.
Da questo punto di vista tutti gli istanti che compongono il “fiume del tempo” sono equivalenti, ed il fatto di vivere un “momento presente” è una pura percezione prospettica, un punto di vista puramente soggettivo. All’interno della “bolla di spaziotempo“, separati temporalmente ma del tutto equivalenti, ci siamo noi, i nostri antenati, i nostri pronipoti, e tutte le creature che in questo Universo hanno/hanno avuto/avranno la fortuna di esistere.
E questa è per me l’immortalità: far parte di una realtà che esiste, complessivamente, ed in cui il tempo è pura percezione, la perdita un fatto temporale e soggettivo. Certo, resta il dolore per un’esperienza interrotta, per sogni e desideri destinati a non avverarsi, ma se penso a mio padre, ai miei amici ormai scomparsi, mi basta immaginarli in qualche momento del passato, vivi, felici, pensierosi, in un tempo diverso dal mio ma non per questo meno importante, solo sfalsato.
Non so se qualcuno/a leggerà questo scritto dopo la mia morte. Se capita, per allora non ci sarò più, ma “ci sono” qui ed ora, negli anni della maturità e della responsabilità, lucido, forte e felice di avere una splendida moglie accanto, a condividere con me questa incredibile esperienza che è la vita. E la morte…non esiste davvero. In fondo, a pensarci bene, è solo una sciocca percezione soggettiva.
E’ vero, ho pensato le stesse cose spesso. Il problema del lutto è il domandone che ci si pone, non avendo una fede a consolazione. Siamo costretti a pensare, dotati di consapevolezza. E il punto è proprio se si riesce a rispondere a questa domanda su basi del tutto laiche, razionalistiche. Dopo anni di letture finalmente ci riesco, in un modo simile al tuo.
Bell’articolo. Grazie
A mio parere il tempo non è nemmeno una grandezza fisica ma solamente la percezione soggettiva da parte di un essere senziente delle trasformazioni fisiche il cui ordine nella cosiddetta “freccia temporale” è definito da secondo principio della termodinamica.
Il tempo di clock di un orologio è tarato sul tempo di decadimento di un atomo di Cesio radioattivo.
Nel quadrivettore di Einstein la dimensione spazio e quella tempo non sono nettamente separate…Lo spazio – tempo e’ un continuum geometrico astratto, ma non un ente fisico. Cio’ che esiste è solo la materia (l’atomo di Cesio radioattivo). Pensare che lo spazio – tempo possa incurvarsi e’ pura follia intellettuale. In pratica il tempo non esiste.
Resta a mio avviso una domanda : i principi della termodinamica e quello “logico” di non contraddizione (A =A), sono tra loro compatibili ?
Un saluto
Marius
.
Per come l’hai formulato sul forum Coelestis (non conosco la formulazione originale) questo principio sancirebbe l’immobilità dell’Universo. In realtà nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. L’atomo di cesio decade e quello che resta non è più un atomo di cesio, anche se i protoni ed i neutroni di cui si componeva il suo nucleo esistono ancora, ma in posizioni differenti. L’energia si trasforma in materia, la materia in energia, quindi all’atto pratico il principio di non contraddizione continua sì a valere ma in un ambito molto più vasto che all’atto pratico risulta inapplicabile a qualunque categoria noi possiamo far rientrare nell’idea di “realtà”.
Heisenberg ci insegna che a livello submicroscopico quella che noi chiamiamo “realtà” si riduce ad una perenne fluttuazione di “schiuma quantistica” in cui particelle virtuali appaiono e scompaiono.
Se questo è vero che il tempo è solo la percezione del movimento relativo di tutte le masse fra loro. LA percezione del “divenire”, del tutto scorre, del tutto si trasforma secondo “velocita’” differenziate è anche vero che se in ipotesi si potessero invertire i processi fisici in termini diretamente proporzionali e inversi della loro genesi ECCO che avresti una percezione temporale uguale e contraria: ergo all’uomo osservatore si andrebbe “indietro nel tempo”.
—
E’ possibile tutto questo?
Non lo so.
La risposta è dentro di TE. Epperò è…
SBAGLIATA!
I processi fisici elementari possiedono il requisito della reversibilità, ma su grande scala domina il dato statistico: la probabilità che un sistema, al termine di un qualsiasi processo, abbia un grado di ordine superiore a quello che aveva inizialmente è estremamente bassa. Mescolando a caso un mazzo di carte la probabilità di avere tutte le carte in fila è una sola, quella di avere una qualsiasi combinazione casuale di numeri è elevatissima, per questo l’Universo, continuando a rimescolare materia ed energia procede verso una condizione di crescente “entropia”, dall’ordine al caos. Il fenomeno che chiamiamo vita è parte di questo processo, e per le proprie necessità deve tener conto dello scorrere del tempo, quantomeno per gestire semplici meccanismi di causa effetto. Quindi è sostanzialmente impossibile avere una percezione retrograda dello scorrere del tempo. Non più, almeno, di quanto sia possibile aspettarsi che un orologio a molla cammini all’indietro.
😉
Ottimo.
Eppure ho qualche perplessita tra la forma geometrica dell entropia e quella dell entalpia.
Una montagna che si sbriciola è una forma entalpica chevtende all entropia fino a diventare una landa piatta e deserta. Ossia la maggiore forma entropica.
Il nostro pianeta è molto entalpico e tende tramite l entropia a divenire alla fine dei suoi giorni come una boccia piatta . Livello massimo di entropia. Caos massimo. Proprio come sono indifferenziati i mazzi di carte mescolat tra loro. La superficie piatta dell acqua di una piscina rappresenta il livello massimo raggiunto di entropia mentre i marosi che il vento forma sul mare aumentano momentaneamente l entalpia.
Ma la Terra non è un sistema chiuso, ha diversi “serbatoi di entalpia” cui attingere.
Meccanicamente la rotazione sul proprio asse e le forze di marea indotte dalla gravità lunare, che provocano la deriva dei continenti e l’innalzamento delle montagne. Poi c’è l’apporto energetico della radiazione solare, che varia con l’alternanza giorno/notte e con l’incedere delle stagioni e che produce i fenomeni atmosferici.
L’entropia lavora, lentamente ed inesorabilmente, ma prima che si raggiunga una forma stabile di stasi dovrà fermarsi la rotazione del pianeta e spegnersi il Sole (anche se, prima che ciò accada, la Terra sarà probabilmente evaporata)
Esatto.
E questo riguarda alla fine tutto l’universo,ma se alla fine dei “giorni” in realtà ci fosse una dinamica a “pendolo”, come mi sembra ipotizzi qualcuno: ossia che l’univerrso in perenne espansione arrivato al suo apice inizia contrarsi e tornare indietro verso una compressione di tutte le masse per ri-cominciare un nuovo Big Bang? Non sarebbe forse come tornare indietro nel tempo?
L’universo come la ruota dei pedali di una bicicletta..un giro e si ritorna nel punto iniziale di pedalata. il simobolo dell’Uroboros. Il nastro di Moebius. Il divenire.. infinito appunto.
La compressione come ri-genesi di massima entalpia.
Insomma come la dinamica compressione scoppio di un motorino a due tempi..
che beffa per un ciclista.
Rimane il mistero dell’energia che imprime e fa muovere questo colossale “pendolo” astronomico. Cmq è un ipotesi affascinante quasi da fantascienza.
—–
“La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte piú e meno altrove.”
….
“Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.”
—
Scusa ma quando penso all’astrofisica mi vengono smepre in mente concetti e passi presi dalla DIvina Comemdia di Dante.
Ma l’enunciato di Pascal:”Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma” non si può applicare all’anima? Io ho provato a fare questo ragionamento.
Noi siamo esseri viventi, composti cioè di materia ed energia. La prima è il corpo, la seconda l’anima. Quando un malfunzionamento del corpo è molto grande, allora questo smette di funzionare. La nostra energia dunque non può più stare nel corpo e deve assumere un’altra forma.
Stando al principio di cui sopra, non può scomparire nel nulla, anche perchè sarebbe lecito chiedersi da dove si sia generata. Dunque, dove va? Cosa diventa, posto che diventi qualcos’altro?
Chi vi scrive non è un fisico, ma un ingegnere, pertanto abituato a credere a ciò che vede.
Avendo “perso” (che brutta parola) alcuni parenti molto stretti, in tali frangenti mi sono trovato a ragionare sul “dopo vita”, su cosa potrebbe capitare una volta superato l’orizzonte degli eventi di questo mondo. L’universo è di per sè un sistema chiuso, quindi auto-rigenerante. La Natura ha inventato la Morte come strumento di rigenerazione delle proprie risorse. Ad essa non vi è oggetto che possa sfuggire, neanche le stelle e le galassie, figuriamoci noi. Ma dalla morte di una stella, ciò che rimane dà origine ad altre stelle, gli elementi più pesanti ad altri corpi celesti. Una pianta, quando muore, viene smembrata per produrre terra da cui nasceranno nuove piante. Perchè non deve essere così anche per noi, soprattutto per i “pacchetti di energia” che ci fanno vivere? Nelle mie riflessioni qui si aprono interessanti bivi fra il Paradiso e la reincarnazione… ma torniamo a noi.
Se è vero che esiste solo ciò che si può dimostrare, allora possiamo dimostrare l’esistenza dell’energia, pur non avendola mai vista? Ad esempio, come è fatta l’energia potenziale?
Ma poi, ma chi ha detto che tutto ciò che vediamo o sentiamo sia dimostrabile?
Dal mio punto di vista, dunque, l’accettare solo il dimostrabile o il visibile indica una grossa ristrettezza mentale, oltre che una visione alquanto egoistica dell’Universo. Esistono cose anche al di fuori della nostra percezione (comunque molto ristretta), i cui segni sono tangibili anche nella vita quotidiana, ma che non riusciremmo mai a dimostrare, in quanto già al di fuori del nostro spazio a tre dimensioni.
In definitiva, per me Dio esiste, così come esistono l’Aldilà e le Anime, dal momento che nessuno ha mai fornito prova del contrario nè la loro esistenza contravviene al principio di Pascal.
Ciao Giancarlo,
rispondere alle numerose questioni che solleva richiederebbe un intero trattato di filosofia della scienza, lo spazio dei commenti di questo blog, al contrario, mi obbliga alla brevità.
Affermare che siamo composti di “materia ed energia” e che quest’ultima sia rappresentata dall’anima è una attribuzione erronea. L’energia, almeno quella di cui discettava Pascal, è qualcosa della cui natura sappiamo molto, come pure sappiamo che di per sé non è in grado di sopravvivere senza la struttura biologica.
A questo riguardo faccio appello al “rasoio di Occam”, principio per cui la soluzione più semplice è anche la più probabile. Se butto giù un muro e trovo che è fatto di calce e mattoni, e calce e mattoni sono sufficienti a spiegare l’esistenza del muro, non ho necessità di introdurre altri elementi. Potrei affermare che il muro è composto di calce, mattoni ed un’anima, o il fantasma di un dinosauro, o qualcosa di etereo ed impalpabile, ma il minimo comun denominatore che troverei con tutti gli altri osservatori sono solo calce e mattoni.
La scienza funziona in questo modo, non ha la pretesa di fornire una spiegazione totale sull’Universo, ma solo di descrivere fenomeni che qualunque osservatore sia in grado di verificare effettuando gli stessi esperimenti nelle condizioni in cui sono descritti.
Quindi, “smontando” un corpo umano noi troviamo sostanzialmente una quantità di molecole che lavorano in maniera straordinariamente ordinata e che comunicano tra loro per mezzo di segnali elettrici veicolati dalla rete neurale. In cima a questo organismo c’è una struttura organica in grado di elaborare informazioni sensoriali e tradurle in azioni, il cervello.
Quello che sappiamo del corpo umano è del suo sufficiente a spiegare tutto quello che osserviamo senza nessuna necessità di introdurre un ulteriore “agente” come l’anima.
Lei riterrebbe che la capacità di calcolo di un computer si “conserva” da qualche parte anche dopo che l’hardware è stato distrutto e bruciato in un inceneritore? immagino di no, perché da ingegnere sa perfettamente come funziona un circuito stampato, quali correnti vanno applicate, qual’è la temperatura di funzionamento ed altre criticità che vanno rispettate perché il circuito stesso possa funzionare.
Cit. “Dal mio punto di vista, dunque, l’accettare solo il dimostrabile o il visibile indica una grossa ristrettezza mentale”
Libero di pensarla così. Dal mio punto di vista indica solo una estrema onestà intellettuale, che non offusca l’oggettività di quanto percepiamo intorno a noi sottomettendola ai propri desiderata. Ci sono persone per le quali credere nella divinità rappresenta una necessità alla quale piegare l’intera visione del mondo, ma ce ne sono altre la cui interpretazione dell’esistente non è “alterata” da tale esigenza.
bellissima risposta
Il motto rappresentato dalla frase “Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma” non è di Pascal ma di Lavoisier.
Per l’esattezza! 🙂
Boh….io sono ignorante. le materie letterarie sono sempre state il mio forte, non so niente fisica, di einstein, di continuum spazio-temporale e delle tante altre cose fantascientifiche di cui avete tanto brillantemente discusso. quello che so è che dei vostri discorsi purtroppo nessuno si adatta a me o mi da conforto xD Insomma il succo della questione è che devo ritenermi fortunata ad essere nata, perchè date le mille possibili variabili potevano nascere altri miliardi di persone invece che me ,che il presente non esiste ma è solo una nostra percezione, e che la morte non esiste. Ma per me esiste eccome! la morte è la fine di tutto, i miei resti verranno chiusi in una cassa e diventerò cibo per vermi , e questo pensiero di tornare nel meraviglioso circolo della vita -anche se in un altra forma- non mi rende il tutto affascinante o accettabile. Eppure non è nemmeno la morte il vero problema, ma la consapevolezza che morirò. La cosa che più mi terrorizza al mondo è il momento prima di morire. Spesso la notte quando mi metto a letto questo pensiero che mi attanaglia e mi mette un’ansia assurda. non trovo consolazione nella fede, perchè sono troppo intelligente e razionale per crederci, non trovo consolazione nella scienza perchè, per quanto razionale e veritiera, è priva di poesia. insomma, sono condannata ad essere un’atea terrorizzata per tutta la vita.
La consapevolezza della mortalità è l’eredità di questo nostro enorme cervello, prodotto dalle esigenze di sopravvivenza. Varrebbe la pena preoccuparsene se fosse un problema risolvibile, ma siccome non lo è pensarci troppo risulta solo un inutile spreco di energie. La vita, come soggetto di speculazione, mi pare molto più interessante al momento. Perlomeno consente interventi utili e mirati. Poi, certo, un giorno o l’altro anche a me toccherà morire. A quel punto mi domanderò se ho vissuto abbastanza, e penso che la risposta sarà: sì.
Ti lascio con una citazione di Epicuro che forse conoscerai già: «Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi», e già che ci sono ci aggiungo pure un adagio cinese: «felicità non è avere quello che si desidera, bensì desiderare quello che si ha». Abbiamo la vita, concentriamoci su di essa e godiamocela, senza lasciarci distrarre, senza sprecare un minuto ad essere immotivatamente tristi per qualcosa che non dipende da noi e su cui non abbiamo alcuna possibilità di intervento.
è tutto giustissimo… forse quello che davvero mi spaventa è la vita. o meglio, il periodo storico in cui vivo, in cui sognare ci è stato reso impossibile.
la totale mancanza di ogni certezza, la crisi, il dover continuare a lottare per cose che dovrebbero essere mie di diritto, il fatto di essere giovane in un paese dove i giovani non vengono ascoltati, in cui fin dalla scuola ci insegnano che massificarci è meglio che pensare, in cui ci insegnano a studiare per passare l’esame e non per prepararci alla vita, dove siamo considerati numeri e non persone, e poi una volta cresciuti diventiamo una forza-lavoro da spremere fino all’osso.
la prospettiva di vivere per lavorare, della vita scaglionata di mese in mese, che tutto si riassuma in questo, di non poter più programmare un viaggio, di non poter dedicarsi alla lettura, di atrofizzare il cervello e diventare un automa.
E per una ventenne universitaria che si prepara ad affrontare la vita da sola – circondata da un deserto culturale in cui la formazione del pensiero critico è stata messa da parte perchè non c’è tempo, bisogna pensare a guadagnarsi il pane- è difficile da accettare.
E quindi, dal momento che sono convinta fermamente che dopo la morte non c’è nulla, che il ciclo perpetuo di nascita e rigenerazione della natura è un processo senza un senso,o meglio, senza un senso che ci renda speciali e che quindi ci consoli, la prospettiva catastrofica di questo esistere è qualcosa di inaccettabile. .
La vita a quell’età fa sempre spavento. Ogni cosa che fai sembra essere determinante per quello che accadrà dopo, un po’ come camminare sui cristalli a rischio di sfasciare tutto per una decisione presa o non presa. Si è come bambini che provano a stare in piedi da soli, sospesi tra la meraviglia dell’equilibrio e la paura di cadere e farsi male.
Ad agosto compirò cinquant’anni ed il mondo delle “promesse infinite” sembra ormai invecchiato insieme a me. Alla tua età sognavo le astronavi (ora lo faccio con molto più disincanto), rivoluzioni nella conoscenza e nel sapere, tutte promesse che non si sono avverate. Ho costruito relazioni affettive che con gli anni si sono sgretolate. Ho fatto scelte ed errori, che probabilmente sto ancora pagando.
Quello che non mi è mai mancato è il gusto per l’accettare nuove sfide, cercare strade non percorse, scoprire l’enorme, affascinante complessità che giace sotto la superficie di un mondo che sembra perfettamente piatto ed omologato. Ed il bello è che in questa ricerca si finisce con l’entrare in contatto con persone straordinarie, col creare reti sociali fatte di individui eccezionali, che la società standardizzata si limita a bollare come “strani”.
Ho letto tempo addietro che la percezione di “felicità”, il senso di appagamento, non dipendono dall’avere una vita tranquilla. Non è a questo che l’evoluzione ci ha preparati, ma ad una vita di sfide, successi e (temporanee) sconfitte, ad un continuo rimetterci in gioco, imparare, scoprire. Persone che vivono nella precarietà, nelle difficoltà, sono spesso meno disperate ed annoiate di altre che invece hanno tutto, non devono dimostrare più nulla, e per questo finiscono in depressione.
Da quello che scrivi tenderei a classificarti come più brillante della media, il che ti rende una persona rara, con difficoltà a trovarne altre che ti somiglino e con le quali instaurare relazioni amicali soddisfacenti. Quello che posso suggerirti è di cercare di sviluppare un interesse, una passione, qualcosa che ti rappresenti fino in fondo e partendo da quella cominciare a costruire la tua rete sociale.
Per me questa funzione è stata assolta dalla bicicletta. Ho iniziato poco più che ventenne in una cultura appiattita sull’automobile che mi considerava un marziano (e chissà che in fondo in fondo non abbia da sempre desiderato di diventare un marziano), e pian piano ho trovato altri “alieni” come me, ognuno col suo fondo di straordinarietà, nel bene o nel male.
Quello che posso dirti, prima che la lunghezza di questa risposta ti faccia stramazzare al suolo, è “Keep Calm and goditi la vita”. Sii consapevole della tua giovinezza e della tua energia, sii sempre coerente con te stessa, accetta le sfide della vita consapevole del rischio di sbagliare, ma anche del fatto che agli errori si può sempre riparare, e che spesso quello che sembra un disastro è solo l’aprirsi di un’opportunità che non avresti mai considerato.
Mo’ basta però, che mi sembra di fare un discorso da vecchio e l’idea di esser vecchio mi mette di malumore. Ora salgo in sella alla bici, mi faccio i miei dieci chilometri fino all’ufficio e me ne vado “a lavurà”! 🙂
visone nichilistaica che non condivido. Morte e vita non e’ tutto e niente. Tu da vivo sei di piu’ di tu da morto. Quel delta non puo’ che subire una trasformazione che semplicemente non ci ‘e ancora dato modo di comprendere.
Cieli Sereni
ho citato un suo brano su un mio elaborato artistico-editoriale. L’ho firmato citando il suo sito ma mi piacerebbe inserire il suo nome anagrafico e soprattutto omaggiarla di una copia. Massimo Bertoldi
Il mio nome anagrafico è Marco Pierfranceschi.
non trovo una risposta alla questione posta nel vostro articolo.
Ehm… quale questione, esattamente?