La rivincita della fotografia

Da ragazzo, a metà degli anni ’80, mi appassionai alla fotografia. Era un mondo molto diverso dall’attuale, fatto di fotocamere meccaniche, regolazioni manuali, pellicole, camere oscure per stampare da sé le proprie foto, interi corredi di costosi obiettivi da portare sempre con sé.

I materiali erano cari, le pellicole consentivano un massimo di 36 scatti, poi dovevano essere sviluppate e stampate. A meno di utilizzare le diapositive, che comunque necessitavano dell’allestimento di una sala da proiezione per poter essere apprezzate.

Ma, volenti o nolenti, questi erano passaggi necessari per ottenere risultati di qualità. Con la transizione al digitale tutto questo cambiò. Le immagini potevano essere acquisite in grandi quantità, corrette, elaborate, aggiustate, ma soprattutto le dimensioni delle fotocamere continuarono a scendere, fino a scomparire all’interno dei telefoni.

La mia passione per la fotografia viveva, nel frattempo, sorti altalenanti. Non essendo riuscito a farne una professione, come hobby doveva contendersi tempi e spazi con le mie innumerevoli altre passioni, attraversando momenti di grande slancio, seguiti da lunghe pause improduttive.

Collettivamente si assisteva però ad una trasformazione ancora più radicale: l’avvento della telefonia di massa. Il mio primo cellulare non poteva fare altro che chiamare e mandare SMS, il successivo fu poco dissimile. Il terzo montava una rudimentale fotocamera dalla qualità pietosa, che finii con l’utilizzare pochissimo.

Fu circa un decennio dopo, col mio primo smartphone, un oggetto senza grandi pretese, che cominciai a riscoprire il piacere di avere una macchina fotografica perennemente in tasca e pronta all’uso. I limiti di un’ottica a focale fissa, dopo aver posseduto ottiche professionali dall’ipergrandangolare ai lunghi tele, non mi consentirono di prenderla sul serio fin da subito.

Tuttavia ero già stato, per un lungo periodo, abituato ad una fotocamera tascabile a pellicola, una Minox 35GT, con ottica fissa dalle caratteristiche non troppo dissimili da quella dello smartphone. Con quella avevo imparato ad utilizzare i limiti dell’attrezzatura come uno stimolo per tirar fuori riprese comunque interessanti.

E fu così che qualche anno dopo, in occasione di una vacanza in Grecia, decisi di lasciare a casa l’ingombrante fotocamera digitale per lavorare solo ed unicamente con quella integrata nel telefono. Scoprii una cosa sbalorditiva: il fatto di disporre di un’unica inquadratura mi aiutava a comporre le fotografie prima ancora di metter mano allo scatto.

Nel frattempo si andava trasformando l’uso sociale delle immagini fotografiche. L’avvento dei Social Network, la possibilità di condividere con immediatezza e facilità i propri scatti, ha donato nuova vita all’antica arte fotografica. Nuovi media, Instagram in testa, sono stati votati ad ospitare unicamente immagini, finendo col generare un nuovo linguaggio. O forse solo col riscoprirne uno antico.

Pochi giorni fa, trovandomi a dover nuovamente cambiare smartphone, mi sono messo a cercarne uno dalle elevate prestazioni fotografiche. Quello che mi ritrovo ora in tasca non è più un telefono con fotocamera integrata, ma una fotocamera con funzioni di telefonia (e networking).

Il che, a mio parere, rappresenta un po’ la rivincita della fotografia, che finalmente semplificata e messa a disposizione di tutti può rivendicare il proprio ruolo di forma comunicativa alternativa al linguaggio scritto ed alla comunicazione verbale. Funzione un tempo prerogativa di pochi specialisti ed ora democraticamente restituita a tutti.

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(nella foto, il mio vecchio telefono fotografato dal nuovo)

Perché non si fa nulla per ridurre i morti sulle strade

Poco più di un mese fa abbiamo commemorato il decennale della morte di Eva Bodhalova, l’evento che ha mosso molti di noi ad attivarsi sui temi della sicurezza stradale, da principio col collettivo ‘Di Traffico Si Muore’, quindi con #salvaiciclisti. Dieci anni nei quali si è discusso, teorizzato, analizzato, proposto. Dieci anni nel corso dei quali la città è rimasta sostanzialmente identica a se stessa, anche nel numero di incidenti.

Dopo tanto ragionare sulle possibili soluzioni, abbiamo dovuto arrenderci alla banale evidenza che nessuna tra quelle proposte veniva effettivamente messa in atto. Riduzione delle velocità, moderazione del traffico, aumento dei controlli, inasprimento delle modalità repressive, campagne di comunicazione, niente di quanto suggerito, argomentato, chiesto a gran voce, è stato concretamente realizzato.

Inevitabilmente abbiamo cominciato ad interrogarci sui motivi di questa inefficace, quando non inesistente, capacità di risposta da parte degli enti preposti alla sicurezza dei cittadini. Anche qui gli argomenti portati sono stati diversi: non si reagisce perché ‘siamo tutti automobilisti’, perché le norme stesse sono inefficaci, perché non c’è volontà di modificare lo status quo, ecc, ecc…

Nel complesso siamo intrappolati in un sistema di protezioni incrociate della mobilità basata sull’automobile. Un sistema capace di prevenire ed annullare qualsiasi spinta tesa a modificarne le caratteristiche. E tuttavia talmente sofisticato da mettere in dubbio che possa essersi venuto a creare spontaneamente.

Quando poi spostiamo l’osservatorio sul ‘cui prodest’, a chi giova (che, nell’accezione inglese, più cruda e brutale, diventa ‘follow the money’: segui il denaro) realizziamo che uno degli effetti più consistenti di questo meccanismo di mobilità riguarda la vendita di automobili, che consegna all’Italia la discutibile palma di paese più motorizzato d’Europa, stando al numero di veicoli pro-capite.

Lo stretto legame tra l’elevato numero di sinistri ed il corrispettivo elevato numero di automobili circolanti può essere descritto solo da un’analisi euristica, non certo dimostrato fatti alla mano. È infatti il risultato di una sommatoria di molte volontà, spesso non pubblicamente dichiarabili (né dimostrabili), e di molte concause, anch’esse non necessariamente di pubblico dominio (come le diverse forme di corruzione, per le quali il nostro paese è parimenti ai primi posti delle statistiche internazionali).

Possiamo però provare a tracciare un disegno in cui il nostro paese, tra i più corrotti d’Europa, è anche il paese col maggior numero di autovetture pro-capite, con una evidente massimizzazione dei guadagni connessi a tale mercato, e col conseguente elevato numero di morti e feriti. Possiamo tracciare il disegno, parziale, e lasciarci ispirare sulle parti non direttamente visibili del quadro complessivo.

L’affresco che mi viene da mettere insieme è quello di un condizionamento, pesante e relativamente invisibile, da parte degli interessi economici che gravitano intorno all’utilizzo diffuso ed indiscriminato dell’automobile, teso alla fabbricazione e, in seguito, conservazione dell’attuale, redditizio, modello.

A questo punto propongo un ulteriore passo avanti andandomi a domandare: è possibile che tutti gli interventi proposti per la messa in sicurezza della rete stradale finiscano col comportare il rischio di una perdita di guadagni da parte dell’industria legata all’automobile ed ai comparti correlati? Proviamo a ragionare per punti.

1) Limitazioni al transito dei veicoli nelle aree cittadine più affollate (Z.T.L.) ed incremento dell’efficacia del trasporto pubblico

Questo è il classico caso in cui i danni al comparto ‘automotive’ sono più chiari ed evidenti. La riduzione degli accessi porterebbe ad un calo delle vendite nei settori interessati, ed il miglioramento dell’efficacia del trasporto pubblico consentirebbe a numerosi utenti di non sobbarcarsi i costi di possesso, manutenzione ed utilizzo di un’automobile, come già accade in altri paesi. Gli esempi non mancano e sono già stati trattati su questo blog.

2) Riduzione delle velocità veicolari in ambito urbano.

Qui il nesso è meno evidente, ma lo diventa andando ad analizzare le strategie di vendita di molti modelli di veicoli sedicenti ‘ad alte prestazioni’: la velocità, la guida aggressiva, lo sprezzo delle condizioni di sicurezza sono da sempre una leva psicologica usata dall’industria dell’auto per promuovere la vendita di auto di lusso, o anche solo inutilmente veloci.

3) Azioni repressive delle principali infrazioni ai criteri di sicurezza (guida pericolosa, superamento dei limiti di velocità, sosta d’intralcio)

La presenza sulle strade di conducenti aggressivi, spericolati e sprezzanti delle norme, svolge un’importante funzione di ‘territorial pissing’, da un lato inducendo comportamenti ‘tossici’ sugli altri automobilisti, dall’altro terrorizzando le cosiddette utenze deboli (pedoni, anziani, ciclisti). Simili comportamenti hanno la diretta conseguenza di ‘liberare’ le strade dalla ingombrante presenza di fruitori ‘lenti’ e garantire ai mezzi motorizzati la supremazia sulle sedi viarie.

La presenza di una diffusa convinzione in tal senso, non ricavabile da alcun testo scritto e formalizzato, può essere facilmente verificata dalla convinzione, esibita da molti automobilisti, che le sedi stradali siano destinate all’esclusivo utilizzo dei mezzi a motore. Risulta molto difficile allo scrivente ritenere che tale convinzione possa essersi spontaneamente venuta a creare in assenza di interventi, palesi od occulti, operati sul piano culturale (giornali, cinema, televisione, narrativa…) ed agevolati dai relativi portatori di interessi economici.

4) Introduzione di ausili alla guida sicura (I.S.A. e ‘guida autonoma’)

La presenza sulle sedi stradali di veicoli in grado di rispettare autonomamente i limiti di velocità rappresenta un’azione di contrasto alla guida ‘tossica’ descritta al punto 3), con conseguente declino nella vendita di auto ‘sportive’ (nella logica del: “se non ci posso correre, che me la compro a fare”). In quest’ottica dovremmo aspettarci che tali sistemi vengano implementati con enorme lentezza e farraginosità, con tempi di valutazione ed introduzione sul mercato lunghissimi ed estenuanti.

L’unica possibilità che si assista ad una transizione su larga scala a veicoli meno pericolosi e distruttivi è caratterizzata dall’eventualità che il loro utilizzo diventi un obbligo di legge, e che quindi ciò imponga un completo ricambio del parco veicolare, ipotesi che potrebbe essere appetibile per l’industria del settore.

Al momento, tuttavia, l’industria non pare avere interesse ad introdurre mezzi a guida autonoma caratterizzati da basse velocità di movimento, che pure sarebbero ottimali in ambito urbano, ma sta piuttosto incontrando problemi insormontabili per ottenere dai mezzi senza conducente prestazioni analoghe a quelle fornite dai veicoli a guida umana.

5) Ridisegno delle città e riorganizzazione delle esigenze di mobilità individuale

Da tempo vengono proposti interventi organici di ridisegno delle città. È evidente che un sistema come l’attuale finisca col sacrificare le vite dei cittadini al fine di massimizzare le necessità di spostamenti individuali effettuati con mezzi a motore.

La dispersione urbana ha prodotto periferie dormitorio separate dai luoghi di lavoro, di commercio e di svago da distanze incompatibili con la mobilità umana. Quanto questo modello dissennato di crescita sia andato incontro alle esigenze dei comparti economici correlati (edilizia, autoveicoli e carburanti) è sotto gli occhi di tutti.

Il prezzo da pagare, in genere non compreso né percepito, consiste in isolamento, alienazione ed insoddisfazione, tutti fattori negativi per i singoli individui ma, da un punto di vista totalmente opposto, del tutto funzionali all’ideologia dei consumi che sta consumando le nostre vite ed il mondo intero (mercati delle sostanze psicotrope e degli stupefacenti compresi).

Conclusioni

Il quadro fin qui rappresentato, pur in assenza di prove documentarie, risulta al tempo stesso autoevidente e disarmante, dotato com’è di una propria intrinseca coerenza. Abbiamo collettivamente introiettato un modello di vita costruito ad arte per minimizzare la nostra soddisfazione individuale e massimizzare i profitti di pochi.

Come vittime sacrificali consumiamo le nostre vite per spostare da un luogo all’altro ingombranti scatoloni di metallo a ruote, col risultato di intossicare l’aria che respiriamo e mettere a rischio l’incolumità di chi ci vive accanto. Il meccanismo appare a tal punto oliato e funzionale da far disperare i pochi che vi si oppongono di arrivare mai a vederne la fine.

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La manutenzione del mattatoio

Nella mia personale echo chamber digitale risuonano spesso gli echi della malgestione del traffico urbano e delle infrastrutture stradali. Pochi giorni fa si sono accavallati diversi articoli legati alla situazione di pericolosità delle strade.

Prima un articolo dedicato ad un ciclista dodicenne investito ed ucciso, all’interno del quale il redattore apprezzava l’intervento delle forze dell’ordine nel ‘liberare la carreggiata, riportando la situazione traffico alla normalità’. Per assurdo, quella stessa ‘normalità’ che aveva portato all’uccisione del ragazzo.

A seguire un altro articolo menzionava una sequenza di incidenti mortali, cui facevano seguito i soliti inutili commenti, su tutti la classica domanda: “ma perché non si fa nulla?”

Quindi un post, rimbalzato via Facebook, annunciava la manutenzione (ri-asfaltatura) di una importante arteria stradale, Via Cristoforo Colombo, teatro il giorno stesso dell’ennesimo incidente mortale ai danni di un ciclista. Spiccava il commento autocelebrativo di un amministratore: “Siamo felici di annunciarvi che verranno ristabiliti i normali limiti di velocità”. Ché il problema è il freno alla velocità degli automobilisti, non già la sicurezza.

Da ciclista urbano ho iniziato ad apprezzare le buche e le irregolarità del manto stradale. Sono dei rallentatori passivi del traffico, capaci di generare effetti analoghi a quelli prodotti, in altri paesi, da infrastrutture specificamente destinate, come gli attraversamenti rialzati o i cuscini berlinesi.

Lì per lì mi sono limitato a commentare: “La velocità prevista è quella alla quale ci ammazzano. Grazie, eh!” Poi ho aggiunto: “Poi c’è chi dice che non si fa nulla per la sicurezza stradale. Si fa, eccome! Si fa la manutenzione del mattatoio!”.

Come scrivevo poco tempo addietro, questo è il sistema: questo ‘va bene’. Per l’interesse di pochi, e la dabbenaggine dei più, dobbiamo accettare come intoccabile quello che si è consolidato negli ultimi trent’anni come uno dei sistemi di mobilità fra i più mortali (e più redditizi) del pianeta.

Un sistema che ingoia, per la sua stessa (insufficiente) manutenzione, la gran parte delle risorse pubbliche, lasciando le briciole per gli interventi di messa in sicurezza. Un sistema, oltretutto, consolidato da uno stuolo di funzionari non eletti, burocrati fossilizzati e difensori ad oltranza dello status quo.

Ah, dimenticavo: l’amministratore che esultava per il ripristino delle condizioni di velocità (e mortalità) del traffico veicolare, apparteneva all’attuale governo ‘del cambiamento’, che amministra la città dalla data delle ultime elezioni. E qui veniamo all’idea stessa di cambiamento.

C’è chi interpreta per ‘cambiamento’ una trasformazione rispetto agli errori del passato, e chi (paradossalmente, verrebbe da dire) lo intende come una maggior adesione a quegli stessi errori. Per questi ultimi la cosa inaccettabile è il declino della manutenzione di una tra le reti stradali più mortali del mondo, non la sua messa in sicurezza.

Basta intendersi sul significato della parola cambiamento, però, perché non è detto che, grattando la superficie, non si scopra che il reale significato, per molti, è ‘conservazione’. Ma questo fa perfettamente parte del meccanismo di Neolingua che tiene paralizzato il paese da decenni.

Nel frattempo si mantiene efficiente il mattatoio. Hai visto mai che i frequentatori, abituati ad ammazzarsi fra loro, rischino di cambiare abitudini…

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Il Natale rubato (di nuovo)

A dicembre finiamo inevitabilmente col pensare al Natale, ed ai regali. I due concetti sembrano inscindibili. Non si riesce a pensare al Natale senza che la mente corra ai regali da fare: quanti ne ho già presi, quanti me ne restano da prendere, cosa regalare e a chi. Non credo che questa fosse l’originale intenzione dei padri fondatori della Chiesa, ma di fatto ormai è così. E in pochi si chiedono come mai.

Sul perché il Natale cada in questo periodo le idee sono invece ben chiare. Dal momento che le fonti storiche non erano in grado di fornire certezze circa la data esatta della nascita di Cristo, il Natale segue di poco la data del solstizio d’inverno semplicemente perché questa era già festeggiata dalle popolazioni pagane come il giorno della rinascita del dio Sole.

Per le popolazioni dell’emisfero nord del pianeta, la cui sopravvivenza è strettamente legata al ciclo delle stagioni, il momento in cui la durata del giorno smette di accorciarsi rappresenta la simbolica ‘rinascita’ della stella che ci dà calore e nutrimento. Dopo questa data le ore di luce tornano ad aumentare e, anche se il freddo non svanisce immediatamente, si comincia ad immaginare la fine della stagione fredda, e ad attendere l’arrivo della primavera.

Il culto del Sole si ritrova già in epoche antiche nel Medio Oriente, quindi viene importato nell’antica Roma tra il secondo ed il terzo secolo dopo Cristo. La festa della rinascita del Sole veniva celebrata nella notte tra il 24 ed il 25 dicembre, e nella cultura romana diventò la festività detta del Sol Invictus: il dio Sole che smette di abbassare il suo transito meridiano e prende a risalire la china, per dar luogo ad una nuova estate.

Il culto cristiano, anziché cercare di cancellare questa tradizione, vi si sovrappose, collocando la celebrazione della nascita di Cristo proprio il 25 dicembre, giorno della rinascita del Sole. Questo facilitò l’affermazione del nuovo culto e la sua diffusione nei territori dell’impero. Ma, come si dice, ‘chi la fa l’aspetti’.

Nell’ultimo secolo abbiamo assistito alla crescita di una nuova forma di credenza diffusa, caratterizzata da significative affinità col pensiero religioso: per questo nuovo culto non hanno importanza né l’oggettività dei fatti, né le possibili previsioni basate su analisi scientifiche. La nuova religione venera, molto banalmente, il consumo.

È interessante notare come i singoli adepti, che si definiscono ‘consumatori’, siano mediamente inconsapevoli della natura pseudo-religiosa delle proprie convinzioni, al punto che molti di essi professano l’appartenenza all’una o all’altra delle diverse religioni tradizionali. Un tratto comune è l’incapacità di osservare col necessario distacco l’eccezionalità del momento storico in cui il fenomeno consumista si sviluppa.

Cosa fa una nuova religione quando si insedia e opera per sostituire i culti preesistenti? Come già visto: ne fagocita le principali festività a proprio vantaggio. Nell’arco di pochi decenni il Natale ha progressivamente perso i connotati della festività cristiana per acquisire quelli della celebrazione del consumo più sfrenato.

La figura di Gesù bambino ha subito un progressivo ridimensionamento, mentre è diventata culturalmente dominante quella di Babbo Natale, un’improbabile mix di tradizioni pagane (prevalentemente celtiche) e cristiane (Santa Claus, una delle numerose incarnazioni di San Nicola, vescovo turco vissuto nel terzo secolo d.c.), la cui iconografia nasce a metà dell’ottocento e si consolida definitivamente nelle pubblicità della Coca-Cola dei primi anni venti del ventesimo secolo.

Cos’è diventato, ad oggi, il Natale? Poco più che una celebrazione dello spreco. Si spende e spande, ci si veste eleganti, si consumano quantità enormi di cibo, si regalano cose molto spesso inutili, nell’esaltazione di una ricchezza effimera, strappata alle viscere del pianeta e consumata senza alcun ritegno o lungimiranza. E si dimenticano i poveri. L’esatto contrario di quello che è, o dovrebbe essere, lo spirito del Natale cristiano.

Natale

 

Il Rasoio di Occam e l’emergenza climatica

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Guglielmo di Ockham è stato un filosofo e teologo vissuto a cavallo tra l’undicesimo ed il dodicesimo secolo. A lui dobbiamo uno dei principi basilari della scienza moderna, quello che prende il nome di Rasoio di Occam. Non avendo a disposizione la totalità delle informazioni necessarie, dice Guglielmo, occorre comunque agire sulla base di quello che si sa. In questa condizione, la spiegazione più semplice è anche la più probabile.

Per fare un esempio molto terra-terra dell’efficacia di questo semplice assunto procedo a descrivere una situazione tipo. Immaginiamo che un energumeno in evidente stato di alterazione inizi a correre nella nostra direzione urlando e brandendo un’arma da taglio: non ci serve avere la totalità delle informazioni per metterci in fuga e cercare di raggiungere un posto sicuro, o qualcuno che ci aiuti.

Un filosofo puro potrebbe discettare che, non avendo un quadro completo dei fatti, non sappiamo se l’energumeno realmente ci ferirà o ucciderà finché l’evento non si sarà concretamente verificato. Obietterà che sono possibili diverse possibili conclusioni alternative alla vicenda narrata, e che non tutte hanno come esito il nostro ferimento o la nostra morte.

L’istinto di sopravvivenza, al contrario, si accontenterà di quella che è la descrizione più probabile, e metterà in atto una linea di azione che, pur se non dimostratamente necessaria, otterrà di massimizzare la nostra probabilità di uscirne indenni.

Paradossalmente, l’argomentazione strumentale di ‘non aver dati sufficienti per affermare con certezza qualcosa’ è una tra quelle che emergono con maggior frequenza nel dibattito sulle alterazioni climatiche di natura antropica. Una tesi che sfrutta abilmente il bias cognitivo di conferma solidamente insediato nella mente umana.

Viviamo, volenti o nolenti, in un’epoca in cui è diventato molto difficile distinguere il falso dal vero. I moderni strumenti di comunicazione digitale, anziché aiutarci a discriminare tra realtà ed invenzione, sono diventati potentissimi veicoli di disinformazione. Alimentata, quest’ultima, dagli stessi meccanismi che consentono ai media digitali un ritorno economico.

Non è storia nuova, certo, ma duole constatare che, anche nella ‘società dell’informazione’, il denaro olia la trasmissione di informazioni indipendentemente dalla loro correttezza, agendo con modalità proprie ed improprie. Una recente evidenza è che gli algoritmi stessi sviluppati dagli ambienti ‘social’ per dare la priorità a contenuti ‘più interessanti’ finiscono col promuovere, acriticamente, bufale e falsità.

Come anticipato, uno dei temi su cui la disinformazione agisce maggior vigore è quello relativo alla crisi climatica che le attività umane hanno prodotto e continuano ad alimentare. Dietro il negazionismo climatico agiscono enormi interessi economici, ma molto spesso a produrre e promuovere le contro-argomentazioni sono pregiudizi filosofici che sconfinano nella fede religiosa.

Abbiamo già avuto modo di ragionare sul principale motore delle trasformazioni antropiche, l’ideologia del progresso. Per i suoi fautori, consapevoli o meno, la necessità dell’affermazione del dominio dell’uomo sul mondo è una verità di fede incontestabile. Conseguentemente, l’idea che l’azione umana possa aver danneggiato il meccanismo che sostenta la vita sul pianeta risulta una tesi per principio inaccettabile.

Non c’è pensiero razionale dietro tale posizione, semplicemente l’incapacità di mettere in discussione le proprie azioni e scelte di vita. In questo processo è tuttavia coinvolta l’intera specie umana, che ha scientemente anteposto i propri interessi immediati a quelli della biosfera. L’uomo della strada, per i suddetti motivi, rifiuta l’evidenza dei fatti.

Solo le giovani generazioni hanno un sufficiente distacco dalle scelte di vita di quelli che li hanno preceduti da poter rimettere in discussione il paradigma che ha sostenuto, fin qui, la progressiva distruzione di specie viventi, habitat e biodiversità.

Il tempo della riflessione è finito, e sarebbe il momento di passare all’azione. E qui ci scontriamo con uno degli effetti più pesanti della domesticazione umana: siamo stati progressivamente disabituati all’azione.

Come individui massificati, strumentali ai mezzi di produzione, abbiamo perso, o scientemente abbandonato, le attitudini, gli strumenti e le modalità che potevano consentirci di reagire. E ci sembra già tanto la semplice opportunità di protestare pubblicamente.