L’intelligenza è una caratteristica dell’intelletto umano che mi ha sempre affascinato. Fin da ragazzo sono stato incuriosito dalle sue proprietà, dalle condizioni che ne hanno determinato l’emergere e dalle prospettive future della sua possibile evoluzione.
Inizierò con una breve sintesi di quanto già noto. L’intelligenza si sviluppa in natura per consentire agli individui un più ampio ventaglio di azioni e reazioni. Forme di vita autotrofe ed organismi filtranti, che traggono il nutrimento dall’ambiente circostante, non hanno necessità di attivare comportamenti particolarmente complessi. Per contro, creature che si nutrono di altre forme di vita traggono vantaggio dal poter accedere ad un ventaglio diversificato di possibili azioni.
In esseri molto piccoli le dimensioni dei singoli individui pongono limiti allo sviluppo della massa cerebrale e della complessità comportamentale. Gli insetti possiedono cervelli composti da relativamente pochi neuroni: la gamma di azioni e reazioni di cui sono capaci è formalizzata a livello di DNA, risultando estremamente limitata e pressoché priva di flessibilità, rendendoli poco diversi da automi biologici.
Con l’aumento delle dimensioni corporee è possibile sostenere masse cerebrali molto più grandi e complesse, di conseguenza una maggior capacità di percepire e comprendere l’ambiente circostante, conservare informazioni sugli eventi passati ed adattare le proprie azioni alla situazione contingente. Questo vale per tutte le specie animali di grande taglia che si sono succedute sul pianeta.
Negli ultimi 65 milioni di anni, a seguito dell’estinzione dei dinosauri e dell’ascesa dei mammiferi, la nostra particolare linea evolutiva, i primati, ha finito col dipendere specificamente, per la propria sopravvivenza, dallo sviluppo delle capacità cerebrali. Mentre altre classi sviluppavano grandi masse muscolari ed armi di attacco (denti e artigli, nei carnivori) e difesa (corna, negli erbivori), i primati svilupparono la capacità di manipolare gli oggetti.
Lo sviluppo della manualità, in particolare del pollice opponibile, comportò il parallelo incremento delle aree del cervello ad essa specificamente dedicate. Altre aree del cervello si accrebbero grazie alla socialità, da cui dipendeva la sopravvivenza di individui singolarmente poco robusti, ed alla conseguente necessità di scambiare informazioni complesse coi propri simili attraverso il linguaggio. [1]
Il meccanismo fin qui descritto è quanto di più darwiniano possiamo immaginare. All’esterno abbiamo la pressione dei predatori e la competizione per il nutrimento con le altre forme viventi, che portano all’emergere di strumenti cognitivi e della capacità di manipolare oggetti per creare utensili, onde aumentare le capacità di interagire efficacemente con la realtà.
Arriviamo così all’invenzione dell’ascia a mano, dei bastoni, delle lance. Queste innovazioni consentirono ai nostri antenati di uccidere un maggior numero di animali, e di taglie maggiori, quindi di nutrirsi meglio ed aumentare di dimensioni (le dimensioni dei predatori evolvono in relazione a quelle delle specie predate).
In seguito si pervenne alla scoperta del fuoco e della possibilità di lavorare le pelli di altri animali per proteggersi dal freddo, abilità che consentirono l’espansione umana in territori più freddi di quelli dove la nostra specie si era originariamente sviluppata, le savane africane, andando a conquistare progressivamente gli altri continenti.
Questo processo molto semplice, in cui la selezione naturale premia gli individui più bravi a sopravvivere e riprodursi, incrementando le caratteristiche ‘vincenti’, e tra esse l’intelligenza, procede indisturbato finché le condizioni di contorno restano simili a quelle iniziali, ovvero con comunità limitate a piccoli gruppi autonomi, dediti al nomadismo, con modalità di sussistenza basate su caccia e raccolta.
Da qui si diparte la mia linea di ragionamento, basata sul fatto che i processi di selezione naturale agiscono diversamente sui singoli individui rispetto a quelli inseriti all’interno di gruppi sociali. Nelle specie dotate di comportamenti sociali, e nella nostra in particolare, la selezione agisce sulla dimensione del gruppo, che viene ad assumere le caratteristiche di un sovra-individuo.
Osserviamo quindi come il processo descritto nel dettaglio da Charles Darwin [2] finisce col produrre esiti diversi sulle specie animali capaci di comportamenti sociali. Nelle specie i cui individui che svolgono vite autonome (i ghepardi, per dire, che si cercano ed incontrano solo per accoppiarsi) la selezione naturale tende a produrre una forma standard, ottimale per la cattura della tipologia di prede cacciate (nello specifico, le gazzelle). Inoltre, non praticando vita di coppia, anche il dimorfismo sessuale risulta estremamente ridotto, con la corporatura delle femmine pressoché identica a quella dei maschi.
Nei gruppi sociali, al contrario, si verifica una dispersione delle caratteristiche e delle abilità individuali, perché i gruppi funzionano meglio quando hanno a disposizione un’ampia varietà di capacità da mettere all’opera. Anche nella dimensione sociale minima di due individui, le difficoltà si affrontano meglio quando si uniscono abilità complementari, come forza e intelligenza, o irruenza ed autocontrollo.
Possiamo fare un parallelo biologico pensando alla transizione avvenuta milioni di anni fa da esseri unicellulari ad organismi multicellulari. Negli esseri unicellulari ogni singolo individuo ha necessità di operare l’intera gamma di funzioni, che devono essere tutte svolte con la massima efficienza, il che genera un ridotto ventaglio di diversità. Possiamo supporre che gli organismi multicellulari si siano originati da colonie di esseri unicellulari tutti identici, che col tempo abbiano avviato un processo di differenziazione.
L’organismo multicellulare risulta avvantaggiato da una differenziazione delle singole cellule, perché ognuna di esse potrà operare una specifica funzione, ed essere ottimizzata solo per quella, senza preoccuparsi di doverne svolgere altre. In un organismo multicellulare complesso troviamo cellule specializzate nel raccogliere i nutrimenti, altre incaricate di scomporli e metabolizzarli, altre di smaltirli.
Il vantaggio dell’organismo multicellulare su quelli unicellulari dipenderà dalla diversificazione ed ottimizzazione delle specifiche funzioni, che gli consentiranno di far fronte all’aumentato bisogno di nutrienti determinato dall’esigenza di dover alimentare un maggior numero di elementi funzionali (le singole cellule). La diversificazione delle funzioni è l’elemento chiave per il successo degli organismi complessi.
Allo stesso modo il genoma condiviso di un gruppo sociale umano può permettersi margini di fluttuazione molto superiori a quelli che sarebbero consentiti ad individui totalmente autonomi, proprio perché la rete sociale generata dal gruppo è in grado di trattenere, mantenere e non mandar disperse caratteristiche eccezionali, pur se invalidanti, che per il singolo individuo sarebbero potenzialmente letali.
Pertanto in un gruppo sociale avviene una strutturazione dei ruoli individuali analoga alla strutturazione in organi presente negli organismi multicellulari, i singoli individui si specializzano e l’intero gruppo ne trae vantaggio. Chi è più bravo a cacciare va a caccia per tutti, chi è più bravo a riconoscere le varietà edibili si occuperà della raccolta, chi è più bravo con i lavori manuali si occuperà di fabbricare utensili, e così via.
L’organizzazione in gruppi si fonda inoltre sulla reciproca solidarietà. Questo significa che il gruppo opera attivamente per garantire la sopravvivenza di tutti i suoi membri, anche quelli più fragili, anziani e generalmente meno abili degli altri, trovando la maniera di impiegarli utilmente in specifiche attività. Ciò consente lo sviluppo in parallelo di attitudini peculiari, anche al di là di quelle strettamente indispensabili, come le capacità artistiche.
In una specie come la nostra, dove i singoli individui impiegano letteralmente anni ad uscire dalla fase di infanzia per potersi rendere utili alla collettività, è richiesta una significativa capacità empatica per l’allevamento della prole, che si riflette sulla capacità di prendersi cura di tutti gli elementi del gruppo. Un individuo ferito non viene abbandonato, un anziano si continua a nutrire finché gli altri membri del gruppo non soffrono la fame, prolungandone la vita utile e sfruttandone le risorse di esperienza e saggezza.
Caratteristica peculiare degli esseri umani è l’estro artistico. L’estro artistico di singoli individui contribuisce alla coesione del gruppo, riuscendo ad alleviare la sofferenza psichica generata dalla complessità del cervello umano e dalla sua capacità di razionalizzazione. Per questo motivo i gruppi umani hanno interesse a preservare gli individui portatori di questa specifica caratteristica, che spesso convive con comportamenti eccentrici, potenzialmente autodistruttivi.
È una condizione non dissimile da quella, più volte descritta in questo blog, menzionata da Daniel Goleman nel volume “Intelligenza sociale”, dove si fa riferimento ai comportamenti ‘estremi’ di alcuni individui negli stormi di uccelli [3]. Analogamente, nei gruppi umani si tenderà a preservare gli individui capaci di ‘comportamenti estremi’, contenendone e mitigandone le eccentricità, se si riterrà che tali attitudini possano risultare utili alla collettività.
Una propensione all’esercizio della violenza sarà ritenuta utile nel caso di scontri con altre tribù, e si tollererà l’occasionale esercizio di tale violenza all’interno del gruppo. Un’intelligenza acuta e brillante sarà ritenuta utile nelle fasi decisionali, o nella gestione delle innovazioni, e si perdoneranno all’individuo particolarmente intelligente le stranezze ed eccentricità che sovente si accompagnano agli elevati Q.I.
Un individuo non particolarmente brillante potrà mettere a disposizione del gruppo la propria forza fisica, o la capacità di effettuare lavori ripetitivi, e gli altri membri del gruppo provvederanno alle sue necessità, compensando le qualità che gli difettano. Viene così a crearsi, sul lungo termine, una distribuzione delle abilità fra i diversi membri del gruppo, che ne ottimizzano la capacità di sopravvivenza.
Chiaramente la possibilità di disperdere le abilità su uno spettro più esteso dipenderà dalla dimensione del rispettivo gruppo. Con la transizione dalle comunità nomadi a quelle stanziali, che fa seguito all’invenzione dell’allevamento e delle tecniche agricole, e ancor più nel passaggio successivo, caratterizzato dalla nascita delle città, la dimensione dei gruppi umani aumenta notevolmente, e con essa la diversificazione degli individui.
Sappiamo che l’evoluzione procede per errori, i quali diventano condizione vantaggiosa al mutare delle condizioni di contorno. Con il successo dei gruppi umani numerosi anche i deficit fisiologici, se accoppiati a caratteristiche di eccellenza, perdono in gran parte la propria nocività ed hanno modo di trasmettersi alle generazioni successive.
Difetti della vista come la miopia, se accoppiati a doti particolari di intelligenza, non vengono eliminati dalla selezione naturale. Individui dalla scarsa intelligenza, se dotati di una notevole massa muscolare o altre doti fisiche, trovano una funzione soddisfacente in seno alla collettività, e riescono a trasmettere le loro caratteristiche alle generazioni successive. Le stesse considerazioni possono ritenersi valide per un ampio ventaglio di problemi di natura fisiologica e psicologica.
Per contro la gestione di collettività estese richiederà forme specifiche di intelligenza, in particolare la capacità di astrazione, che poco hanno a che vedere con le necessità legate a caccia e raccolta ma risultano particolarmente utili per l’ingegneria e l’edilizia. Ecco come i processi di selezione naturale vengono alterati dalle trasformazioni che fanno seguito alle innovazioni tecnologiche.
Dato questo contesto, i processi di Domesticazione Umana, già ampiamente discussi [4], appaiono come una proprietà emergente delle organizzazioni sociali umane, equivalenti alla strutturazione in organi distinti degli organismi multicellulari. Al crescere delle dimensioni dei gruppi una strutturazione gerarchica ottiene di massimizzare l’efficienza complessiva del lavoro svolto.
Da qui in poi devo muovermi sul terreno delle ipotesi e delle verosimiglianze. L’evidenza, nelle organizzazioni umane, è che abilità e talenti sono più facilmente dispersi tra i singoli individui che non concentrate in eccellenze individuali. Possiamo affermare che una collettività di questo tipo ‘funzioni’ meglio di una in cui gli individui sono tutti simili tra loro e non esiste diversificazione? Credo che la storia degli imperi dell’antichità descriva esattamente il processo che ha condotto a questa situazione.
L’invenzione di agricoltura ed allevamento porta alla nascita di comunità stanziali, la cui popolazione tende a crescere. Con l’aumento numerico della popolazione emergono nuovi problemi da affrontare, dai quali nasce la spinta alla diversificazione di specifiche forme di intelligenza ed abilità. Tra queste possiamo elencare le seguenti abilità:
- la capacità ingegneristica di produrre sistemi (inizialmente di regimentazione idraulica, a seguire macchine complesse)
- immaginare e realizzare opere in muratura ed edifici complessi
- padroneggiare tecnologie di base come la ceramica e la metallurgia
- gestire modalità astratte di conservazione del sapere, come la scrittura o la matematica
- sviluppare le capacità sociali di gestire gruppi numerosi ed eterogenei, fondamentali sul piano pratico (come caposquadra), spirituale (come sacerdoti), negli impieghi militari e, non da ultimo, per le forme di intrattenimento artistico.
La limitata dispersione di caratteristiche ed attitudini che si osserva in un gruppo sociale ridotto può raggiungere ulteriori vette grazie all’evoluzione selettiva delle stesse caratteristiche all’interno di un gruppo vasto ed in espansione. Qualunque caratteristica ed abilità peculiare trova, all’interno di una collettività ampia, sia un rinforzo culturale che una selezione di tipo genetico, arrivando a produrre individui eccezionali nelle specifiche qualità, ma non di rado portatori di altri difetti e patologie.
Eccellenze di qualunque tipo, per emergere, richiedono di coincidere con ossessioni maniacali, tali da danneggiare l’esistenza degli individui che ne sono portatori. È un comportamento che osserviamo spesso in esponenti di punta dello spettro delle arti, performative e non, dove emergono facilmente personalità capaci di sacrificare all’arte la propria salute fisica e mentale, abusando di farmaci, stupefacenti e sostanze psicoattive fino all’autodistruzione.
In una collettività complessa, ogni talento trova una sua collocazione preferenziale, ogni individuo dotato di una specifica capacità trova una nicchia sociale nella quale prosperare, ed il successo della collettività nel suo insieme fa sì che anche i tratti deteriori non subiscano gli effetti immediati della selezione naturale, riuscendo a propagarsi alle generazioni successive.
In parallelo alla diversificazione dei tratti vantaggiosi si ha un prosperare ed autoalimentarsi di quelli svantaggiosi per il singolo individuo, che tuttavia non riescono ad incidere più di tanto sull’intera collettività. L’evoluzione procede per adattamenti successivi al contesto. Il contesto naturale ha prodotto, per grandi linee, l’umanità che conosciamo oggi.
L’inurbazione, l’abitudine a far parte di contesti sociali sempre più estesi, la riduzione della pressione selettiva dell’ambiente naturale, per quanto percepiti individualmente come vantaggi, stanno potenzialmente selezionando varietà umane adattate ad habitat artificiali. Come per certe razze animali d’allevamento che, in seguito a selezioni ed incroci, hanno maturato caratteristiche che le rendono inadatte a sopravvivere in un ambiente naturale, anche per i nostri discendenti potrebbe materializzarsi uno scenario analogo, avendo perso, nella lunga strada dell’evoluzione sociale, sia le caratteristiche fisiche che i saperi necessari a sopravvivere in assenza di un contesto civilizzato.
Detto in altri termini, l’esplosione di ‘diversità’ che emerge come conseguenza della sovrappopolazione, della produzione industriale di alimenti e della capacità di curare un ampio ventaglio di malattie e problemi fisici, se giova momentaneamente sia ai singoli che all’efficienza della collettività nel suo complesso, sul lungo termine finisce col danneggiare gli individui che, generazione dopo generazione, sperimentano una sempre più marcata inadeguatezza fisica ed alienazione dalla realtà che ne ha primariamente modellato l’anatomia e le reazioni psicologiche. È questo il rovescio della medaglia del ‘Paese dei Balocchi’ che l’ideologia dei consumi ci ha costruito intorno.
Riassumendo:
- l’efficacia dell’azione di gruppo genera una dispersione delle caratteristiche individuali
- la dispersione delle caratteristiche procede di pari passo con l’organizzazione interna e la strutturazione del gruppo sociale
- l’auto-domesticazione è un processo che emerge spontaneamente dalle dinamiche evolutive dei gruppi
- i gruppi umani (tribù, città, stati, nazioni) in competizione con altri gruppi umani tendono a massimizzare dimensioni e sfruttamento delle risorse disponibili
- l’intelligenza è una delle tante caratteristiche che, all’interno di un gruppo esteso, raggiunge picchi di eccellenza, ma risulta necessariamente distribuita in maniera disuniforme
P.s.: alla luce di tutto ciò, gli ideali di uguaglianza promossi dai partiti di sinistra appaiono alla stregua di Bias Culturali: invenzioni rassicuranti e consolanti che però non tengono conto della realtà fattuale (e questa conclusione, devo dire, non mi piace… ma la realtà non è obbligata a piacerci)
[1] Evoluzione del cervello umano