Nella prima parte di questa riflessione ho proposto un parallelo che a molti sarà parso estremo, quello tra le realtà economiche variamente legate al trasporto su gomma ed i cartelli criminali del traffico di droga. Ora, un parallelo non è un’equivalenza, le differenze sono notevoli, e tuttavia dovremmo cercare di comprendere in che misura processi caratterizzati da analogie sistemiche possano rivelarsi simili.
L’analogia sistemica, per quanti non avessero letto il precedente post, consiste nella iniziale accessorietà dell’oggetto automobile e nel suo essere divenuta, nel corso del tempo, via via più indispensabile nella percezione collettiva. Se si sia trattato di un processo spontaneo o se sia intervenuta una ‘mano invisibile’ a guidarlo è impossibile da stabilire, fatto sta che la situazione attuale è molto diversa da quella precedente l’avvento dell’automobile.
Scenario complessivo (ovvero: cose che dovreste sapere già)
Nella società prevalentemente agricola che precede il boom economico le persone hanno esigenze abitative modeste, le case sono piccole, affollate, con pochi oggetti di proprietà personale e la maggior parte delle stanze occupate da figli, genitori, parenti.
Nel secondo dopoguerra il boom dell’edilizia procede di pari passo con la meccanizzazione dell’agricoltura e l’inurbamento di masse crescenti di persone. In questo processo il desiderio di maggior spazio individuale si sposa con la maggior mobilità offerta dall’automobile e produce il sogno della ‘città moderna’.
Le case crescono di dimensioni e volumetrie e la densità abitativa si riduce, disperdendo su aree via via più vaste uno spolverio di popolazione non più in grado di accedere ai servizi essenziali, in primis il commercio, senza dover dipendere dall’automobile.
Se negli agglomerati ‘densi’ della civiltà contadina il numero di persone a breve distanza dalle attività commerciali era sufficiente a rendere il commercio locale redditizio, man mano che la densità abitativa si riduce cala in parallelo la redditività del commercio di prossimità, determinandone il declino e l’avvento dei grandi mall e centri commerciali.
La nascita di agglomerati urbani privi di commercio di prossimità obbliga i residenti a dipendere in tutto e per tutto dall’automobile, senza la quale non è possibile raggiungere né il posto di lavoro, né le rivendite di generi alimentari, né accedere alle residue forme di vita sociale. A questo si aggiunga il fatto che gli spazi esterni alle abitazioni, privati del commercio e della funzione relazionale, diventano rapidamente dei ‘non luoghi’ inospitali ed abbandonati.
La ricchezza prodotta dal boom economico ha alimentato le pulsioni individualiste ed egoiste, ottenendo di modellare gli spazi urbani in conseguenza di questa deriva, dilatando le distanze ed imponendo modelli culturali basati sull’utilizzo dell’automobile come mezzo di trasporto e come forma di auto-rappresentazione individuale.
Situazione attuale
Basta uscire di casa in un qualunque nuovo quartiere di una qualunque città per rendersi conto di vivere ai margini di un enorme parcheggio a cielo aperto, dove le automobili alternativamente si spostano e stazionano, perennemente ingombrando spazi un tempo destinati alla vita sociale e ad altre attività. Il risultato complessivo è un perenne ingorgo, risultato di una lenta e progressiva sedimentazione ed accumulo di automezzi lungo un arco temporale di decenni.
Impossibile a questo punto distinguere quanta parte di questo processo sia stata guidata dalla domanda e quanta dall’offerta, quanto abbiano pesato i modelli (spesso studiatamente falsi) veicolati dall’industria dell’intrattenimento e fino a che punto questi modelli siano venuti incontro alle pulsioni consce ed inconsce delle popolazioni.
Allo stesso modo non è poi così facile distinguere quanto della progressiva discesa nelle diverse forme di dipendenza dipenda dalla debolezza dell’utente finale e quanto dalle azioni delle organizzazioni che ne traggono profitto. Il passaggio dalle droghe leggere a quelle pesanti è spesso guidato dalle scelte degli spacciatori volte ad indurre forme di dipendenza più profonde.
Impossibile anche stabilire quanto sottile sia il crinale tra l’una scelta e l’altra. È evidente che le decisioni di una parte della popolazione hanno condizionato pesantemente quelle della parte restante (le scelte di quelli che hanno sposato l’ideologia dell’automobile, in questo caso). In altri paesi è avvenuto l’opposto, e viene da domandarsi se non abbiamo anche noi mancato per un soffio quell’obiettivo o se fossimo ‘spacciati’ comunque fin dall’inizio, per difetto dei necessari anticorpi culturali.
In ultima analisi, i venditori di sogni si assomigliano tutti, sia che ti offrano un momento di piacevole stordimento, sia che ti offrano un’illusione di successo sociale sotto forma di ‘status symbol’, la sostanza non differisce più di tanto. Come le droghe non sono necessarie alla salute dell’organismo, ma una volta introdotte instaurano una dipendenza che finisce col nuocergli, così l’uso dell’automobile si è innestato in un organismo sociale sano fino a renderlo progressivamente dipendente ed incapace di svincolarsene senza passare per una drammatica crisi di astinenza.
Il dato di significativa differenza tra i due fenomeni consiste principalmente nell’accettazione sociale: la società contemporanea è consapevole della nocività delle sostanze psicotrope (non tutte, l’alcool sfugge alla percezione di rischio), mentre non lo è altrettanto rispetto ai danni prodotti dalla mobilità privata basata sul motore a scoppio.
Mentre ogni singolo delitto operato nell’ambito del mercato della droga viene facilmente ricondotto ai trafficanti, nessuno pensa di attribuire le migliaia di morti che si verificano sulle strade alle scelte manageriali dei fabbricanti di automobili, alle azioni di lobbying delle industrie petrolifere ed alla ‘fame di strade’ (malfatte) del comparto edilizio.
Il potere della leva economica non va sottovalutato: immaginiamo lo scenario peggiore possibile. Immaginiamo che per decenni le decisioni prese nelle stanze chiuse del potere economico abbiano condizionato ad ogni possibile livello l’agire politico, arrivando ad imporre normative a proprio unico vantaggio, a far procedere le carriere di tecnici ed amministratori asserviti a tali logiche, ad ostacolare in ogni modo possibile lo sviluppo di forme di mobilità competitive come il trasporto pubblico e la mobilità leggera.
Ebbene, una volta immaginato questo ‘worst scenario’, potremmo davvero dire che il territorio da esso prodotto sarebbe sostanzialmente diverso da quello attuale? Davvero potremmo pensare che ancora più spazio dell’attuale potrebbe essere riservato alle automobili ed ancora meno a pedoni e ciclisti?
Quello che si vede nella foto seguente è il marciapiede di viale Giorgio De Chirico a Roma, una superstrada urbana che collega due consolari ridotte a budelli affollatissimi: via Prenestina e via Collatina. Nel tratto in foto la strada è a quattro corsie, due per senso di marcia, ma nella maggior parte del suo sviluppo è a sei corsie (!!!). Le due consolari di partenza ed arrivo sono a due sole corsie, una per senso di marcia.
Ebbene, a fronte di cotanto spazio inutilmente concesso ai ‘clienti dell’industria automotive’ osservate la situazione del cosiddetto ‘marciapiede’, di fatto impercorribile, e domandiamoci quali logiche, quali priorità abbiano guidato la realizzazione di una simile schifezza. Da ciò cominciamo a ragionare su tutto il resto dei marciapiedi cittadini e di come, con rare eccezioni, sembrino fatti apposta per far passare alle persone la voglia di camminare.
Ragionandoci a mente fredda le uniche due categorie applicabili alla società contemporanea sono quelle del disagio psichico e della tossicodipendenza.
Non sussistono patologie altrettanto gravi da spiegare come si sia potuti, nell’arco di un secolo o poco più, passare da questo:
A questo:
…e continuare a pensare di averci guadagnato nel cambio.
Conclusioni
C’è ancora, a questo punto, un modo di venirne fuori? Difficile dirlo. Sia nella riabilitazione psichica, sia nell’uscita da una condizione di tossicodipendenza, il paziente necessita di una struttura di supporto terapico che attualmente non esiste.
Normalmente è la società stessa, nel suo complesso, che si fa carico dei costi e degli sforzi clinici in grado di condurre il paziente alla guarigione. Nel nostro caso, essendo il paziente la società stessa, nessun ente esterno è in grado di farsi carico della terapia.
Gli unici enti esterni al processo (finanza internazionale e compagnie multinazionali), sono proprio quelli che profittano dello stato di dipendenza, e non hanno perciò nessun interesse a porvi fine. Potrebbero averne i singoli cittadini, a patto che raggiungano uno stato di consapevolezza sufficiente, cosa che ritengo molto difficile possa avvenire nel breve termine.