La diffusione del cicloambientalismo

Dopo aver passato le ultime due serate a ragionare di bicicletta, di promozione dell’uso della bicicletta, di associazioni ed associazionismo, con persone di diversa estrazione, martedì ad una riunione con l’associazione Ciclonauti e mercoledì al Ciclopicnic, ora sento la necessità di tirare un po’ le fila dei vari ragionamenti ed aggiungere alcune considerazioni mie.

Prima, però, occorre mettere il discorso in una prospettiva storica. Premetto che sarà viziata dal fatto che si tratta della "mia" esperienza, e che non potrà essere esaustiva. Eventuali integrazioni saranno gradite.

L’inizio di tutto si colloca, per me, da qualche parte verso la fine degli anni ’80, con l’acquisto della mia prima bici. Il "percorso" successivo credo sia comune a molti: la scoperta, il divertimento, la voglia di condividere quest’esperienza entusiasmante con altri/e, il cominciare a partecipare ad iniziative organizzate, l’entrare in un gruppo di persone con cui condividere lo stesso "slancio emotivo", lo spendersi per diffondere la bellezza dell’uso della bicicletta.

Questo "percorso" ha vissuto fasi e modi diversi per ognuno/a di noi. Nei primi anni ’90 l’uso della bici a Roma mi pareva proibitivo ed improponibile, mentre trovavo estremamente piacevole e gratificante l’utilizzo escursionistico nei weekend. Pensai che un buon sistema per fare appassionare il maggior numero di persone all’uso della bici fosse proporgliela nella sua veste più "accattivante", e cominciai a collaborare con l’associazione Ruotalibera (oggi affiliata alla Fiab).

Nel frattempo a Roma nascevano, crescevano e morivano diverse esperienze analoghe, tutte caratterizzate dalla proposta di percorsi guidati "alla scoperta" di un po’ di tutto, ed inevitabilmente della bicicletta. Bisognò attendere il volgere del millennio perché uno scenario affatto nuovo iniziasse a delinearsi.

Con la nascita della CriticalMass e delle Ciclofficine un nuovo soggetto irrompe sulla scena romana. L’uso della bicicletta diventa bandiera del rimettere in discussione la destinazione d’uso degli spazi cittadini, il consumismo dilagante e disumanizzante, lo spreco delle risorse, l’inquinamento. È una visione "critica", per alcuni "estrema", senza compromessi, e non a caso attrae una fascia di individui mediamente più giovani ed irruenti.

Parallelamente si è aperto un canale di dialogo con le istituzioni che lentamente, nel corso degli anni, ha portato alla realizzazione di una serie di infrastrutture per la ciclabilità (per la verità ancora poche ed approssimative) e ad una maggior visibilità politica e sociale della bicicletta quale mezzo di trasporto urbano.

E vengo al punto (finalmente!): la sensazione generale, ad oggi, è quella di uno stato di impasse. Le esperienze a cui abbiamo dato vita funzionano, continuano a funzionare, eppure non basta. L’utilizzo della bicicletta è ancora troppo poco diffuso. La conoscenza stessa dell’oggetto bicicletta è ancora appannaggio di pochi. L’esperienza dell’andare in bicicletta, che ancora è condizione necessaria perché un potenziale ciclista possa prenderla in considerazione in termini di fruizione quotidiana o estemporanea, è patrimonio di una ristretta cerchia di fortunati.

La mia personale esperienza è che almeno la metà delle persone che non sono mai salite da adulte su una bici, una volta fattane l’esperienza ne restano affascinate. Ma come arrivare a ciò? Com’è possibile incidere significativamente su una città di tre milioni di abitanti senza costose campagne culturali, senza infrastrutture adeguate, senza attenzione da parte dei media ed in balia degli interessi economici soverchianti delle lobbies petrolifere e dei fabbricanti di autovetture?

La mia conclusione è che la nostra unica chance risiede in un colpo di genio che ci faccia inventare una strategia irresistibile. Rilancio "la palla" a tutti i lettori: che ne pensate? Cosa dovremmo provare a fare, di più e meglio di quello che si è fatto fin qui (considerate anche le risorse umane molto limitate)?

A voi la parola.

P.s.: questo intervento è stato pubblicato anche sul sito Romapedala, dove mi aspetto altri commenti e suggerimenti.

E fu il trionfo!

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E chi se l’aspettava? Ieri sera siamo andati in scena per la prima ed unica rappresentazione di “Una sera all’improvviso”, spettacolo senza copione e con continue invenzioni estemporanee fino all’ultima scena, ed è stato un successone, col pubblico che a tratti si commuoveva e a tratti si sganasciava dalle risate, che applaudiva a scena aperta.

Noi anche ci siamo divertiti come matti, compresa la regista, emozionata e nervosissima fino all’ultimo minuto. Per la prima volta andavamo in scena con le musiche. Io ho portato un CD di swing al fulmicotone e qui e lì, a discrezione di Ursula in sala regia, la musica saliva a coprire il parlato creando un effetto “film muto” irresistibile.

Io, in un’ora e mezza di spettacolo, sarò stato in scena nemmeno dieci minuti, ma con un personaggio talmente folle da lasciare comunque il segno. È vero quello che ci dicono fin dal primo anno, non conta quanto tempo si sta sul palco e quante battute si dicono, conta l’energia.

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Inventare uno spettacolo all’impronta è un’esperienza fantastica. Lascia margini di creatività sconfinati. Si possono inserire battute che nascono sul momento e funzionano mille volte meglio di un copione scritto che si è provato e riprovato fino al logoramento. E anche per noi attori l’attenzione è sempre altissima, perché non si sa mai esattamente cosa potrebbe succedere: si sta totalmente ‘dentro la situazione scenica’.

Voglio ringraziare tutto il gruppo che ha dato vita a quest’esperienza fantastica: Diana, Edvige, Luca, Mariangela, Emanuela, Antonella ed un’incredibile Bea, che ha retto il personaggio principale dalla prima all’ultima scena con un’energia titanica. Ed ovviamente Ursula, che ha pazientemente coltivato la nostra vena di follia latente fino a questo fantastico risultato.

Un gruppo che da metà dell’anno ha continuamente perso pezzi per strada, ma anziché lasciarsi andare ne ha tratto la forza per risorgere, Fenice dalle proprie ceneri, ed esplodere, come in un gol-partita al 90° minuto, nel lavoro teatrale più emozionante della mia breve ‘carriera’ di attore dilettante.

E adesso che l’ho visto rappresentato, che ho sentito la partecipazione e l’emozione del pubblico, non posso accettare l’idea che questo spettacolo nasca e muoia in un’unica rappresentazione. Direi che non se ne parla proprio! Non so ancora né quando né come, ma è sicuro che vi rivoglio tutti/e sul palco con me.

Mondi lontani

Il week-end di laboratorio teatrale a Canale Monterano mi ha lasciato una scia di sensazioni poco positive. Ci sono arrivato già in partenza stanco ed emotivamente esaurito, sperando che qualche ora di sonno ristoratore avrebbe potuto riportarmi in condizioni umane. Poi l’incidente in moto occorso a due dei partecipanti mentre stavano arrivando ha fatto precipitare le cose. Per fortuna il bilancio è stato lieve, un piede rotto per l’insegnante e qualche ecchimosi equamente distribuita con la "passeggera", ma ha gravemente pesato sull’esito del lavoro che dovevamo svolgere.

Ritrovarci con un Gianluca azzoppato e febbricitante ha mostrato inequivocabilmente quanto noi tutti dipendiamo dalla sua energia e dal suo training. Ci siamo ritrovati a corto di memoria e brancolanti, con intenzioni poco chiare ed uno scarso controllo dei movimenti. Ad aggravare il tutto si aggiunga un surplus di difficoltà dovuto al fatto di stare intenzionalmente lavorando in spazi non predefiniti, senza la possibilità di fissare in maniera precisa e una volta per tutte spazi, gesti, posizioni e movimenti.

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Nella speranza di trovare bel tempo avevo portato con me il piccolo telescopio Meade da 7cm, ed in serata abbiamo osservato la Luna ed un po’ di pianeti. La Luna intorno al primo quarto mostra una quantità di crateri, ed in questo periodo Venere e Saturno sono molto vicini, a sud ovest verso il tramonto, mentre Giove fa capolino intorno alla mezzanotte, con la sua corte di satelliti.

Non so se sia dipeso dalla stanchezza, dallo sconforto per la situazione contingente, o dalla semplice ed inevitabile usura che il tempo produce sulle emozioni, ma quei mondi non mi sono mai sembrati tanto lontani ed irraggiungibili.  Forse è anche il fatto di usare uno strumento di scarsa apertura, che ne dà necessariamente immagini piccole e poco dettagliate rispetto a quelle che ero abituato ad avere dal 200mm, ma molto più probabilmente è proprio il fatto di aver perso qualcosa.

Esiste un discrimine, non netto, tra giovinezza ed età adulta. Esiste un’età in cui ci si può permettere di sognare qualsiasi cosa ed illudersi che sia realizzabile, ed un’altra età, successiva, in cui bisogna fare i conti col tempo passato, col tempo che continua a passare, e ci si trova a considerare come inevitabile che parte di quei sogni non solo non si sono realizzati, ma anche che non si realizzeranno mai.

Posso ancora ricordare, dei miei diciott’anni, la voglia bruciante di sollevarmi al di sopra del mondo, di scagliarmi nello spazio fino a raggiungere altri pianeti, altre culture, altre forme di vita. Se ci ripenso è un qualcosa che sento ancora nelle ossa, un desiderio che mi spingeva a starmene da solo, al freddo, su una terrazza, con l’occhio incollato all’oculare del telescopio, per volare attraverso lo spazio nell’unico modo in cui mi era allora possibile, nell’unico modo in cui mi sarà mai possibile.

Ora quei mondi lontani li sento davvero irraggiungibili. Lo so, lo sono sempre stati, ma io ero diverso, ero più giovane. Sapevo sognare e credere nei sogni. Adesso, invece, sono solo un povero adulto. Le ali che mi consentivano di volare coi sogni le ho perse per strada. Non erano reali, certo, ma servivano almeno a farmi sentire un po’ più leggero. Quelle ali, ormai lo so, non le riavrò mai più.

Panico da palcoscenico

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Lunedì prossimo si va in scena. Uno spettacolo abbastanza particolare, dal momento che non avremo un testo da imparare a memoria, al quale affidarci o sul quale "appoggiarci". Sarà un’improvvisazione, basata su un "canovaccio" nato nel corso di un’improvvisazione.

Il laboratorio settimanale del giovedì, condotto da Ursula Bachler, ha sofferto di non poche traversie. Eravamo partiti con l’idea di portare in scena il "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare, ma dopo un paio di mesi di prove ci siamo resi conto che sussistevano problemi quasi insormontabili nell’assegnazione delle parti e nel bilanciamento dei personaggi, troppe attrici donne e troppe parti maschili (come al solito), sicché dopo un burrascoso confronto si è deciso di tornare al laboratorio, sperimentando tecniche diverse senza porci l’obiettivo di un saggio.

Purtroppo l’uscita di scena di un impegno finale ha fatto perdere coesione al gruppo, e gli impegni crescenti del periodo primaverile/estivo ci hanno fatto "perdere pezzi" strada facendo. Peccato, ma invero accade raramente che tutti quelli che iniziano i laboratori ad ottobre arrivino a giugno/luglio a prender parte agli spettacoli.

Ed in effetti anche noi non ci pensavamo quasi più ad andare in scena, senonché nel corso di un’improvvisazione la nostra insegnante ha avuto l’intuizione di spedire sul palco altri "personaggi", e l’improvvisazione è andata avanti assumendo le forme di una commedia degli equivoci davvero netta e coerente, con un inizio, un crescendo ed un finale che sembravano studiati a tavolino.

A quel punto ha preso corpo l’idea abbastanza assurda di proporla così, senza scrivere le battute, senza mettere a registro i tempi, semplicemente raffinando il canovaccio e basandoci sulla nostra capacità di rendere realistica l’improvvisazione stessa. Domani faremo le ultime prove e lunedì, in unica data, vedremo se al pubblico piacerà.

Tuttavia la nostra "commedia" non la proporremo come uno spettacolo vero, non sarebbe serio, ma come il saggio di un laboratorio sull’improvvisazione. Gli spettatori non pagheranno alcun biglietto ma solo la tessera dell’associazione culturale "SinestesiaTeatro" (per la modica cifra di 2€). La speranza è di riuscire a far passare al pubblico un’ora in allegria ed avvicinare un po’ di gente al teatro. Un teatro "piccolo", che non si nutre di grandi scenografie ed istrionismo ma vive di persone ed emozioni vere.

Per chi vorrà venirci a vedere l’appuntamento è per lunedì 25 giugno, teatro "Piccolo Re di Roma", via Trebula n°5, alle 21.00.

Etero Pride

"Che ci va a fare un maschio eterosessuale al Gay Pride?"

È  una domanda che devono essersi posti in molti e onestamente, quando è stata lanciata l’idea di "portare uno spezzone NO OIL" al corteo del Pride romano, me la sono posta anch’io. La risposta, come spesso accade, è stata "ci vado a vedere, partecipare, (cercare di) capire".

Questa storia del "portare uno spezzone NO OIL" alle manifestazioni di contenuti affini (nonviolente, pacifiste, ambientaliste) è nata tempo addietro all’interno della Massa Critica, e recentemente ha preso la forma del portare, con le biciclette, un gigantesco telo bianco con la scritta "NO OIL" a simboleggiare il rifiuto di un modello di sviluppo interamente basato sullo sperpero di combustibili fossili, coi relativi costi ambientali ed umani.

Partecipare al Pride è stata una scelta un po’ tirata per i capelli, ma ha valso il fatto di ritenersi, in quanto ciclisti, una "minoranza oppressa ed orgogliosa". Oltretutto la manifestazione di quest’anno aveva anche una valenza di affermazione della laicità dello stato in merito alle scelte di vita delle persone (io DICO sì!), e sebbene il sottoscritto finirà, entro l’anno, con lo sposarsi in chiesa (n.b.: con rito misto!), ho messo su una tee-shirt surrealista con la scritta "Grazie a dio sono ateo" (aforisma di L. Buñuel) e sono andato a fare il mio "Laico Pride". Inforcata Velociraptor ho raggiunto quella banda di pazzoidi che si autodefinisce "Ciclopicnic Entertainment" a Piazzale Ostiense e ci siamo uniti alla baraonda.

Tutto questo preambolo non vuole significare un "prendere le distanze", quanto chiarire che il mio punto di vista è giocoforza parziale e viziato dal fatto di non sentirmi fino in fondo parte dell’evento. E d’altronde c’è poco da fare, quando vedo un camion scoperto carico di maschi seminudi che si dimenano su una base Disco-Music non mi viene da pensare: "Oh, che bello!"; bensì, parafrasando Chatwin: "Che cosa ci faccio io qui???"

Il Pride visto "da fuori" è un po’ un carnevale a metà. Qualcosa che vorrebbe essere una festa ma tanto festa non può essere, perché comunque nasce per domandare un riconoscimento, un’accettazione, che nel momento attuale manca. Si sbandiera una "diversità" (spesso e volentieri eccessiva nel suo plateale desiderio di trasgressione) nella prospettiva di vedere un giorno questa "diversità" riassorbita nella percezione collettiva di "normalità".

Di più , è sconcertante registrare come la ricerca di una identità "altra" finisca molto spesso nel ricalcare stereotipi preconfezionati e a modo loro omologati (il travestito, il sadomaso, il transessuale volgare, ecc…) in un’ansia di riconoscimento, di appartenenza, di identificazione a tutti i costi, che finisce col perdere di vista proprio il sé.

C’era, è vero, tanta gente allegra e festante, ma molta di più a terra che non, paradossalmente, nei carrozzoni che sfilavano. Lassù si respirava quest’aria di allegria forzata, di diversità esibita e quasi imposta, comunque alternativa, conflittuale. Forse è solo una mia impressione, ma temo che la strada della contrapposizione continuerà a creare una separazione sempre più netta tra la comunità GLBT e quelli che si pretendono "normali", e forse andrebbero immaginate forme di comunicazione diverse dall’esibizionismo trash che ultimamente va tanto di moda in televisione.

Due giorni dopo c’è stato anche un "finale a sorpresa".

Chi ha visto il film "L’apparenza inganna", (commedia francese su un impiegato che per sfuggire al licenziamento si finge gay), ricorderà sicuramente la scena in cui Daniel Auteuil viene  costretto dal suo capo, direttore di una fabbrica di profilattici, a partecipare alla sfilata del Gay Pride e finisce ripreso dalla televisione nazionale. Beh, a me è successa una cosa simile, con tanto di collega di lavoro che mi ha chiesto, sottovoce e un po’ preoccupato, "ma che sei gay?", e io che gli sono scoppiato a ridere davanti.

Velociraptor

velociraptor

Correva l’anno 1999 ed io ero felice proprietario di tre biciclette: Pino, la Bianchi ed una ottima mtb rigida Kastle del ’92 attrezzata per i cicloviaggi. Nel mio allora incessante peregrinare per negozi di bici incappai, presso MisterBike, in questa Specialized Stumpjumper FSR-XC messa a disposizione ‘in prova’ per i clienti (sotto il tubo reggisella un adesivo recita infatti: ‘Testbike’). La bici presentava caratteristiche molto innovative per l’epoca, a partire dall’ammortizzatore posteriore Fox ad aria. La componentistica tutta di alto  livello, parte Shimano XTR e parte custom by Specialized.

Io non ero sicuramente dell’idea di spendere un patrimonio per una bici tanto esagerata, ma la curiosità mi spinse a farci un giro in Caffarella. La frase che pronunciai uscendo dal negozio fu: “La provo solo per curiosità, tanto di una bici così non saprei che farmene”. La frase che pronunciai rientrando circa venti minuti dopo fu: “Quant’è che costa questa bici?”

Cos’era successo in quei venti minuti? Niente di particolare, tranne il fatto che metà delle certezze che avevo sulle biciclette ‘all-terrain’ (quelle che vengono comunemente chiamate mountain-bike) erano state appena spazzate via da una innovazione tecnologica assoluta: il carro posteriore ammortizzato. Unito, ovviamente, ad una forcella anteriore di gran lunga più efficiente di quella che già avevo sulla Bianchi.

Passare da una buona “front” (ammortizzata solo davanti) ad una “full” (integrale) significa ridefinire il concetto stesso di “discesa impegnativa”. I passaggi tecnici che sulla rigida affrontavo “in fuorisella”, rischiando il cappottamento, sulla “front” ero passato ad affrontarli “in sella”, con molta più scioltezza, ma su una “full” diventavano un gioco, da prendere in spensieratezza e velocità. Devo confessare che a me è sempre piaciuto giocare.

Per gli “stradisti” comprendere una simile bicicletta può risultare arduo. Le caratteristiche di una bici da corsa sono leggerezza, rigidità ed estrema scorrevolezza, ottenuta grazie a battistrada sottilissimi e gonfiati ad alta pressione. Qui invece siamo in presenza di una bici relativamente pesante (12,5kg all’epoca, oggi un po’ di più), estremamente flessibile e con ruote davvero poco scorrevoli, onde disporre di maggior “grip” sul fondo sterrato. Cosa può esserci di desiderabile in tutto ciò?

Il fatto è che una bici così, se da un lato toglie efficienza e velocità su strada, dall’altro spalanca spazi prima proibiti, consentendo di passare senza soluzione di continuità (e senza perdere velocità!) dall’asfalto, al marciapiede, al prato, ai sentieri nei parchi, al basolato romano dell’Appia Antica(!). Spazi prima preclusi ed inagibili diventano preziose risorse di mobilità sicura anche per gli spostamenti cittadini.

La bici da corsa, veloce e filante finché ci si muove sulle strade extraurbane, diventa in città un oggetto goffo, fragile ed un po’ fuori luogo. Scomoda sul sampietrino, pericolosa in presenza dei binari del tram, limitata alla sede stradale da condividere con veicoli più massicci, veloci ed aggressivi, obbliga il suo guidatore a notevoli livelli di stress. Al contrario una “full-suspended” usata in città consente di limitare l’utilizzo della sede stradale nei tratti più critici (ed il conseguente rischio di estinzione) ad un 20% del totale, sfruttando superfici altrimenti impraticabili per muoversi a velocità inaspettatamente elevate.

Ma tornando al racconto, la risposta di Alberto alla mia domanda “Quanto costa?” raggelò all’istante i miei entusiasmi: “Nuova? Sui quattro milioni”

(‘azz…!)

Io: “Vabbé, ne riparliamo più in là… (mi sa mooooolto più in là…)”

Di fatto non fu poi moltissimo tempo. Il guaio di certe bici è salirci sopra: dopo nulla può più essere come prima. Sei mesi più tardi già ragionavo di farmi una “full”, e sempre da MisterBike c’era una Dart usata ad una cifra ben più abbordabile (2,3 Ml. di vecchie lire, all’epoca per me poco più di un mese di stipendio).

Andai a provarla un sabato mattina di dicembre e non ne rimasi altrettanto entusiasta, certo era un po’ più leggera, ma l’ammortizzatore posteriore a molla d’acciaio non mi dava la stessa resa elastica del “Fox” ad aria che ben ricordavo. Riportandola in negozio mi cadde l’occhio sulla Specialized che mi aveva ‘rubato il cuor’, e chiesi titubante: “e… questa?” Alberto rispose pronto: “Anche questa è disponibile, l’ho usata io sei mesi e ora pensavo di metterla in vendita a due milioni e otto… ma per te potrei fare due e mezzo”. Io :“se non ti dispiace… riprovo anche questa!”.

Il giorno dopo un “Babbo Natale” (che a detta di Alberto sembrava tale e quale a me, spiccicato!) staccava un assegno consistente, e mi faceva trovare sotto l’albero il regalo che tanto desideravo.

A posteriori l’acquisto fu una scelta saggia, ad oggi questa bici è ancora competitiva con le nuove uscite sul mercato, di poco più leggere. La guarnitura è Shimano XT (l’originale Specialized venne distrutta da Alberto…). L’attacco manubrio era troppo lungo (12cm), e dopo un tentativo infruttuoso con Alberto (che all’epoca non era in grado di reperirne uno analogo da 10cm), contrattai ed ottenni di sostituirlo con quello di un’altra Specialized… in vetrina! “Fallo tu, io non voglio guardare…” mi disse.

La forcella anteriore originale (una Manitou a molle) è finita sulla Bianchi, sostituita da una RockShox Tora ad aria, con notevole incremento di peso (almeno mezzo chilo) ma assolutamente senza confronto quanto a prestazioni, il tutto nel corso di una revisione che ha anche sistemato un fastidioso problema di usura alle boccole degli snodi del carro posteriore.

Questa bici non ha mai avuto un nome definito. A volte la chiamo “la Rossa”, per distinguerla dalla “Bionda” (la Bianchi), altre volte “la Full”. Ogni tanto, quando mi sento particolarmente aggressivo, “Velociraptor”. Per esempio quando torno a casa di notte e senza luci sfrecciando attraverso il parco della Caffarella, e per farmi coraggio, fra me e me, fantastico di essere il predatore più ‘pericoloso’ nei dintorni.

Update: purtroppo nel 2018 questa bici ha cessato di esistere… (per poi risorgere dalle proprie ceneri).

Pedalando di notte

Image Hosted by ImageShack.usUltimamente  mi capita spesso di andare in bicicletta di notte. Ho cominciato col tornare a casa dai ciclopicnic del mercoledì, poi a prendere la bici per recarmi il giovedì sera al laboratorio di teatro, e alla lunga comincia a piacermi.

C’è qualcosa di sicuramente inconsueto nel pedalare a Roma intorno alla mezzanotte di un giorno feriale. Il traffico è minimo e non particolarmente aggressivo, nonostante il buio si rischia molto meno che ad andare in giro di giorno. I marciapiedi, poi, sono in genere deserti, per cui anche nei punti in cui il poco traffico continua a farsi sentire è possibile svicolare e muoversi in tranquillità. Molte delle strade secondarie, che per solito utilizzo di giorno per evitare il caos, di notte sono pressoché deserte, "deserte e silenziose" come in una vecchia canzone di Domenico Modugno.

E ancora la notte porta con sé il fresco e l’umidità, e una volta dispersi i residui di combustione che ci intossicano l’aria perfino i profumi degli alberi fioriti tornano a farsi sentire. E già, pensavamo che fossero soltanto un’invenzione dei poeti, invece è solo che preferiamo respirare fumi di scappamento pestilenziali.

Ma c’è, sotto sotto, ancora qualcos’altro. Pedalare di notte per le strade della città è talmente estraniante che mi sembra di vivere in un mondo assurdo ed incomprensibile, fatto di palazzi enormi, di automobili enormi, di enormi rumori ed altrettanto enormi silenzi. In questo sentirmi minuscolo mi ritrovo un po’ bambino, uno strano bambino di quarantadue anni che, a differenza di chi sta chiuso in casa davanti al televisore, o già a dormire, ha ancora tanta fame di vita e voglia di giocare, e correre nel buio sulla propria biciclettina.

Ogni cosa è illuminata

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Libro curioso, a suo modo davvero "straordinario", sicuramente inatteso e sorprendente questo "Ogni cosa è illuminata" di Jonathan Safran Foer, fatto di tre narrazioni distinte ed intrecciate tra loro, di un uso del linguaggio (nonostante la traduzione!) spettacolare, al limite dell’acrobazia verbale, e ricco di una capacità di emozionare che è raro incontrare.

Foer è uno scrittore capace di parlare della vita e della morte, della gioia e del dolore, della felicità e della disperazione, di tutto e del contrario di tutto con profondità e, al tempo stesso, leggerezza. Alcune pagine ti attorcigliano le budella in un groviglio di sensazioni ed emozioni contrapposte impossibili da gestire.

Un libro che non smette di sorprendere dalla prima all’ultima pagina è qualcosa di difficile da immaginare, ed ancor più da raccontare. Rivelare parte della trama sarebbe inutile e riduttivo, descriverne solo alcuni episodi fuori dal contesto peggio che sbagliato, limitarsi all’analisi stilistica fuorviante.

Di fronte ad un tale profluvio di idee, immagini, suggestioni, citazioni, metafore, lirismi ed efferatezze, risulta difficile perfino scegliere un punto di partenza dal quale iniziare a sdipanare la matassa. E qui mi arrendo, accetto il mio limite: non sono in grado di raccontarne. Posso solo limitarmi a consigliarne la lettura, vivamente, sentitamente, con convinzione. È un libro fantastico. Punto.

Ma la cosa veramente sconvolgente sono le note biografiche. Più che altro è realizzare che tali ricchezza e maturità espressiva sono state raggiunte da Foer a soli venticinque anni…! Si può solo gridare al miracolo (ed ingoiare l’invidia).

P.s.: ne avevo già parlato QUI e QUI.

Rappresentare la morte

La scorsa settimana un post di Alberto su Romapedala, riguardante l’ennesimo ciclista morto sulle strade italiane, mi ha causato una perdurante sensazione di rabbia impotente. Abbiamo la rete stradale più ipertrofica d’Europa, eppure questa rete è stata realizzata male, senza pensare ad altro che a far muovere automobili, motociclette e camion, nessun altro mezzo di trasporto è stato preso in considerazione, men che meno quelli lenti e fragili, bicicletta in testa.

Ancora meno di vent’anni fa uscire in bicicletta da Roma era una cosa abbastanza fattibile, le vie consolari erano meno trafficate anche perché l’edificazione della campagna romana, la creazione di "zone residenziali" (molto spesso seconde case) non era ancora iniziata ed il trasferimento di masse di cittadini al di fuori dell’anello del GRA era là da venire. Adesso, con la creazione di intere città al di fuori del Raccordo Anulare, con una "villettizzazione" del territorio ormai capillare, il traffico ha raggiunto livelli deliranti e la rete viaria è rimasta quella di vent’anni fa, se non, in qualche caso, peggiorata.

Uscire in bicicletta da Roma, oggi, è diventato uno sport estremo, "no-limits". Raccordi e svincoli sono fatti per veicoli che viaggiano tra 70 e 90km/h, non ci sono rallentamenti, non ci sono corsie di emergenza, non c’è nulla che possa aiutare un povero disgraziato che si muova a velocità più basse ad evitare di essere ripetutamente sfiorato, o strombazzato, o di vedersi tagliare la strada. Il risultato è che ormai anche i ciclisti sportivi si sono adeguati, e le loro uscite adottano, consapevolmente o meno, le tecniche di CriticalMass: si mettono su strada in gruppi di decine ed occupano per intero la carreggiata.

Diciamola tutta, i ciclisti sono stati estromessi dalle strade, si sono dovuti adattare ai sentieri di campagna, sterrati e sconnessi, hanno sviluppato ruote artigliate ed ammortizzatori e sono diventati mountain bikers. Però questo non vale per tutti, e non è neppure giusto che il transito sulla rete stradale, consentito dal Codice della Strada, debba avvenire in condizioni di perenne rischio, e lo stesso discorso assume ancor più valore se parliamo delle strade cittadine, dove l’arroganza criminale di pochi spericolati di fatto impedisce l’uso delle strade a donne, anziani, bambini, in plateale e servile omaggio ai produttori di petrolio che governano il mondo.

Possibile che non si possa fare nulla, mi sono domandato. Possibile che si debba subire questa condizione di "cittadini di serie B"? Che il primo pazzo spericolato possa mettere a repentaglio oltre che la propria esistenza (ben tutelata da air-bag, barre anti intrusione e dall’intero guscio corazzato in cui si rinchiude entrando in macchina) anche la nostra, senza che le persone delegate alla gestione della cosa pubblica minimamente se ne preoccupino realizzando la messa in sicurezza delle strade?

Che cosa dobbiamo fare per opporci a tutto ciò?

È stato a quel punto che mi sono reso conto che quello che si può fare è in realtà molto semplice: mostrarlo. Mostrare che c’è gente che muore per ignavia, per colpevole disinteresse, per distratta rimozione. Mostrare la morte e restituirla a chi la produce. C’è entrato di mezzo sicuramente il lavoro condotto con i laboratori teatrali, la presa di coscienza della forza comunicativa dei corpi, delle persone vere.

Ho immaginato questo: un corteo di biciclette che in silenzio, lentamente, accompagnate da una musica tetra e funebre si muove per la città. Un corteo di ciclisti con gli abiti imbrattati di sangue che incarnino le vittime di questa (in)civiltà della motorizzazione selvaggia, che passino accanto alla gente intenta allo shopping del sabato pomeriggio, alle vetrine sfavillanti, all’allegria forzata della civiltà dei consumi. Gli passino accanto dando corpo alla precarietà dell’esistere, al rischio che ogni ciclista corre, quando esce di casa, di non tornare più, ai morti a cui nessuno vuol pensare, ai feriti che nessuno vuole ricordare, agli invalidi.

Ho immaginato questo corteo fermarsi nelle piazze affollate di turisti, ed i ciclisti stendersi a terra, rappresentando la propria morte, mentre altri stendono loro sopra delle lenzuola bianche, dei sudari. Ho immaginato una voce, amplificata, raccontare il numero di morti dall’inizio dell’anno, e poi cominciare ad elencarli per nome, cognome ed età, distribuire volantini in cui si chiede, se non che la strage abbia termine, perlomeno che la sicurezza sulle strade diventi una priorità.

Ed alla fine alzarsi, e lentamente portare il proprio fardello di dolore e di angoscia in un’altra piazza, e un’altra ancora. Lasciare dietro di sé un senso di vuoto, di perdita, di tristezza. Colpire l’indifferenza con un pugno allo stomaco, ferire l’ignavia consumista ricordando a tutti la precarietà dell’esistere.

E alla fine ottenere almeno che qualcuno si muova, agisca, si attivi.
Non foss’altro che per farci smettere di rattristare gli altri della stessa tristezza che viviamo noi stessi, giorno dopo giorno.