(possibile evoluzione dei modelli di dipendenza delle società umane dal costrutto culturale mercantile e dai suoi sottoprodotti)
1 – Abstract
2 – Età Antica
3 – Età Moderna
4 – Mondo Contemporaneo
Nei post precedenti abbiamo analizzato come i costrutti culturali emergano nelle società primitive, come evolvano in risposta alle trasformazioni prodotte nelle (e dalle) società umane, come procedano a consolidarsi in segmenti diversi del corpus sociale, come questi ultimi finiscano a competere gli uni con gli altri per l’egemonia culturale ed economica. Ora proveremo a ragionare sui potenziali effetti di una prevedibile contrazione nella disponibilità di risorse globali.
La prima e più grave preoccupazione riguarda il fatto che il costrutto culturale ad oggi dominante, quello che abbiamo definito come ‘mercantile/imprenditoriale’, deve il proprio successo in gran parte all’assenza di lungimiranza. La logica mercantile premia i ritorni rapidi, che possono essere reinvestiti nella ‘messa a reddito’ di nuove opportunità, pertanto non è culturalmente adeguata a gestire processi con un orizzonte temporale esteso.
Vale la pena di approfondire il concetto di ‘messa a reddito’. Di norma tale processo consiste nella trasformazione di qualcosa di preesistente allo stato grezzo (le ‘materie prime’) in un ‘prodotto finito’ percepito come di maggior valore. Il concetto di ‘valore’ non è infatti assoluto, ma legato al contesto culturale, soggetto quindi ad ampi margini di manipolazione ad opera dei già menzionati vettori culturali mediatici.
Procediamo con degli esempio. Primo caso: un bosco di mezza montagna. Dalla ridotta popolazione di prossimità la presenza del bosco non viene percepita come una forma di ricchezza, mentre la popolazione più lontana e numerosa della città ha necessità di legna da utilizzare come materiale da costruzione e combustione. Il costrutto culturale mercantile taglia il bosco, paga gli operai, rivende la legna, intasca il guadagno e lascia un versante di montagna scoperto e brullo, dove non c’è modo che un bosco possa ricrescere.
Una versione riveduta e corretta di questo processo è il cosiddetto ‘ceduo’, ovvero il taglio della porzione maggioritaria del bosco che lascia però una minima quantità di alberi in grado di far ricrescere il bosco in un arco temporale di pochi decenni. Il ceduo, tuttavia, finisce col privare il substrato roccioso della materia organica utilizzata nella crescita dei tronchi degli alberi tagliati, e sul lungo periodo produce ugualmente la desertificazione.
Ho fatto l’esempio dei boschi di mezza montagna perché quelli delle pianure sono già stati tutti tagliati, nel remoto passato, per far spazio alle pratiche agricole ed all’allevamento. Questa sistematica distruzione di habitat originari, operata dall’umanità fin dall’epoca neolitica, ha privato molte specie animali selvatiche degli spazi necessari alla sopravvivenza, portandole all’estinzione.
Quello che sistematicamente non entra nel conto dei costi/benefici è infatti la componente non umana della biosfera: gli alberi che smettono di esistere, spesso a tempo indeterminato (l’Irlanda e la Scozia erano coperte di foreste fino al XVIII secolo, epoca in cui furono tagliate fino all’ultimo albero), le popolazioni di animali, che dagli alberi dipendono per il nutrimento e l’habitat riproduttivo, che scompaiono definitivamente, non potendo trasferirsi altrove. L’intero processo, che su piccola scala avrebbe margini di ricomposizione, su larga scala produce una distruzione semi-permanente.
Analogamente, come ben descritto da Jared Diamond in “Collasso” [1] e da Ugo Bardi in “La Terra Svuotata” [2], le attività estrattive di materie prime minerali tendono a massimizzare i guadagni, lasciando una varietà di danni ambientali in eredità alle generazioni a venire. Anche quando le imprese si impegnano anticipatamente a ripristinare, per quanto possibile, la situazione preesistente, di norma dichiarano fallimento per non dover reinvestire una parte dei guadagni nei lavori di risistemazione.
Detto in sintesi, il costrutto culturale ‘mercantile/imprenditoriale’, ad oggi dominante, è fondato sul progressivo sfruttamento (distruzione) di quanto esistente, finalizzato ad una sua conversione in forme destinate ad appagare i bisogni materiali ed immateriali di un’unica specie, la nostra. Il problema è che un processo interamente basato sulla distruzione, più o meno rapida, non può proseguire indefinitamente, in particolar modo se tale distruzione, meticolosamente organizzata, avviene così rapidamente da non lasciare tempo alla biosfera di rigenerarsi.
Perché di fatto questo è l’ostacolo culturale col quale nessun costrutto mercantile/ imprenditoriale è in grado di confrontarsi: la finitezza del mondo. L’orizzonte contemplabile all’interno di tale schema mentale è unicamente quello della concorrenza tra simili, della competizione, dell’accaparramento di risorse e dello sviluppo di modelli di dipendenza nella popolazione, così da generare ‘mercati’ dai quali estrarre ricchezza.
Nell’orizzonte culturale mercantile/imprenditoriale l’esistente non ha alcun valore in sé, hanno valore unicamente i processi di trasformazione in grado di produrre un ritorno economico. Il fatto che questo costrutto culturale abbia finito con l’emergere come dominante, nelle dinamiche della specie umana, condanna il pianeta alla distruzione. E stante il suo indiscusso successo, l’unico evento apparentemente in grado di porre un freno a tale cieca avidità è l’esaurimento delle risorse.
È interessante osservare un bizzarro cortocircuito, poiché la comunicazione culturale collettiva trae alimento dal solleticare i timori diffusi. Da un lato i mezzi di comunicazione fanno a gara tra loro nel trovare e diffondere notizie preoccupanti ed allarmanti, per catturare l’attenzione dei lettori e veicolare contenuti pubblicitari (particolarmente efficaci, sotto questo profilo, sono le notizie relative al riscaldamento globale ed ai cambiamenti climatici).
Dall’altro, la consapevolezza collettiva dei danni prodotti dal costrutto culturale dominante finiscono col produrre un disagio diffuso, capace di mettere in discussione le scelte politiche ed economiche di natura mercantile/imprenditoriale. Tale disagio richiede di essere gestito, sul piano culturale collettivo, e ciò avviene attraverso i mass media e i social network.
La prima strategia, la più classica e sempre efficace, è la distrazione. Il cervello umano tende spontaneamente ad evadere le questioni spiacevoli, in special modo quelle riguardanti situazioni sulle quali non abbia capacità di intervento diretto ed immediato. Il senso di disagio viene quindi rimosso canalizzando l’attenzione su altri argomenti, consentendo di operare una rapida e sistematica rimozione.
Un’altra strategia consiste nell’alimentare narrazioni negazioniste, contrastando le notizie preoccupanti con interpretazioni e chiavi di lettura più rassicuranti. Il negazionismo climatico, alimentato e sostenuto dalle lobby legate alla produzione e sfruttamento di prodotti climalteranti, è un esempio relativamente recente (nonostante ciò, rappresenta un fenomeno già diffusissimo e largamente documentato).
Un’ultima strategia, anch’essa attualmente molto in voga, riguarda la diffusione delle cosiddette ‘teorie del complotto’, che fanno leva sulla parte più irrazionale della psiche umana. Le teorie del complotto assolvono la doppia funzione da un lato di negare le evidenze e dall’altro di distrarre dalla realtà, reinterpretandola mediante una narrazione seducente ed all’apparenza verosimile.
Si pone quindi la necessità di un superamento dell’egemonia culturale del costrutto mercantile/imprenditoriale attraverso l’elaborazione di un costrutto culturale alternativo, che tenga conto del valore di quanto esistente, per realizzarne la tutela, e parallelamente sia in grado di competere sul piano delle risorse economiche o culturali, per fronteggiare il costrutto avversario e ridimensionarne i margini d’azione.
Il timore, prendendo in prestito le parole del poeta T.S Eliot [3], è che “prima di guarire, il nostro male debba ancora peggiorare”. Il che si tradurrà in una perdita irreversibile di habitat naturali e biodiversità.
(continua… per ora sto approfondendo l’analisi dei processi di sviluppo delle ideologie)