Economia, domesticazione e dipendenze (prospettive)

(possibile evoluzione dei modelli di dipendenza delle società umane dal costrutto culturale mercantile e dai suoi sottoprodotti)

1 – Abstract
2 – Età Antica
3 – Età Moderna
4 – Mondo Contemporaneo

Nei post precedenti abbiamo analizzato come i costrutti culturali emergano nelle società primitive, come evolvano in risposta alle trasformazioni prodotte nelle (e dalle) società umane, come procedano a consolidarsi in segmenti diversi del corpus sociale, come questi ultimi finiscano a competere gli uni con gli altri per l’egemonia culturale ed economica. Ora proveremo a ragionare sui potenziali effetti di una prevedibile contrazione nella disponibilità di risorse globali.

La prima e più grave preoccupazione riguarda il fatto che il costrutto culturale ad oggi dominante, quello che abbiamo definito come ‘mercantile/imprenditoriale’, deve il proprio successo in gran parte all’assenza di lungimiranza. La logica mercantile premia i ritorni rapidi, che possono essere reinvestiti nella ‘messa a reddito’ di nuove opportunità, pertanto non è culturalmente adeguata a gestire processi con un orizzonte temporale esteso.

Vale la pena di approfondire il concetto di ‘messa a reddito’. Di norma tale processo consiste nella trasformazione di qualcosa di preesistente allo stato grezzo (le ‘materie prime’) in un ‘prodotto finito’ percepito come di maggior valore. Il concetto di ‘valore’ non è infatti assoluto, ma legato al contesto culturale, soggetto quindi ad ampi margini di manipolazione ad opera dei già menzionati vettori culturali mediatici.

Procediamo con degli esempio. Primo caso: un bosco di mezza montagna. Dalla ridotta popolazione di prossimità la presenza del bosco non viene percepita come una forma di ricchezza, mentre la popolazione più lontana e numerosa della città ha necessità di legna da utilizzare come materiale da costruzione e combustione. Il costrutto culturale mercantile taglia il bosco, paga gli operai, rivende la legna, intasca il guadagno e lascia un versante di montagna scoperto e brullo, dove non c’è modo che un bosco possa ricrescere.

Una versione riveduta e corretta di questo processo è il cosiddetto ‘ceduo’, ovvero il taglio della porzione maggioritaria del bosco che lascia però una minima quantità di alberi in grado di far ricrescere il bosco in un arco temporale di pochi decenni. Il ceduo, tuttavia, finisce col privare il substrato roccioso della materia organica utilizzata nella crescita dei tronchi degli alberi tagliati, e sul lungo periodo produce ugualmente la desertificazione.

Ho fatto l’esempio dei boschi di mezza montagna perché quelli delle pianure sono già stati tutti tagliati, nel remoto passato, per far spazio alle pratiche agricole ed all’allevamento. Questa sistematica distruzione di habitat originari, operata dall’umanità fin dall’epoca neolitica, ha privato molte specie animali selvatiche degli spazi necessari alla sopravvivenza, portandole all’estinzione.

Quello che sistematicamente non entra nel conto dei costi/benefici è infatti la componente non umana della biosfera: gli alberi che smettono di esistere, spesso a tempo indeterminato (l’Irlanda e la Scozia erano coperte di foreste fino al XVIII secolo, epoca in cui furono tagliate fino all’ultimo albero), le popolazioni di animali, che dagli alberi dipendono per il nutrimento e l’habitat riproduttivo, che scompaiono definitivamente, non potendo trasferirsi altrove. L’intero processo, che su piccola scala avrebbe margini di ricomposizione, su larga scala produce una distruzione semi-permanente.

Analogamente, come ben descritto da Jared Diamond in “Collasso” [1] e da Ugo Bardi in “La Terra Svuotata” [2], le attività estrattive di materie prime minerali tendono a massimizzare i guadagni, lasciando una varietà di danni ambientali in eredità alle generazioni a venire. Anche quando le imprese si impegnano anticipatamente a ripristinare, per quanto possibile, la situazione preesistente, di norma dichiarano fallimento per non dover reinvestire una parte dei guadagni nei lavori di risistemazione.

Detto in sintesi, il costrutto culturale ‘mercantile/imprenditoriale’, ad oggi dominante, è fondato sul progressivo sfruttamento (distruzione) di quanto esistente, finalizzato ad una sua conversione in forme destinate ad appagare i bisogni materiali ed immateriali di un’unica specie, la nostra. Il problema è che un processo interamente basato sulla distruzione, più o meno rapida, non può proseguire indefinitamente, in particolar modo se tale distruzione, meticolosamente organizzata, avviene così rapidamente da non lasciare tempo alla biosfera di rigenerarsi.

Perché di fatto questo è l’ostacolo culturale col quale nessun costrutto mercantile/ imprenditoriale è in grado di confrontarsi: la finitezza del mondo. L’orizzonte contemplabile all’interno di tale schema mentale è unicamente quello della concorrenza tra simili, della competizione, dell’accaparramento di risorse e dello sviluppo di modelli di dipendenza nella popolazione, così da generare ‘mercati’ dai quali estrarre ricchezza.

Nell’orizzonte culturale mercantile/imprenditoriale l’esistente non ha alcun valore in sé, hanno valore unicamente i processi di trasformazione in grado di produrre un ritorno economico. Il fatto che questo costrutto culturale abbia finito con l’emergere come dominante, nelle dinamiche della specie umana, condanna il pianeta alla distruzione. E stante il suo indiscusso successo, l’unico evento apparentemente in grado di porre un freno a tale cieca avidità è l’esaurimento delle risorse.

È interessante osservare un bizzarro cortocircuito, poiché la comunicazione culturale collettiva trae alimento dal solleticare i timori diffusi. Da un lato i mezzi di comunicazione fanno a gara tra loro nel trovare e diffondere notizie preoccupanti ed allarmanti, per catturare l’attenzione dei lettori e veicolare contenuti pubblicitari (particolarmente efficaci, sotto questo profilo, sono le notizie relative al riscaldamento globale ed ai cambiamenti climatici).

Dall’altro, la consapevolezza collettiva dei danni prodotti dal costrutto culturale dominante finiscono col produrre un disagio diffuso, capace di mettere in discussione le scelte politiche ed economiche di natura mercantile/imprenditoriale. Tale disagio richiede di essere gestito, sul piano culturale collettivo, e ciò avviene attraverso i mass media e i social network.

La prima strategia, la più classica e sempre efficace, è la distrazione. Il cervello umano tende spontaneamente ad evadere le questioni spiacevoli, in special modo quelle riguardanti situazioni sulle quali non abbia capacità di intervento diretto ed immediato. Il senso di disagio viene quindi rimosso canalizzando l’attenzione su altri argomenti, consentendo di operare una rapida e sistematica rimozione.

Un’altra strategia consiste nell’alimentare narrazioni negazioniste, contrastando le notizie preoccupanti con interpretazioni e chiavi di lettura più rassicuranti. Il negazionismo climatico, alimentato e sostenuto dalle lobby legate alla produzione e sfruttamento di prodotti climalteranti, è un esempio relativamente recente (nonostante ciò, rappresenta un fenomeno già diffusissimo e largamente documentato).

Un’ultima strategia, anch’essa attualmente molto in voga, riguarda la diffusione delle cosiddette ‘teorie del complotto’, che fanno leva sulla parte più irrazionale della psiche umana. Le teorie del complotto assolvono la doppia funzione da un lato di negare le evidenze e dall’altro di distrarre dalla realtà, reinterpretandola mediante una narrazione seducente ed all’apparenza verosimile.

Si pone quindi la necessità di un superamento dell’egemonia culturale del costrutto mercantile/imprenditoriale attraverso l’elaborazione di un costrutto culturale alternativo, che tenga conto del valore di quanto esistente, per realizzarne la tutela, e parallelamente sia in grado di competere sul piano delle risorse economiche o culturali, per fronteggiare il costrutto avversario e ridimensionarne i margini d’azione.

Il timore, prendendo in prestito le parole del poeta T.S Eliot [3], è che “prima di guarire, il nostro male debba ancora peggiorare”. Il che si tradurrà in una perdita irreversibile di habitat naturali e biodiversità.

(continua… per ora sto approfondendo l’analisi dei processi di sviluppo delle ideologie)

[1] – Collasso

[2] – La Terra Svuotata

[3] – T.S. Eliot

Economia, domesticazione e dipendenze (mondo contemporaneo)

(consolidamento dei modelli di dipendenza delle società umane dal costrutto culturale mercantile e dai suoi sottoprodotti)

1 – Abstract
2 – Età Antica
3 – Età Moderna

Nei post precedenti abbiamo analizzato come i costrutti culturali emergono nelle società primitive, come evolvono in risposta alle trasformazioni prodotte nelle (e dalle) società umane, come procedono a consolidarsi in segmenti diversi del corpus sociale e come questi ultimi finiscano a competere gli uni con gli altri per l’egemonia culturale ed economica. Quello su cui non abbiamo ancora ragionato è la dipendenza dei relativi rapporti di forza dalla disponibilità di denaro e risorse.

Uno dei costrutti culturali più antichi, quello militare, è strettamente connesso all’aggressività ed alla gestione dei conflitti, sia all’interno della comunità che all’esterno della stessa. Le comunità umane più primitive avevano la necessità di difendersi solo dai grandi predatori. In epoche successive, con lo sviluppo di aggregati umani sempre più affollati, membri e gruppi hanno sviluppato forme di conflittualità reciproche, e le stesse comunità sono entrate in conflitto con altre comunità umane per la disponibilità di risorse.

Lo sviluppo dell’agricoltura comportò l’individuazione dell’acqua dolce come risorsa essenziale per l’irrigazione delle colture, ed alla sua irreggimentazione. Le prime guerre tra città, nell’antica Mesopotamia, si svolsero proprio per il controllo di questa risorsa. La crescita delle comunità, in forma di grandi città, e lo sviluppo di una conflittualità reciproca portò all’emergere di una specifica cultura militare legata al combattimento, all’aggressione ed alla conquista.

Ma la casta militare, per essere efficiente, deve consumare risorse, non può disperdere energie per produrne. Finisce quindi col dipendere, per il proprio sostentamento, dalle classi produttive (operai) e dagli apparati dirigenziali che drenano e redistribuiscono la ricchezza all’interno della comunità. Ancora oggi l’etimologia della parola ‘soldato’ discende dall’idea di pagamento (‘solidi’, in latino, da cui discende il moderno ‘soldi’, in italiano, o l’inglese ‘sold’, che significa venduto).

Nel mondo antico il possesso di denaro era concentrato nelle strutture di governo di città e nazioni, e così il controllo degli eserciti. Questo perché i canali di generazione di ricchezza erano principalmente due: quanto prodotto dalla comunità stessa (processo che richiedeva il controllo della produzione di cibo e manufatti) e la predazione di ricchezze altrui (che necessitava di un esercito forte e ben armato). Questa organizzazione ha continuato a funzionare fino all’inizio dell’età coloniale ed all’ascesa della classe mercantile, per poi disgregarsi del tutto con l’industrializzazione, le due guerre mondiali e la successiva globalizzazione.

L’ascesa delle civiltà del bacino del Mediterraneo e le loro conflittualità reciproche, protratte su un arco temporale di millenni, hanno finito col portare ad un significativo progresso tecnologico delle nazioni europee rispetto a quelle del resto del pianeta (con l’esclusione della Cina, con la quale tuttavia il mondo europeo non ha avuto contatti diretti fino a tempi relativamente recenti). Tale disparità ha generato un vantaggio iniziale, sul piano militare, che è stato sfruttato per asservire, prima militarmente, poi economicamente, buona parte del pianeta.

L’Europa emerge quindi dal medioevo con una popolazione in crescita ed un ventaglio di tecnologie, logistiche e militari, che le consentiranno di assoggettare paesi molto lontani: oltre alle armi da fuoco dispone di navi capienti, in grado di percorrere lunghe distanze e avanzare controvento, oltre alle competenze astronomiche ed agli strumenti per muoversi in oceano aperto. Per mezzo di queste navi, i mercanti da tempo commerciano con l’oriente e gli stati nazionali spostano gli eserciti necessari ad assicurare il controllo militare.

Dal punto di vista militare gli eserciti europei dispongono di fucili ad avancarica e cannoni, quando la gran parte delle popolazioni con le quali si confrontano sono ancora all’età della pietra. Questa schiacciante superiorità tecnologica consentirà a poche nazioni europee di ottenere il controllo dei continenti americani e di buona parte dell’Africa e dell’Indonesia.

Ma a guidare questo processo non è più il vertice politico degli stati nazionali, bensì il comparto mercantile. Mentre principi e regnanti spendono soldi per gli eserciti che garantiscono loro l’esercizio del potere, ad accumulare ricchezza è sempre più spesso la classe mercantile, che nel tempo consolida il proprio potere proprio in termini di controllo sulla gestione dei flussi di denaro.

La rivoluzione industriale indurrà un’ulteriore accelerazione, avviando il processo di globalizzazione dell’economia mondiale. Nell’era industriale il controllo delle tecnologie avanzate consentirà alle nazioni europee di svincolarsi progressivamente dalla produzione diretta di cibo sul proprio territorio, ritenendo più conveniente scambiare prodotti tecnologici finiti, dall’alto valore aggiunto, con derrate alimentari generate in quantità in territori militarmente, culturalmente ed economicamente asserviti.

Assistiamo pertanto all’evoluzione di una stratificazione sociale piramidale, che esibisce specularità in diversi ambiti. Nelle città dell’antichità (e in gran parte di quelle moderne) troviamo negli spazi centrali i luoghi pubblici e gli edifici di culto, in prossimità le abitazioni delle fasce sociali più benestanti, e man mano che ci si allontana verso le periferie quelle delle classi sociali economicamente, culturalmente e socialmente più povere.

La stessa struttura, su scala più ampia, la osserviamo nell’organizzazione delle nazioni moderne, dove la capitale, generalmente, ospita il governo e le principali istituzioni culturali, economiche e sociali, le altre grandi città ospitano principalmente funzioni produttive, le piccole città gestiscono la produzione agricola e manufatturiera locale, mentre popolazioni di luoghi sperduti del pianeta provvedono al grosso del fabbisogno di cibi, nutrimento e materie prime, non potendo godere né della cittadinanza, né dei diritti umani e sociali ad essa connessi.

Con un processo analogo a quello che ha interessato l’articolarsi delle prime forme urbane e delle prime civiltà, la produzione ‘bruta’ di cibi e manufatti è stata progressivamente dislocata nei paesi poveri, mentre i paesi ricchi si sono riservati, anche per mezzo di interventi militari e governi fantoccio, il controllo dell’innovazione e dello sviluppo dei saperi.

Questa diversificazione funzionale delle popolazioni a livello globale ha richiesto una diversificazione delle rispettive dipendenze. Alle popolazioni povere, economicamente e militarmente asservite, è stato concesso di continuare a dipendere semplicemente da quanto da esse prodotto (cibo, vestiario, abitazioni e manufatti di bassa complessità) mentre, come vedremo più avanti, è stato necessario individuare forme di dipendenza più complesse per la parte di popolazione destinata ad alimentare lo sviluppo tecnologico.

Il processo di ascesa dell’industrializzazione, e le conseguenti delocalizzazioni, sono stati interamente gestiti con le architetture mentali del costrutto culturale mercantile, che si è dimostrato la ‘forma mentis’ più efficace nel mettere a regime ed avvantaggiarsi delle forme di ricchezza che commercio intercontinentale, pensiero scientifico e rivoluzione industriale avevano messo a disposizione dell’umanità. Quindi, per mezzo dell’accumulo di denaro e del controllo dei suoi flussi, la funzione mercantile ha progressivamente acquisito il controllo di stati ed eserciti [1].

Ma, come abbiamo premesso, se a spingere le trasformazioni sono le innovazioni tecnologiche ed energetiche, che innescano surplus produttivi ed alimentano la crescita delle popolazioni, il motore sociale di questo processo, in grado di fornire coerenza d’intenti e di azioni, consiste nel controllo delle dipendenze, reali e culturali, dell’intera popolazione.

Nel mondo antico sono gli stati, le autorità e i nobili, a gestire i flussi economici e il controllo degli eserciti per mezzo della tassazione, e allo stesso modo controllano la narrazione collettiva. Nel mondo moderno i flussi economici vengono gestiti da entità astratte e sovranazionali, le grandi Corporations, le Borse, la Finanza, nelle cui mani è concentrato un potere economico tale da controllare gli stessi stati nazionali, con una totale inversione dei rapporti di forza.

Ciò è avvenuto, un po’ alla volta, attraverso l’elaborazione e la diffusione di una narrazione collettiva legata alle idee di progresso, crescita, sviluppo, valorizzazione di risorse. Un processo che il costrutto culturale mercantile non ha avuto difficoltà ad alimentare per i propri fini. Nel tempo si è consolidata una dipendenza culturale da tali costrutti derivati. La società stessa, nonostante occasionali reazioni avverse, prontamente isolate e stigmatizzate [2], ha finito con l’accogliere i nuovi dettati culturali e col metabolizzarli in maniera totalmente acritica.

Più avanti nel tempo, con la scoperta di enormi giacimenti di petrolio e l’applicazione dei carburanti da esso derivati all’azionamento di motori a scoppio, il processo ha subìto un’ulteriore accelerazione. La quantità di energia e risorse da mettere potenzialmente a profitto è letteralmente esplosa e l’attitudine a ricavarne il massimo guadagno nel più breve lasso di tempo possibile, uno dei fondamenti del costrutto culturale mercantile, ha richiesto lo sviluppo e la diffusione di nuove forme di dipendenza culturale.

In partenza, le popolazioni umane dell’antichità dipendevano dal cibo, dalla sicurezza e da una manciata di utensili, abbigliamento compreso. Man mano che l’evoluzione tecnologica ha generato margini di tempo residuo, questo ‘tempo libero’ non è stato utilizzato solo per il riposo o lo svago, ma anche per produrre innovazioni sociali e culturali che hanno condotto a nuovi stili di vita e nuove forme di dipendenza.

In un mondo ricco e produttivo come l’attuale il singolo individuo ha sempre, di fronte a sé, l’opzione tra lavorare poco ed avere poco, il cosiddetto ‘stretto necessario’, e lavorare tanto per avere di più, la cosiddetta ‘ricchezza’. Ma la prima opzione, se praticata su larga scala, porta ad un rallentamento del processo economico, ad una stagnazione del mercato e ad un arricchimento meno rapido dei soggetti che controllano ed organizzano l’economia globale.

Per evitare che la prima scelta finisca col prevalere in ampie porzioni dalla società si è reso necessario agire sul piano culturale. Da un lato si è fatto in modo che lo ‘stretto necessario’ fosse indesiderabile, perché precarizzato, socialmente stigmatizzato e ridotto ai minimi termini. Dall’altro si è generato ed alimentato un ampio ventaglio di bisogni indotti, sfruttando i vettori culturali e le sinergie con altri comparti industriali.

Un esempio eclatante è relativo alla dipendenza sociale dall’automobile, illustrata nel saggio di Mattioli, Roberts, Steinberger e Brown, di cui ho recentemente pubblicato la traduzione [3]. La costruzione di tale dipendenza diffusa si è dimostrata uno strumento straordinariamente efficace per inondare il mercato dei manufatti di diversi comparti produttivi e generare il massimo surplus di ricavi. Il veicolo culturale rappresentato dai media informativi e dall’intrattenimento appare essere una componente chiave di tale strategia.

Ma un discorso analogo può essere esteso ad un qualsiasi ambito commerciale. In buona sostanza, dalla scoperta del fuoco in avanti, con la cottura dei cibi che ha ridotto i tempi digestivi regalando ai nostri antenati lunghe ore libere nel corso delle quali riflettere, annoiarsi, elaborare nuove idee e nuove preoccupazioni, è venuta crescendo la necessità di tenerci occupati, per evitare che l’accumularsi di queste nuove idee prendesse il sopravvento e finisse col minare il nostro equilibrio mentale.

Ci siamo tenuti occupati lavorando più a lungo, col risultato, in prospettiva, di disporre di ancora più tempo libero. O distraendoci, attraverso le arti e l’attività fisica, coltivando il nostro corpo, il nostro sapere e le nostre conoscenze. Il ‘panem et circenses’ dei nostri antenati latini non si discosta molto da questo concetto: la pace sociale si ottiene quando il popolo ha soddisfatti i bisogni materiali (il pane) e quelli immateriali (la distrazione). In una prospettiva analoga l’intero costrutto culturale religioso appare finalizzato alla distrazione dalla preoccupazione di dover morire.

Nell’epoca attuale, col ‘panem’ disponibile ad un costo relativamente basso (tanto da produrre obesità diffusa), per impedire che la redditività dell’economia rallenti (un diffuso artificio dialettico per creare consenso attorno al processo di arricchimento della classe mercantile) occorre spingere per promuovere nuovi ‘circenses’ (che qui potremmo meglio intendere come ‘stili di vita’) dai costi sempre più elevati. Cosa relativamente semplice da realizzare, dal momento che il ‘circenses’ più abbordabile, diffuso e capillare, fin dall’invenzione della stampa a caratteri mobili, è proprio l’intrattenimento.

Alla base dell’intero processo di domesticazione e induzione di dipendenze è l’accesso ai mezzi di intrattenimento e svago: cinema, televisione libri e fumetti, attraverso i quali ci vengono veicolate le architetture dell’organizzazione sociale e i modelli culturali di riferimento. Leggiamo, guardiamo programmi di fiction ed informativi, nel tentativo di evadere dalla nostra realtà individuale, e nel farlo assorbiamo i modelli culturali che la società, o meglio i proprietari dei canali di diffusione, hanno interesse ad inculcarci.

Assorbiamo prodotti culturali elaborati per diffondere i modelli di dipendenza necessari al controllo delle nostre scelte, delle nostre decisioni, dei nostri comportamenti. Modelli culturali che alimentano le nostre paure e preoccupazioni, con una diffusa esagerazione giornalistica della drammaticità delle notizie, che solleticano i nostri appetiti, con una marcata sessualizzazione di ogni prodotto voluttuario. Modelli culturali che, in buona sostanza, ci mantengano concentrati nel produrre più ricchezza, e distratti dalla realtà.

In estrema sintesi, come il titolo di questa serie di riflessioni suggeriva già in partenza, il comparto economico gestisce il controllo sul processo di auto-domesticazione della nostra specie per mezzo della generazione, e conseguente gestione, di un ampio ventaglio di forme di dipendenza culturale. La generazione di ‘bisogni indotti’ non rappresenta quindi un artificio occasionale del mercato, bensì il motore primo dell’economia moderna, che al crescere della ricchezza pro-capite deve produrre sempre nuovi meccanismi di desiderio, sempre nuovi appetiti, per impedire che il processo rallenti o si arresti del tutto.

Definita questa ‘fotografia’ della situazione attuale, proverò ad immaginarne gli sviluppi futuri, nel momento in cui la cultura dei consumi sfrenati e crescenti dovrà fare i conti con la finitezza delle risorse su scala globale. È un tema sul quale ho già ragionato in passato [4], dovrò solo verificare se la nuova prospettiva elaborata nell’arco di questa riflessione possa offrire indizi su differenti vie d’uscita.
(continua)

[1] – Capitalismo vs. Democrazia

[2] – Luddismo

[3] – La dipendenza sociale dall’automobile

[4] – Futurologia

Economia, domesticazione e dipendenze (età moderna)

(evoluzione dei modelli di dipendenza delle società umane dai costrutti culturali)

1 – Abstract
2 – Età Antica

L’idea che vado sviluppando in questa serie di riflessioni descrive il mondo moderno come prodotto della modellazione operata dal ventaglio dei costrutti culturali che, all’interno del processo di auto-domesticazione intrapreso dalla nostra specie, svolgono la funzione di recinti immateriali. In questa seconda parte dell’analisi vedremo come tali costrutti culturali, mitologie, fedi ed ideologie sociali, entrano in competizione per l’egemonia nelle società antiche, e come le architetture sociali escono rivoluzionate dalle innovazioni dell’età moderna.

La gerarchia dei costrutti culturali nel mondo antico è riassumibile in poche categorie.

  • Al livello più basso ci sono gli operai, che provvedono alla produzione di cibo ed alla costruzione di manufatti, e ne padroneggiano le competenze relative
  • Appena al di sopra degli operai troviamo i mercanti, che si occupano di gestire gli scambi e distribuire le produzioni di cibo e manufatti in base alle necessità
  • Quindi vengono i soldati, che hanno il ruolo di difesa del territorio e di aggressione dei regni confinanti; non producono ricchezza ma si esercitano nell’uso delle armi e garantiscono la soddisfazione dei bisogni immateriali di forza e sicurezza della comunità
  • Ancora al di sopra troviamo un livello occupato da funzionari, burocrati ed esattori fiscali, dai quali le classi inferiori dipendono per gli scambi di quanto prodotto ed il funzionamento dei meccanismi di mutuo sostentamento
  • Sopra funzionari e burocrati c’è la casta sacerdotale, che nel mondo pagano politeista è molto frammentata, finalizzata a soddisfare i bisogni immateriali ed irrazionali, che pure attengono all’animo umano
  • Sopra tutto c’è la struttura di governo, incarnata da un singolo monarca o da una collettività più o meno estesa di oligarchi e figure nobiliari, che designa ruoli ed incarichi e decide sulle priorità dell’intera collettività.

Ognuna di queste categorie risulta legata ad un diverso costrutto culturale. Gli operai hanno l’etica del lavoro, modellata da solidarietà tra pari, aiuto reciproco, paziente sopportazione delle avversità, capacità di accontentarsi. La cultura mercantile è caratterizzata dalla mentalità imprenditoriale, dalla competizione con i concorrenti, da una certa dose di furbizia. La cultura militare è fondata sull’aggressività e su idee di forza e predominio. Funzionari e burocrati applicano le regole nella prospettiva di una vita ordinata e poco avventurosa. I religiosi coltivano la sfera spirituale e confortano bisognosi e sofferenti, vivendo di donazioni. Nobili ed aristocratici si considerano superiori per diritto di sangue rispetto al resto della popolazione.

Come già anticipato, la diversa natura delle inclinazioni necessarie ad appartenere all’una o all’altra di queste culture, unita ad una certa continuità ereditaria delle occupazioni, agisce da filtro nel contribuire al frazionamento sociale. Col progredire della crescita della popolazione, con conseguente aumento della produzione di manufatti e ricchezza, queste diverse funzioni sociali, animate da differenti costrutti culturali, lottano per il controllo della società e dei flussi economici.

Basandoci su questo modello, possiamo passare a descrivere la transizione dal mondo antico al mondo contemporaneo in termini di competizione tra diversi costrutti culturali. Partiremo dalla dissoluzione dell’Europa post imperiale in una miriade di piccoli regni uniti dall’appartenenza religiosa

La transizione dell’impero romano dal paganesimo politeista al cristianesimo segna il declino dell’apparato imperiale/militare, non più in grado di generare ricchezza attraverso la predazione e la riduzione di intere popolazioni in schiavitù, e l’ascesa di una nuova spiritualità, in grado di rassicurare e confortare popolazioni nuovamente disperse e disaggregate.

L’abbandono del politeismo e l’adesione massiva ad un culto monoteista, proiettato sui bisogni dei meno abbienti, ha l’effetto di unificare i bisogni spirituali, prima dispersi in una varietà di culti, fedi e caste sacerdotali, sotto l’egemonia culturale di un’unica fede, le cui gerarchie devono organizzarsi e strutturarsi per gestire coerentemente l’intera popolazione dell’ex impero.

Nel medioevo il potere del Papa si approssima a quello degli imperatori: i regnanti sono dal papa incoronati o scomunicati, gli ordini monastici governano intere regioni ed il controllo asfissiante della chiesa sulla diffusione culturale ripiomba buona parte dell’Europa nell’analfabetismo. Un processo analogo si innesca nel medio oriente guidato dall’ascesa dell’Islam.

Ma il costrutto culturale che alimenta le religioni, se pure è in grado di operare un controllo sociale stringente, non lo è altrettanto nell’innovare e generare ricchezza diffusa. Dal quindicesimo secolo assistiamo in Europa all’emergere della classe mercantile, che grazie alle esplorazioni navali ed al commercio di spezie con l’oriente è in grado di accumulare e maneggiare enormi quantità di denaro e potere.

La fine del controllo religioso sul continente europeo è segnato da due eventi che minano profondamente il potere consolidato. Uno e l’ascesa del pensiero scientifico, che mette in discussione le fondamenta stesse del pensiero religioso, dimostrando l’inconsistenza di quanto affermato dai testi sacri. L’altro è lo scisma della chiesa protestante, che nega il primato delle gerarchie ecclesiastiche promuovendo l’individualismo ed un rapporto diretto e personale col sacro e la divinità.

La nuova borghesia mercantile dispone in questo periodo delle molle culturali più efficaci per relazionarsi con le nuove conoscenze e forme produttive che il pensiero scientifico va producendo. Da essa nascerà la borghesia industriale che, in seguito ad un’epoca di profonde rivoluzioni, finirà con l’acquisire l’egemonia planetaria.

Il controllo culturale esercitato dalla chiesa nel medioevo, per mezzo della limitazione alla diffusione di libri (conseguente all’abbandono dell’economico supporto su papiro ed alla sua sostituzione con la pergamena, rilegata in preziosi volumi dal costo inarrivabile), fu di fatto scardinato dal processo di stampa a caratteri mobili, che fece della diffusione culturale un nuovo mercato.

La cultura mercantile/industriale si trovò quindi in mano non solo il potere economico, ma anche un nuovo vettore culturale, i libri stampati, attraverso i quali diffondere i propri valori. La Rivoluzione Francese sancisce poi la fine dell’aristocrazia, divenuta ormai una cultura totalmente parassitaria ed incapace di evoluzione.

Nel caos generato da tutti questi rivolgimenti le culture militari trovano il modo di riemergere e competere anch’esse per l’egemonia. Dalle ceneri della Rivoluzione Francese si impone Napoleone, un leader militare che tenta di rispolverare una cultura imperiale ancora popolare, ma ormai tragicamente antistorica ed obsoleta.

Gli ultimi sprazzi di una possibile egemonia militare sono rappresentati dalle due guerre mondiali che incendiano la prima metà del ventesimo secolo, la prima che vede all’opera le ultime monarchie impegnate nel farsi a pezzi a vicenda, la seconda innescata dall’ascesa di figure tiranniche, che sostituiscono, nell’immaginario popolare, gli antichi monarchi, incarnando antichi sogni di grandezza imperiale ed egemonia razziale.

La cultura mercantile/industriale sfrutta dapprima lo straordinario potere di coinvolgimento delle masse generato dalle ideologie nazionaliste, ma deve poi fare i conti con gli enormi danni prodotti dalle due guerre mondiali. Il mondo viene quindi stabilizzato dai poteri economici attraverso l’ascesa e la diffusione di modelli di governance democratici, più facilmente controllabili per mezzo delle azioni di lobby.

In mezzo a questo sconquasso generalizzato perfino il più sottomesso dei costrutti culturali, quello dell’etica del lavoro delle classi operaie, cerca riscatto e riesce a guadagnare spazi e conquistare l’egemonia in ampie porzioni dell’Europa e più tardi dell’Asia. La Rivoluzione Russa, agita dal partito comunista dei lavoratori, si sbarazza delle ultime vestigia di aristocrazia parassitaria in un paese ancora largamente agricolo, proiettandolo verso un’industrializzazione forzata.

L’etica del lavoro manca purtroppo dell’aggressività propria degli altri costrutti culturali. Da un lato l’industrializzazione che si produce, in Russia e negli altri paesi comunisti, è culturalmente orientata al benessere (e al controllo ossessivo) della popolazione, più che alla generazione di ricchezza, sacrificando produttività ed efficienza. Dall’altro la classe politico/amministrativa che si insedia è arrivista, improvvisata ed incapace di gestire una troppo rapida transizione alla modernità.

Il ventesimo secolo vede fronteggiarsi, in due blocchi contrapposti, il costrutto culturale mercantile/industriale, modellato sulla competitività, l’efficienza e lo sfruttamento intensivo e spietato, ed il costrutto culturale operaio, legato ad ideali di solidarietà e tolleranza ma organizzato da una burocrazia asfissiante e priva di fantasia. Mentre il primo trarrà vantaggio e dinamismo da un’organizzazione decentrata e policentrica, il secondo finirà fagocitato da culture burocratiche paralizzanti e leadership sostenute dal ‘culto della personalità’ più che da effettive capacità organizzative, i cui limiti ne sanciranno l’inevitabile declino.

Dopo questo riassunto storico a ‘grana grossa’, inevitabilmente incompleto, parziale e perfettibile, nel prossimo post cercherò di gettar luce su alcune delle dinamiche socio-politiche del momento storico corrente, ragionando sui flussi energetici e i driver culturali che alimentano il sistema economico-industriale, consentendogli un’egemonia su scala globale mai sperimentata nei secoli passati. (continua)

Economia, domesticazione e dipendenze (età antica)

1 – abstract

(origine ed ascesa dei modelli di dipendenza delle società umane dai costrutti culturali)

L’idea che vado sviluppando descrive il mondo moderno come prodotto della modellazione operata da un ventaglio di costrutti culturali che, all’interno del processo di auto-domesticazione intrapreso dalla nostra specie, svolgono la funzione di recinti immateriali. In questa prima parte dell’analisi vedremo come tali costrutti culturali, mitologie, fedi ed ideologie sociali, tendono ad emergere spontaneamente nel corso del processo di stanzializzazione che ha dato il via allo sviluppo delle comunità umane complesse.

Il genere Homo si è differenziato da tutte le altre forme viventi per l’aver basato il proprio successo evolutivo molto più sulla fabbricazione e manipolazione di utensili che su modifiche anatomiche. Questo processo è stato mosso, sotto il profilo fisiologico, dallo sviluppo del cervello, ma ha parallelamente richiesto, sotto il profilo sociale, l’elaborazione di complesse strutture di pensiero. Costrutti culturali generalmente indicati col termine ideologie [1].

Vita e benessere, per ogni essere vivente, dipendono dal soddisfacimento di esigenze basilari legate alla sopravvivenza (provvedere al nutrimento e scampare alla predazione) ed alla riproduzione (comprendendo in ciò l’intero ciclo che porta all’individuo adulto, che nel caso del genere homo ha tempi molto lunghi). Il dipendere da nutrimento e sicurezza, esigenza peraltro comune al resto del regno animale, introduce il tema della dipendenza come fattore determinante nell’orientare scelte e decisioni.

Si ritiene che la prima, fondamentale, intuizione prodotta dai nostri lontani antenati sia stata l’idea di poter cambiare il proprio destino attraverso il miglioramento degli strumenti a disposizione. Un animale non può scegliere di avere muscoli più forti, artigli più lunghi, ali più grandi, un ominide poteva invece aspirare ad avere una lancia migliore, un’ascia a mano più tagliente, un contenitore per raccogliere più frutti, un rifugio più comodo, semplicemente immaginandoli e costruendone versioni differenti utilizzando le stesse mani.

Una maggior efficienza nell’acquisizione di cibo conduce ad una maggior disponibilità di nutrimento, minor fatica e più agi, più tempo per il riposo, la contemplazione e la riproduzione, in ultima istanza ad una prole più numerosa, capace di rendere più forte e sicura la tribù. Dall’intuizione di poter cambiare consapevolmente il proprio destino prende forma l’idea di ‘progresso’ [2]: l’aspirazione ad un futuro in cui tutto quello che in passato non ci è mai piaciuto potrà venir sostituito da una realtà diversa e più appagante.

Armati della consapevolezza di poter migliorare i propri utensili ed il proprio destino, i primi umani presero a metter mano e modificare tutto quello che li circondava. Si svilupparono i processi di domesticazione: delle specie vegetali attraverso l’agricoltura; delle specie animali attraverso l’allevamento; delle stesse comunità umane attraverso lo sviluppo dell’edilizia e la costruzione di villaggi e città.

Il termine ‘domesticazione’ deriva dalla radice latina ‘domus’, che significa casa. L’umanità primitiva supera il limite nella disponibilità di rifugi naturali provvedendo a costruirsene di propri nei luoghi più idonei alle pratiche agricole ed abitua, o costringe, gli animali di cui si serve a rimanere in prossimità di tali abitazioni. Nel diventare stanziali, le comunità umane modificano in forma permanente l’habitat circostante, dal momento che la natura non ha più modo di ripristinare la biodiversità originaria.

Nel mondo pre-umano nessuna creatura possiede una ‘casa’ definita (al più tane, scelte in base a quanto esistente o realizzate all’impronta). I vegetali disperdono le proprie sementi e le singole piante crescono in aree differenti, i grandi erbivori si spostano continuamente in cerca di nutrimento occupando porzioni di territorio diverse. Questo continuo vagare e rimescolarsi di specie e popolazioni ha prodotto, nel corso dell’evoluzione della vita sulla Terra, una enorme biodiversità.

L’idea umana di ‘progresso’ è tuttavia autoreferenziale. All’umanità non interessa, se non marginalmente, il benessere delle specie asservite ai propri appetiti. Gli uomini preistorici iniziano quindi a disfarsi delle varietà che non sono in grado di sfruttare dal punto di vista nutrizionale: disboscano e ‘bonificano’ terreni ad elevata biodiversità per ricavarne spazi dove far prosperare e riprodurre solo le specie ritenute utili a fini nutrizionali. Da un lato si liberano delle varietà per loro ‘inutili’ di vegetali ed animali, dall’altro cominciano ad adattare quelle ‘utili’ ed a modificarle attraverso la selezione riproduttiva [3].

Il processo fin qui descritto, una volta avviato, tende ad auto-alimentarsi in virtù del suo stesso successo. Le popolazioni divenute stanziali possono disporre di cibo, generato da agricoltura ed allevamento, in quantità maggiori rispetto a quelle di cacciatori-raccoglitori, quindi sostenere una popolazione di artigiani, inventori e soldati. Le popolazioni nomadi vengono col tempo convertite, o assoggettate militarmente, al nuovo stile di vita ed alla stanzialità.

La storia recente del genere umano può pertanto essere descritta come il progressivo asservimento di risorse naturali, prima condivise con l’intera biosfera, alle finalità di un’unica specie. Ovvero alla distruzione di varietà e biodiversità per rispondere alle esigenze alimentari, in rapida crescita, di una popolazione, anch’essa in rapida crescita, dell’unica forma di vita consapevolmente senziente presente sul pianeta. Il tutto guidato da un originario costrutto culturale: l’idea di rimodellare il mondo in base alle proprie necessità.

Descritto in termini di ‘dipendenze’ questo processo può essere interpretato come un passaggio dalla dipendenza da eventi incontrollabili, come la disponibilità stagionale di cibo, il successo di caccia e raccolta e la difesa dalle intemperie e dai predatori, alla dipendenza dal contesto sociale e dal sistema culturale complesso che si erano andati sviluppando per provvedere, in pianta stabile, a tali necessità. A riprova del successo di questa transizione vi è l’evidenza di una progressiva diffusione delle popolazioni umane stanziali, di un aumento del numero di individui e dei servizi eco-sistemici ad essi asserviti.

Sul lungo periodo questo ha portato ad una stratificazione in classi delle società umane, già discussa nei precedenti post sul tema della domesticazione [4]. La stratificazione sociale è una caratteristica emergente generata dall’accumularsi di saperi e competenze, processo che raggiunge il punto in cui risulta più efficiente destinare a specifici incarichi gli individui più versati, anziché lasciare che tutti si occupino un po’ di tutto.

Il vantaggio dell’organizzazione sociale è evidente fin dalla preistoria. È già noto come il dimorfismo sessuale, nella nostra specie, abbia avuto un peso nell’assegnazione dei ruoli già nelle tribù di cacciatori-raccoglitori, con i maschi più attivi nelle battute di caccia e le femmine nella raccolta di vegetali e nella cura della prole. Non è da escludere che, data una popolazione sufficientemente numerosa, alla fabbricazione di utensili fossero destinati gli individui più specificamente versati.

La transizione dalla sussistenza basata su caccia e raccolta alle pratiche agricole ed all’allevamento ha generato, come già detto, un progressivo incremento nella produzione alimentare. Di conseguenza un maggior numero di individui ha potuto lavorare a produrre manufatti: utensili, attrezzature, abitazioni ed edifici, elaborando e sviluppando specifici ambiti di competenza.

La crescita numerica e di complessità delle società umane ha richiesto lo sviluppo di nuovi ruoli e saperi relativi all’organizzazione del lavoro altrui, processo che ha portato all’emergere delle classi dirigenti. Nel percorso di differenziazione dei ruoli e di moltiplicazione delle competenze specificamente richieste da ognuno di essi, gli individui più versati nelle attività fisico/manuali sono finiti ad occupare le nicchie sociali relative ai ruoli produttivi (allevamento, agricoltura, artigianato), mentre gli individui più dotati di intelligenza sociale hanno finito col ricoprire ruoli organizzativi e dirigenziali.

Le ‘classi dirigenti’ svolgono, fin dal loro emergere, l’incarico di elaborare, diffondere e rendere operative le culture necessarie alla coesione sociale, dettando leggi, definendo le modalità relazionali interpersonali, promuovendo consuetudini, ed organizzando il contrasto ai comportamenti indesiderati. È in questa fase, caratterizzata da una diffusa soddisfazione dei bisogni materiali, che i bisogni immateriali diventano strumenti essenziali di controllo sociale.

Di base, ogni forma di domesticazione è basata sulla riduzione dei margini di libertà. Alle piante vengono assegnati appezzamenti di terreno circoscritti, e si controlla che i semi non vengano dispersi ai quattro venti. Oltre a ciò si sviluppano forme di irregimentazione idraulica per garantire l’irrigazione dei terreni, vincolando il corso dell’acqua per mezzo di canalizzazioni.

La domesticazione animale richiede modalità altrettanto complesse: recinti per le mandrie, controllo dei ‘capi ribelli’, gioghi e vincoli per lo sfruttamento della forza muscolare ai fini trasportistici e per l’aratura dei campi. Non tutte le specie animali si prestano a questo stravolgimento della propria natura selvatica, e di fatto si sono potute domesticare solo le specie capaci di tollerare la riduzione in cattività, e nonostante ciò riuscire a riprodursi.

La domesticazione umana procede per mezzo dell’elaborazione di sovrastrutture culturali capaci di svolgere funzioni analoghe ai vincoli ed ai recinti fisici che limitano la libertà degli animali domestici. Il fine ultimo di queste sovrastrutture culturali è l’organizzazione di una collettività di individui autonomi, vincolati in un sistema di interrelazioni reciproche finalizzate ad un ‘bene comune’, condiviso nei termini fondativi della cultura stessa.

Tale ‘bene comune’ può essere individuato, al livello più basilare, nella soddisfazione dei bisogni primari: cibo e sicurezza. Lo sviluppo di comunità organizzate e stanziali soddisfa entrambe queste aspettative, a prezzo di una parziale rinuncia ad altre forme di libertà. Per contro, la coesistenza forzata di gruppi numerosi di individui privi di relazioni familiari innesca facilmente conflittualità reciproche, tra singoli e tra gruppi, che minano la serenità e l’efficienza del lavoro collettivo.

Se ragioniamo lo sviluppo delle civiltà umane come un processo di strutturazione spontanea delle forme di auto-domesticazione, osserviamo come le classi dirigenti debbano trovare il modo di soddisfare sia le esigenze materiali che quelle immateriali della popolazione. Dall’esigenza di gestire i bisogni materiali emergono ruoli dirigenziali: tecnocrati e burocrati; dalla domanda di soddisfacimento di bisogni immateriali emergono artisti (svago), forze dell’ordine (sicurezza), insegnanti (istruzione) e la casta sacerdotale.

Esiste infatti una specifica preoccupazione, che distingue la nostra specie da tutte le altre: la paura della morte. Questa innesca un’esigenza di rassicurazione che non può essere soddisfatta dalla realtà fisica. Per ovviare a tale necessità sono emerse, fin dai primordi dell’umanità, narrazioni metafisiche, riferite a piani di realtà non percepibili, dove l’evento fisico della morte individuale viene descritto nei termini di una transizione ad un diverso stato di esistenza.

La rivelazione di ‘leggi divine’ (i Dieci Comandamenti, per rimanere al ben noto dettato biblico) emerge quindi come strumento per gestire le relazioni interpersonali, separare i comportamenti ‘giusti’ da quelli ‘sbagliati’ ed in ultima istanza modellare il piano etico-morale delle collettività. Nelle antiche civiltà il sovrano è molto spesso anche il capo religioso della comunità, quando non direttamente una figura semidivina.

L’organizzazione a comparti delle strutture sociali genera un nuovo problema, la compartimentazione delle rispettive culture e delle relazioni sociali. Accade infatti che si producano legami interpersonali più forti tra individui che condividano le stesse attività, semplicemente perché si spende molto tempo insieme a discutere di argomenti comuni. Ciò produce una frammentazione sociale che, al crescere della popolazione, si traduce in frammentazione fisica delle diverse comunità.

Nelle comunità umane particolarmente numerose risulta più facile socializzare ed intessere legami fra individui che si occupano di attività similari, e questo sviluppa una preferenza abitativa, che sul lungo termine induce una compartimentazione urbanistica, oltre che sociale. Tale frammentazione genera spontaneamente l’emergere di sottoculture proprie delle diverse classi, che finiscono col competere per l’assegnazione delle risorse prodotte dal complesso sociale.

Perché l’ordine sociale funzioni occorre che una unica narrazione dominante prevalga sulle singole narrazioni dei diversi gruppi sociali. Qualora ciò non avvenga, per intercorse mutazioni culturali, sociali o economiche, l’organizzazione collettiva va in crisi e può emergere come dominante una nuova narrazione culturale, un nuovo paradigma, ad opera della sottocultura in quel momento più forte. Si parla in questo caso di ‘rivoluzione’.

[questa prima parte dell’analisi ha l’unica funzione di strutturare il discorso ed organizzare l’architettura logica del ragionamento. Nel prosieguo vedremo come i diversi costrutti culturali abbiano finito con l’entrare in competizione tra loro e finire a produrre società diversificate, quindi osserveremo gli effetti di trasformazioni epocali nel modo di concepire la realtà (pensiero scientifico), l’avvento della borghesia mercantile ed industriale e i nuovi equilibri che hanno condotto allo sviluppo delle società moderne] (continua)

N.b.: sui meccanismi che guidano lo sviluppo dei costrutti culturali collettivamente condivisi che abbiamo finito col definire ‘civiltà’ è disponibile un ulteriore approfondimento.


[1] Sull’origine delle ideologie

[2] L’ Ideologia del Progresso

[3] Charles Darwin

[4] Domesticazione umana