La scomparsa della civiltà contadina

Quest’estate ho trascorso parte delle ferie in due paesini di montagna. Il primo è Pianello di Cagli, nelle Marche, paese originario di mia madre, dove ancora vivono molti dei miei parenti. Il secondo è Aggius, in Sardegna, dove ho alloggiato nella casa di un caro amico.

Entrambi i paesi appaiono esteriormente in buone condizioni. Le case sono in larga parte ristrutturate, rifinite, ordinate. Entrambi si mostrano in uno stato migliore, oggi, rispetto agli anni passati. Ma è una salute di facciata, un’apparenza, un simulacro conservato dall’affetto.

Gli edifici restaurati sono, in larga misura, ‘case per le vacanze’ e restano vuoti per la maggior parte dell’anno. I giovani, spesso ormai ex-giovani, si sono da tempo spostati nelle città, in prossimità di opportunità lavorative. I residenti fissi, lentamente, invecchiano e muoiono.

Sono le fasi conclusive di un processo di progressivo abbandono iniziato quasi un secolo fa con la comparsa delle macchine agricole nelle campagne e portato a compimento nel dopoguerra, con la definitiva transizione dalla mezzadria all’agricoltura meccanizzata.

Questo passaggio di consegne ha significato da un lato l’eliminazione di gran parte del lavoro manuale ed animale necessario alle produzioni agricole, dall’altro il progressivo abbandono delle terre ‘marginali’, ovvero quei campi collocati in luoghi impervi, in genere troppo piccoli perché ne fosse economicamente redditizia la coltivazione.

Per secoli l’agricoltura ha rappresentato il motore dell’economia, con lo sviluppo di piccole comunità obbligate alla prossimità con i luoghi di produzione. Il lavoro nei campi, dall’aratura al raccolto, veniva effettuato a mano e con l’aiuto di animali, questi ultimi utilizzati anche per la produzione di latte, uova e formaggi, ed in ultima istanza come cibo.

Delle vacanze della mia infanzia a Pianello ricordo che i nonni avevano ancora piccole stalle con animali, una grande per le due vacche che trainavano il ‘biroccio’ (un carro a ruote), poi le galline, i maiali, i conigli (nell’orto), i piccioni. Questi animali, e piccoli appezzamenti di terreno, minuscole vigne e frutteti, facevano della famiglia di mio nonno una delle più ricche del paese. Avevano di che mangiare ed un surplus di prodotti da commerciare in grado di garantire un moderato benessere.

Il boom economico degli anni ‘60 cambiò tutto. L’agricoltura meccanizzata e l’allevamento industriale produssero un declino nei prezzi delle derrate alimentari. Ciò che significò da un lato cibo in abbondanza per tutti, ma sancirono la fine delle economie rurali preesistenti, il progressivo abbandono delle campagne e l’urbanizzazione ‘forzata’ dei giovani, assorbiti dalle nuove produzioni industriali.

A tamponare in parte il problema fu la diffusione dell’automobile privata, che consentì ad una parte delle nuove generazioni di continuare a vivere nei piccoli borghi montani pur lavorando altrove, nelle piccole e medie industrie manifatturiere delle città più vicine. Molti, tuttavia, finirono inurbati nelle grandi città.

Tutto ciò che era stato tipico di una civiltà contadina, povera ma energica e vitale, finì in un lento oblio. I campi lasciati incolti, i frutteti abbandonati, le stalle vuote e fatiscenti, come pure, con la scomparsa degli anziani, la maggior parte delle case.

Quelli che resistettero all’esodo, della generazione di mia madre e mio padre, sono nel frattempo diventati anziani, e mantengono ricordi ed affetti legati ad uno stile di vita più semplice ed umano. Una generazione ormai prossima alla totale scomparsa. I loro discendenti, la mia generazione, sono finiti dispersi nel vasto mondo. Solo pochissimi restano legati ai luoghi di origine, a gestire un minimo di commercio, somministrazione e ristorazione, prevalentemente nella stagione estiva.

Quello che spaventa di più, in tutto questo processo, è la scomparsa di saperi, competenze ed abitudini. Una semplice diminuzione nella disponibilità energetica globale sarà capace di rendere antieconomico l’attuale andirivieni motorizzato, e a quel punto chi sarà nuovamente in grado di prendersi cura dei campi? Chi si occuperà degli animali? Ci potrà di ridar vita ad un’economia ed un modus vivendi ormai cancellati dalla memoria?

Tra mia madre, che da bambina portava le pecore al pascolo sulla montagna, e me, cresciuto negli anni ‘70 ed ‘80 in una grande città come Roma, c’è già un gap esperienziale incolmabile. Chi dovrà riprendere in mano la situazione, quando il paradigma dovesse nuovamente cambiare (e i segnali ci sono tutti), sarà l’attuale ‘generazione smartphone’, o la successiva, ancora più alienata e cibernetica.

Confido che in qualche modo ce la faremo, ma credo anche che ne usciremo con la sensazione di aver barattato qualcosa di vero e prezioso, se non le intere nostre vite, con l’ennesima, aggiornata e tecnologica, manciata di perline luccicanti.

E mentre i piccoli borghi montani lentamente si svuotano, declinano e muoiono, nelle città crescono periferie disumane ed agghiaccianti, sintomo di un male dal quale troppo a lungo abbiamo distolto lo sguardo.

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