“Solo una catastrofe ci salverà” è un motto, all’apparenza paradossale, che utilizzo da parecchio tempo. Rappresenta la convinzione che la specie umana sia incapace di porre un freno ai propri appetiti distruttivi, quantomeno non prima di aver prodotto danni irreversibili all’ecosistema planetario. Tale assunto mi è sempre parso fin qui indimostrabile, prodotto più di una sensazione ‘a pelle’ che di un ragionamento coerente. Solo in tempi recenti sono riuscito a cucire insieme una serie di evidenze in grado di dare sostanza all’intuizione originaria.
Il progresso umano (torneremo più avanti su questa definizione) va in direzione di una catastrofe all’apparenza inevitabile, essendo basato sullo sfruttamento di risorse non rinnovabili. La crescita culturale e tecnologica avvenuta nell’arco di una manciata di secoli ci consente di spadroneggiare sul mondo senza che le altre specie, la cui stessa esistenza è minacciata, abbiano la possibilità di impedircelo. In quest’ottica, il nostro sviluppo intellettuale appare alla stregua di una ‘super-capacità’, qualcosa che nessun’altra specie ha mai sviluppato prima nella storia del pianeta. Dobbiamo quindi per prima cosa comprendere cosa sia esattamente questo ‘potere’, quindi se possa essere assimilato ad altre espressioni, meglio note, proprie degli organismi viventi.
Darwin ci insegna che gli individui delle diverse specie sopravvivono fino a riprodursi grazie a tratti filogenetici sviluppati in seguito ad una lunga serie di adattamenti. Motore di trasformazioni e diversificazioni tra le specie sono le esigenze di sopravvivenza e di successo riproduttivo, all’interno di un processo chiamato ‘evoluzione’. Nel genere Homo il principale tratto distintivo è stato lo sviluppo del cervello, il quale ha prodotto, a cascata, innumerevoli modalità e abilità tali da potenziare le capacità di sopravvivenza, riproduzione ed espansione territoriale dell’intera specie.
La cosa da sottolineare è che lo sviluppo del cervello umano non rappresenta, di per sé, un immediato vantaggio. Il nostro cervello è un organo estremamente energivoro che assorbe una parte importante del nutrimento assimilato. Oltre a ciò, rende la prole dipendente dai genitori per un arco di tempo estremamente lungo, e rappresenta, in associazione con la postura eretta, un significativo problema riproduttivo in termini di difficoltà nel partorire.
Il cervello, a monte di tutto, è poi solo l’hardware: ciò che realmente garantisce la sopravvivenza ed il successo della nostra specie è invece il software, ciò che usualmente definiamo col termine di ‘cultura’. Prima di proseguire sarà bene contestualizzare il significato della definizione di ‘cultura’ che utilizzerò da qui in avanti. Va considerata ‘cultura’ ogni forma di conoscenza condivisa ed accettata all’interno di un gruppo umano. Ad esempio, la padronanza del fuoco, le modalità in cui può essere acceso, alimentato ed utilizzato, è da ritenersi una cultura.
Date due tribù umane, coeve ed assolutamente identiche sotto il profilo biologico e dello sviluppo cerebrale, sarà quella in possesso della ‘cultura del fuoco’ ad essere avvantaggiata nella competizione per la sopravvivenza. Possiamo quindi affermare che l’evoluzione umana, a differenza delle altre specie animali, si basa sullo sviluppo di espressioni culturali. Un processo drammaticamente più rapido e flessibile rispetto ai meccanismi biologici guidati dalla selezione naturale.
I nostri lontani antenati hanno sviluppato una serie di ‘culture’ come adattamento ai diversi ambienti da essi popolati. La cultura più antica è probabilmente quella relativa alla manipolazione di oggetti: le mani dei primati, da strumenti per arrampicarsi e raccogliere il cibo, si sono trasformate in appendici capaci di estendere le proprietà anatomiche. Impugnando una pietra affilata, o un bastone appuntito, si potevano uccidere più facilmente gli animali. Questo ha guidato lo sviluppo di una cultura della fabbricazione di utensili.
L’idea di poter manipolare ogni oggetto a portata di mano per adattarlo a diverse necessità ha consentito lo sviluppo di una cultura dell’abbigliamento, che ha permesso ai nostri antenati di popolare territori più freddi di quelli dove si è inizialmente originata la nostra specie. Un insieme di culture, la già menzionata ‘cultura del fuoco’ (come accenderlo, come alimentarlo, come utilizzarlo per scaldarsi, cuocere il cibo, scacciare i predatori…), più altre legate alla caccia, alla pesca, alla raccolta, ha consentito ai nostri antenati di diffondersi e popolare l’intero pianeta.
Su un piano meno immediatamente pratico, altri sviluppi di natura culturale hanno accompagnato il cammino umano: le credenze religiosi, i riti di sepoltura, le narrazioni sull’origine del mondo, le leggende, affondano le loro radici in tempi antichissimi, probabilmente andando di pari passo con lo sviluppo del linguaggio. Come già spiegato, la presenza di una narrazione collettiva, all’interno di un gruppo umano, ha la funzione di renderlo coeso, solidale e maggiormente in grado di misurarsi con le difficoltà da affrontare.
Cambiamenti di passo importanti avvengono con l’invenzione (e la conseguente cultura) dell’agricoltura, quindi con la domesticazione animale e l’allevamento, sviluppi che conducono al progressivo abbandono della cultura del nomadismo ed aprono la strada alla stanzialità, allo sviluppo di villaggi e città, agli interventi idraulici per l’irrigazione, all’edilizia, alla metallurgia.
Ad un occhio attento emerge, da questa descrizione, il parallelo evidente tra lo sviluppo delle culture umane e quello dei tratti fenotipici delle specie animali. Come i tratti fenotipici, le culture emergono, si diffondono, competono, si consolidano, si trasformano, si integrano o confliggono con altre culture per la propria stessa sopravvivenza.
Possiamo immaginare la nascita di una nuova cultura all’interno di un gruppo umano, ad esempio la diffusione di una nuova fede (il cristianesimo nel mondo pagano), o di un genere musicale (il jazz all’inizio del ventesimo secolo), alla stessa stregua dell’invasione di un habitat consolidato da parte di una specie aliena. La nuova specie (cultura) inizierà a conquistare territori (adepti), entrando in conflitto con le specie autoctone (le culture preesistenti), finendo col soppiantarle o col trovare un equilibrio nella differenziazione delle risorse predate (delle preferenze individuali). Sul lungo periodo la specie (cultura) originaria si adatterà al nuovo habitat dando vita ad una variante locale, più o meno diversificata rispetto al ceppo di partenza.
Questo tipo di parallelismo richiede, per essere colto al meglio, una discreta padronanza del pensiero darwiniano, cosa purtroppo non comune. Nel tentativo di ovviare a questo limite mi dilungherò in ulteriori esempi relativi sia al mondo animale che agli sviluppi culturali. Vediamo, per iniziare, cosa avviene nell’eventualità di colonizzazione, da parte di una specie predatrice, di un ambiente insulare.
Una colonia felina che, provenendo da una massa continentale, riesca ad insediarsi in un habitat insulare potrà facilmente essere obbligata a modifiche nella dieta, derivanti dalla limitata disponibilità di tipologie di prede. Modifiche che comporteranno adeguamenti nelle strategie di caccia e finiranno col veicolare, sul lungo periodo, adattamenti anatomici. Dato un arco di tempo sufficientemente lungo si svilupperà una variante locale della specie originaria, che in assenza di ulteriori incroci potrà addirittura finire col diventare una specie a se stante. Questo è quanto si verifica tipicamente in natura per le specie animali e vegetali.
Per analogia una comunità umana primitiva che decida di stanziarsi su un’isola avrà, allo stesso modo, necessità di adeguare le proprie strategie di sopravvivenza alle disponibilità locali, ma lo farà molto più in fretta agendo sul piano culturale: abitudini andranno cambiate, la diversa disponibilità di nutrienti causerà lo sviluppo di differenti modalità di raccolta e preparazione del cibo, cacciatori potranno convertirsi alla pesca, l’abbigliamento si adeguerà e modificherà di conseguenza e, nell’arco di decenni, o secoli, ciò porterà allo sviluppo di una cultura locale significativamente diversa da quella originaria.
E’ anche possibile, e ci sono esempi, che la nuova colonia viva un primo periodo di prosperità, quindi proceda ad esaurire risorse non rinnovabili e finisca col non essere più in grado di sopravvivere. Questo si verifica tipicamente quando un habitat è molto limitato e non consente la stabilizzazione di una popolazione in numeri sufficienti a garantire la necessaria diversità genetica. Una situazione di questo tipo si è probabilmente verificata nelle colonie vichinghe della Groenlandia, dove l’assenza dei necessari adattamenti culturali ha causato dapprima l’esaurimento delle risorse, quindi il declino, e da ultimo la totale scomparsa delle colonie stesse.
Charles Darwin fa notare come la capacità di adattamento di una specie dipenda in via diretta dalla numerosità della sua popolazione: una specie con popolazione ridotta tende a produrre, nel tempo, un minor numero di mutazioni, quindi ad evolvere più lentamente. Conseguenza di ciò è che le specie stanziate su territori vasti, tali da sostentare una popolazione numerosa, tendono a trasformarsi più in fretta di quelle stanziate su areali circoscritti. Un’evidenza di ciò, nel nostro pianeta, si ha in Australia, dove l’isolamento del continente ha mantenuto in vita forme arcaiche (i marsupiali) che in tempi recenti, sebbene endemiche, sono risultate scarsamente competitive nei confronti delle specie aliene invasive (placentati) introdotte dai colonizzatori occidentali.
Ma la stesso principio si può applicare alle culture degli aggregati umani, che evolvono più in fretta nelle grandi città di quanto non facciano nelle piccole comunità disperse. La capacità di innovare, la disponibilità di una porzione di popolazione numericamente sufficiente e in grado di abbracciare le innovazioni per dar vita ad una ‘moda’ (altra maniera per indicare quello che abbiamo precedentemente definito come ‘cultura’), dipendono in maniera sostanziale dall’accessibilità ad un adeguato numero di persone in grado di scambiarsi informazioni e nuove idee.
Tornando a Darwin, una delle sue osservazioni più importanti è che l’evoluzione agisce molto più rapidamente sui grandi continenti disposti parallelamente all’equatore rispetto a quelli disposti in direzione nord-sud, perché i primi sono caratterizzati da un’uniformità di fasce climatiche e consentono alle specie di spostarsi, senza trovare condizioni climaticamente avverse, su areali molto vasti. In questo modo le trasformazioni in una singola specie hanno modo di trasferirsi velocemente ed innescarne ulteriori, in risposta, in altri territori ed altre specie, in un processo che si autoalimenta. Il contrario avviene nelle isole, dove le specie rimangono isolate e tendono a fissare caratteri arcaici per lunghi archi temporali.
Da un’altra prospettiva Jared Diamond, in “Armi, Acciaio e Malattie”, trasferisce le riflessioni darwiniane all’ambito delle civiltà umane, verificando il sussistere di strette analogie. In particolare J.D. fa notare come l’evoluzione tecnologica sia stata molto più rapida in Eurasia che in Africa o nelle Americhe, entrambe masse continentali disposte perpendicolarmente all’equatore. Il motivo di ciò starebbe nella maggior facilità nel trasferire informazioni (culture) tra popoli e civiltà insediati in territori differenti, grazie alla ridotta presenza di barriere naturali ed all’uniformità delle fasce climatiche.
Tutto ciò avvalora la tesi che le correnti culturali all’interno della nostra specie si comportino in maniera analoga a quanto avviene per le diverse specie viventi che condividano un comune ecosistema biologico: sviluppano capacità di sopravvivenza, entrano in dinamica fra loro, competono, si diffondono, vengono superate da nuove correnti culturali, si estinguono.
Ogni invenzione umana importante, capace di aprire nuove prospettive ed opportunità, genera una corrente culturale che tende ad espandersi all’intera specie. La scoperta del fuoco diede ai nostri lontani antenati una risorsa talmente essenziale che la tecnologia relativa si è poi diffusa a tutte le comunità umane. La ‘cultura del fuoco’ divenne in breve tempo patrimonio dell’intera specie proprio grazie agli evidenti vantaggi che portava con sé.
Un discorso del tutto analogo si può fare per ogni innovazione che abbia avuto riflessi sulla sopravvivenza ed il benessere dei nostri antenati: l’invenzione di arco e frecce, la domesticazione degli animali per finalità alimentari e come fonti energetiche (oltreché per usi militari, come è stato per il cavallo), le tecniche agricole, la scrittura, la navigazione e le competenze ad essa collegate. Tutte queste ‘culture’ hanno prodotto ricchezza e potere per i gruppi umani che sono stati capaci di svilupparle per primi, ma sono state poi rapidamente adottate ed acquisite dall’intera umanità.
Culture nuove e ‘vincenti’ hanno ben presto avuto ragione delle precedenti: le spade d’acciaio hanno sostituito quelle in bronzo, le balestre hanno sostituito archi e frecce, i fucili hanno sostituito le balestre, i cannoni hanno sostituito le catapulte, i carri armati hanno sostituito la cavalleria, i bombardamenti aerei hanno sostituito gli assedi, le corazzate in metallo hanno sostituito i galeoni di legno (solo per restare alle tecnologie militari, tipicamente caratterizzate da una spiccata tendenza alla competitività).
Tornando nuovamente all’evoluzione culturale nelle masse continentali, su cui Jared Diamond ha costruito l’intero impianto del già citato “Armi, Acciaio e Malattie”, la colonizzazione umana delle masse continentali americane risale a circa 20.000 anni fa. All’epoca possiamo supporre che le diverse tribù umane possedessero competenze tecnologiche analoghe. Ma le popolazioni americane rimasero poi isolate dalle altre a causa della fine dell’ultima glaciazione e dal relativo sollevamento dei mari, e le condizioni del loro continente di approdo non erano favorevoli quanto quelle delle comunità stanziate in Eurasia.
Il risultato di ciò fu che, nel momento in cui gli europei riscoprirono il Nuovo Mondo, i nativi americani si trovarono in grave svantaggio. Avevano sì iniziato a praticare l’agricoltura, con qualche millennio di ritardo rispetto all’emisfero opposto, ma non praticavano la metallurgia, non avevano inventato la ruota e solo poche comunità del Centro America avevano iniziato a sviluppare un abbozzo di scrittura. Il motivo di ciò viene attribuito alle condizioni locali, sfavorevoli allo sviluppo di comunità numerose, alla dispersione dei diversi popoli (tipicamente conflittuali coi propri vicini), al ridotto scambio di idee ed informazioni.
In Eurasia l’agricoltura e l’allevamento potevano contare su varietà vegetali ed animali indisponibili nel Nuovo Mondo, una ricchezza che diede origine alla nascita delle prima città-stato e dei primi imperi, i cui conflitti spinsero un’innovazione tecnologica, non solo militare, molto più rapida di quanto poté accadere nel continente americano. Un processo che appare auto-evidente se, come suggerito, paragoniamo l’evoluzione dei ‘tratti culturali’ con l’evoluzione dei tratti somatici nelle specie animali.
Un ulteriore esempio di tale processo è rappresentato dalla storia della scrittura, se analizzata in parallelo a quella dei supporti alla scrittura stessa. Le antiche civiltà del bacino del Mediterraneo, dagli egizi ai romani, utilizzavano come supporto alla scrittura fogli ricavati dal papiro, un materiale estremamente semplice, economico e relativamente facile da produrre. Grazie a questo tipo di supporto i libri erano molto diffusi in ogni strato sociale, e veicolavano una diffusione capillare della cultura.
Nell’Europa medioevale, tuttavia, il papiro fu sostituito dalla pergamena: pelli di animali trattate e lasciate ad essiccare. Un supporto pressoché indistruttibile ma costosissimo, che ridusse grandemente sia la possibilità di accedere a testi scritti che l’alfabetizzazione di massa. La cultura della pergamena era entrata in sinergia con il verticismo della cultura religiosa dominante europea, il cristianesimo, che coltivava la finalità di conservare (e controllare) uno specifico sapere.
Ma, come diretta conseguenza del ‘sequestro’ religioso del veicolo culturale rappresentato dalla scrittura, si ebbe in Europa un rallentamento complessivo nell’evoluzione tecnica e scientifica, cosa che non avvenne, invece, nel mondo arabo, che aveva da tempo iniziato un fiorente commercio con la Cina, dove era stata inventata la carta. La cultura della carta faticò a penetrare in Europa ma, quando ciò avvenne, a cambiare nuovamente le carte in tavola provvide un’ulteriore innovazione: la stampa a caratteri mobili.
Il mondo arabo, grazie alla carta, era stato culla di un’esplosione culturale durata diversi secoli. Tuttavia la scrittura calligrafica araba non si prestava altrettanto bene degli alfabeti derivati dal latino all’impiego della stampa a caratteri mobili. Ciò ne causò una stagnazione culturale durata anch’essa diversi secoli. Analoga sorte toccò alle civiltà orientali, la cui scrittura, basata su una molteplicità di ideogrammi ed incompatibile con la praticità della stampa in serie, non poté giovarsi altrettanto prontamente dell’invenzione di Gutenberg.
La scrittura, la carta, la stampa a caratteri mobili, e più di recente la meccanizzazione, l’alfabetizzazione di massa, le tecnologie informatiche, possono essere definite come ‘vettori culturali’. Non producono cultura, ma ne facilitano la diffusione, accorciano le distanze, facilitano lo scambio di informazioni ed idee. Grazie ad esse la cultura contemporanea, grazie agli sviluppi informatici, popola l’equivalente di un super-continente dalle distanze estremamente ridotte, dove le informazioni si accumulano e trasferiscono a velocità mai viste prima, interessando una popolazione enorme. Questo ha prodotto un’accelerazione delle innovazioni e delle trasformazioni culturali mai raggiunta prima.
E veniamo alla questione ambientale, dove l’idea di applicare gli strumenti dell’evoluzionismo darwiniano alle culture correnti può darci qualche preoccupante indizio su cosa ci attende nel prossimo futuro. Come prima cosa va chiarito che, al momento, in seguito a millenni di stratificazioni successive, esistono sul pianeta innumerevoli ‘culture’, la maggior parte delle quali non ha nulla a che vedere con la sopravvivenza e solo alcune sono vagamente legate alla selezione sessuale ed alla riproduzione.
È il risultato che ci potremmo aspettare da una specie lungamente domesticata, che ha perso nel suo cammino i tratti essenziali alla sopravvivenza in natura per guadagnarne altri che rispondono al gusto perverso dei selezionatori. La varietà di culture umane è paragonabile, in natura, alla diversità genetica delle varietà canine, che a seguito di pressioni selettive innaturali da parte della nostra specie ha finito col produrre un vero e proprio ‘freak show’. Da questo variegato caos, le culture legate alle esigenze basilari di sopravvivenza emergono più nettamente delle altre.
Già da diversi secoli genere umano sta vivendo un boom di benessere dovuto allo sviluppo tecnologico. In origine fu il fuoco a consentire, per mezzo della cottura della carne e della sua conservazione mediante affumicazione, di metabolizzare più in fretta e conservare più a lungo le risorse di cibo. Poi furono l’agricoltura e l’allevamento a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari e l’aumento delle disponibilità alimentari. Quindi vennero a supporto le opere idrauliche per l’irrigazione, la domesticazione ed in seguito la meccanizzazione ad aumentare la forza lavoro, e con la chimica industriale sono arrivati fertilizzanti e pesticidi.
Questo lungo percorso ha aumentato a tal punto il benessere della nostra specie (a scapito, va detto, di quello di tutte le altre) da aver dato forma ad una propria ‘cultura’, quella del progresso, largamente condivisa dalla stragrande maggioranza del genere umano e diffusa sui cinque continenti. La cultura del progresso, alla stessa stregua di una popolazione animale in grado di metabolizzare ogni tipo di risorsa, e finanche di inventarsene dal nulla di proprie (l’estrazione e messa a regime dell’energia conservata nei combustibili fossili), ha sbaragliato, con le buone o con le cattive, ogni cultura avversaria.
Il problema, come evidenziato dal modello dell’evoluzione animale, è che una specie di eccessivo successo può essere in grado di sfruttare e deteriorare il proprio habitat a tal punto e talmente in fretta da mettere a rischio la propria stessa sopravvivenza. L’esempio classico è quello degli erbivori europei lasciati in libertà su sperdute e spopolate isole del Pacifico (vicende di cui si è già trattato in questa sede), che in assenza di predatori hanno finito col distruggere completamente la vegetazione di cui si nutrivano, in ultima istanza estinguendosi. La ‘cultura del progresso’ sta attualmente facendo la stessa cosa, ma su scala planetaria, agendo come un predatore apicale in grado di metabolizzare e consumare ogni cosa, dal suolo alla biodiversità, alle riserve energetiche fossili, producendo come sottoprodotto un numero sempre più elevato di bocche da sfamare.
Cosa può dirci la scienza dell’evoluzione sul nostro destino di ‘predatori apicali’? Nulla di buono, temo. In un habitat stazionario le specie si stabilizzano e tendono a non trasformarsi per periodi di tempo anche molto lunghi (come esplicitato dalla teoria degli equilibri punteggiati). Di norma, a limitare l’espansione di una specie intervengono due fattori: l’avvento di nuovi predatori da un lato e la scarsità di prede/nutrimento dall’altro.
Per fronteggiare la ‘cultura del progresso’ dovrebbe emergere una forma culturale diversa ed altamente ‘pervasiva’ (capace quindi di diffondersi in fretta ed essere adottata da un elevato numero di individui). Di fatto, essendo il ‘progresso’ la moda culturale che si è dimostrata più efficace nel soddisfare gli istinti basici degli esseri umani (nutrimento, riproduzione, benessere, intrattenimento), nessuna altra ‘cultura’ appare attualmente in grado di contrapporsi efficacemente ad essa.
Una crisi nella capacità di approvvigionamento alimentare, prevedibile in un orizzonte temporale non immediato, è probabile che possa stimolare la diffusione di culture maggiormente ‘conservative’, quelle che oggi ricadono sotto la generica definizione di ‘ambientalismo’ (nello specifico ‘decrescita’), a patto che il declino di disponibilità energetiche/alimentari avvenga in maniera graduale. Il rischio, da non sottovalutare, è che il crollo possa essere talmente rapido e drammatico da non lasciare il tempo, ad una eventuale alternativa culturale, di imporsi e sviluppare un nuovo equilibrio.
A questo punto possiamo tornare all’inizio del discorso, ovvero a quell’idea che “solo una catastrofe ci salverà”. L’analisi sviluppata fin qui tenderebbe a dimostrarne l’assunto: la ‘cultura del progresso’, nata per appagare il bisogno innato di nutrimento e prosperità della specie umana, ha ottenuto di sovrappopolare il pianeta ed esaurirne le risorse fossili.
La transizione (sperando che ciò avvenga) ad una diversa cultura, diffusa, aderente alla realtà dei fatti ed ai limiti della biosfera, difficilmente potrà avvenire all’interno dell’attuale paradigma socioeconomico, generato e dominato dalla ‘cultura del progresso’. La transizione avverrà, se avverrà, solo in seguito ad una crisi catastrofica cui la ‘cultura del progresso’ non sarà stata in grado di far fronte, essendone la principale responsabile. Anche perché, parafrasando Albert Einstein: “non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di ‘cultura’ che hai usato per crearlo”.