Intelligenza esplorativa

Da almeno un paio di settimane sto combattendo con un’idea relativa all’intelligenza umana. L’idea è che al di là delle differenze quantitative, che pure esistono e sono misurabili, siano presenti differenze qualitative. Non sto parlando delle diverse forme di intelligenza (logico/razionale, linguistica, psicomotoria, sociale e chi più ne ha, più ne metta…) sto parlando proprio di un differente approccio alla realtà ed alla complessità.

Il ‘fattore scatenante’ che ha rimesso in gioco tutto quello che pensavo di sapere sull’argomento è stato un articolo della psicologa Ana Maria Sepe [1] che, in buona sostanza, illustra il mio personale modo di ragionare. Il fatto spiazzante è che lo descrive, per così dire, ‘dall’esterno’, come se fosse chissà quale bizzarro modo di processare le informazioni. Partiamo dal seguente passaggio:

Prima di tutto che le persone intelligenti NON memorizzano le cose. Chi ha un QI alto è bravo a connettere tra loro idee e creare costruzioni mentali tra informazioni che magari potrebbero sembrare irrilevanti o appartenenti ad altri contesti. Quindi questi “geni” trovano con facilità schemi tra dati grezzi e li collegano tra di loro. In parole povere: riconoscono e connettono pattern.

Questo sono esattamente io (al di là dell’appellativo “genio”, nel quale non mi riconosco e che giustamente sta tra virgolette a significare un eufemismo). O, ad essere precisi, è la descrizione del mio personale modo di organizzare le informazioni che raccolgo in strutture relazionali e rapporti di causa/effetto. Mai, fin qui, mi è venuto da pensare che potessero esisterne altre.

È un modo di ragionare che presenta ovvi vantaggi. Consente di applicare schemi interpretativi generali a discipline diverse da quelle per le quali sono stati pensati, consente una comprensione più immediata delle potenziali conseguenze derivanti da una determinata azione. Consente, in ultima istanza, quel ‘pensare fuori dagli schemi’ di cui tanto si parla, perché un modo di elaborare le informazioni che padroneggia gli schemi sa anche riconoscerli e manipolarli con facilità.

Il modo di pensare, di organizzare l’esistente, rappresenta l’essenza di un individuo. Ma, aggiungerei, ogni individuo tende a ritenere se stesso simile agli altri. Questa attitudine, derivante evidentemente da dinamiche evolutive, prende il nome di ‘bias di proiezione’, rientrando nella categoria dei bias cognitivi [2]:

Il bias di proiezione è una tendenza cognitiva che porta le persone a pensare che gli altri la pensino come noi, o che abbiano le nostre stesse caratteristiche. Si tratta di una forma di auto-percezione, in cui le persone proiettano le proprie preoccupazioni, aspettative e opinioni sugli altri. In altre parole, questo bias può spingere le persone a vedere negli altri le caratteristiche che vedono in se stesse o che temono di possedere. Ad esempio, un individuo potrebbe essere incline a sospettare che gli altri siano bugiardi (o generosi) solo perché è consapevole del fatto che mente spesso (o che lui stesso è una persona generosa). Questo tipo di tendenza alla proiezione può influire su come ciascuno percepisce la realtà e interagisce con gli altri.

L’articolo della d.ssa Sepe, in ultima istanza, mi suggerisce un’eventualità mai presa seriamente in considerazione, quella di essere una bizzarra eccezione. Ora, a nessuno piace essere un’eccezione, fosse anche positiva. Gli individui eccezionali ingenerano aspettative, sono loro richieste prestazioni eccezionali. Preferiamo, tutti, sentirci ‘uguali agli altri’, questo ci suggerisce il bias di proiezione.

Intere ideologie e fedi religiose sono state costruite per soddisfare questa aspettativa. Ma è realmente così? Se guardiamo alle dinamiche evolutive dei gruppi umani realizziamo che questa condizione non soddisfa un criterio di massima efficienza per la collettività (sto saltando di palo in frasca, è evidente e ne sono consapevole, ma questo, come già detto, è il mio modo di ragionare). L’intelligenza umana è il prodotto di processi evolutivi, e se vogliamo comprendere come sia distribuita dobbiamo usare questa specifica chiave interpretativa.

Come già spiegato nel post precedente [3], gli studi evolutivi effettuati sulle specie sociali evidenziano una tendenza a disperdere le caratteristiche individuali su uno spettro più ampio rispetto a quanto si osserva nelle specie prive di comportamenti sociali. Questo significa che all’interno delle specie che vivono in gruppi, branchi, stormi, colonie, le diversità tra singoli individui sono maggiori rispetto alle specie i cui componenti praticano esistenze solitarie.

Il tasso di diversità aumenta ancora nelle specie, come la nostra, capaci di comportamenti altruistici, dove cioè i diversi componenti del gruppo possono prendersi cura gli uni degli altri. Questo comportamento può emergere grazie al vantaggio conseguente alla possibilità, per un individuo ferito, di guarire, in modo che il gruppo non abbia a perdere uno dei suoi elementi di forza.

È facile, a questo punto, immaginare come il comportamento altruistico, stante una disponibilità sufficiente di risorse, possa essere esteso a membri anziani e/o ad individui portatori di disabilità fisiche o psichiche. Comportamenti di questo tipo sembrano emergere fin dalla preistoria dell’umanità, e si riflettono nella gran parte delle fedi ed ideologie che attraversano la storia dell’uomo.

Il processo di diversificazione consente al singolo gruppo, e di conseguenza all’intera specie, di sviluppare caratteristiche peculiari ed eccezionali, non strettamente legate alle esigenze di sopravvivenza ma fondamentali per la resilienza del gruppo stesso. Data una sufficiente disponibilità extra di risorse, alcuni individui potranno specializzarsi in attività non strettamente legate alla caccia, alla raccolta ed alla fabbricazione di utensili, esplorando la cura delle malattie, o forme di sollievo psichico come le fedi religiose, e praticare forme di pensiero speculativo che vadano oltre le esigenze immediate.

È in questo contesto sociale che individui portatori di intelligenze atipiche possono prosperare e dar vita a forme artistiche, materiali o immateriali, a filosofie, a narrazioni del mondo, a speculazioni, e risultare motivanti e trainanti per l’intera collettività. Le stesse dinamiche evolutive indicano che queste intelligenze atipiche tendono a rimanere eccezioni alla norma, al pari del mancinismo, della propensione al rischio e di altre caratteristiche relativamente rare, perché la funzionalità del gruppo dipende dalla loro essere poco frequenti.

Torno per l’ennesima volta all’esempio di D. Goleman sullo stormo di uccelli che trae vantaggio dal conservare il tratto genetico della propensione al rischio, perché il fatto che alcuni individui si allontanino dalla massa consente di individuare più facilmente i predatori [4]. Se da un lato questo comportamento è funzionale quando si presenta occasionalmente, dall’altro sarebbe catastrofico se fosse proprio di tutti gli individui.

Allo stesso modo un gruppo umano è avvantaggiato dalla propensione di alcuni individui ad attività rischiose, ma sarebbe sfavorito se tutti i suoi componenti fossero propensi a correre più rischi del necessario. Questo mi porta a ritenere che anche per l’intelligenza valga un discorso analogo: il gruppo è funzionale quando le intelligenze peculiari sono una eccezione, e non la norma. Un gruppo sociale composto unicamente da artisti, musicisti, filosofi, matematici e pensatori inquieti se la caverebbe molto male nel far fonte ad una quotidianità fatta di occupazioni spesso ripetitive e poco intellettualmente stimolanti.

Quindi abbiamo ribadito un primo punto: la presenza di intelligenze diversificate è funzionale all’efficacia del gruppo. Come si arriva, da qui, a definire l’esistenza di differenze di natura qualitativa? Da quello che sono riuscito a ragionare, una differenza di tipo quantitativo si traduce da sé in una differenza di tipo qualitativo. Il semplice poter elaborare più elementi contemporaneamente richiede l’utilizzo di schemi interpretativi, pena il ritrovarsi in un caos ingestibile.

A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro per sviluppare il concetto di intelligenza e darne una definizione meno generica. L’intelligenza è la capacità di far fronte a situazioni complesse. Il grado di complessità dell’operazione da svolgere determina il livello di intelligenza richiesta.

Partiamo da un livello ‘zero’ (arbitrario) con gli organismi filtranti. Molte delle forme di vita sulla Terra sono di questo tipo: spugne, molluschi, meduse, coralli, ecc… L’organismo filtrante vive in un habitat liquido ed estrae i nutrienti dal liquido stesso. Nessuna intelligenza è richiesta per questa modalità di sussistenza. Il risultato è che questi organismi non possiedono una rete neurale.

Non è ancora ben chiaro come le reti neurali si siano evolute, tuttavia osserviamo che la capacità di operare decisioni, unita alla mobilità, renda la predazione più efficiente. Data questa possibilità, milioni di anni di evoluzione e milioni di miliardi di individui consumati nel processo, arriviamo allo stadio successivo, che osserviamo ben conservato negli insetti.

Gli insetti possiedono un addensamento di cellule neurali, il cervello, dal quale si diparte una rete di comunicazione degli impulsi generati a raggiungere il resto del corpo. Il cervello acquisisce informazioni sensoriali dal mondo esterno e le traduce in azioni che impartisce ai diversi organi per mezzo della rete neurale. Le dimensioni degli insetti limitano la dimensione del cervello ai minimi termini.

Questo li rende in grado di esprimere un ventaglio di comportamenti limitato ed estremamente ripetitivo, come se il loro spettro di azioni e reazioni fosse interamente programmato già in partenza durante lo sviluppo cellulare, copiato e incollato direttamente dal DNA. Ovviamente questa modalità risulta efficace per svolgere funzioni ripetitive, ed il suo successo lo misuriamo dall’adattamento degli insetti ad ogni forma di habitat e dal loro coesistere come parassiti degli organismi più grandi e complessi.

Dimensioni corporee maggiori consentono di sostenere cervelli più grandi e l’avvento della ‘plasticità’, ovvero della capacità di apprendere comportamenti non codificati. Questa abilità porta con sé una serie di vantaggi, non ultima la possibilità di trasmettere alla discendenza saperi specifici e locali, oltre ad una maggior adattabilità rispetto a situazioni inattese.

Una specie di erbivori in costante migrazione può trovarsi di fronte a forme di vegetazione sconosciute e potenzialmente letali. Solo l’esperienza, e l’eventuale sacrificio di un individuo particolarmente debilitato, possono informare gli altri della effettiva sicurezza di consumare la nuova risorsa, e generare una specifica cultura che viene poi conservata all’interno del gruppo.

Un comportamento di questo tipo si osserva in alcuni topi (rattus norvegicus), che sono un po’ la ‘forma base’ di tutti i mammiferi sopravvissuti all’estinzione dei dinosauri. È stato osservato che in presenza di un’esca avvelenata il gruppo resta ad aspettare finché uno dei membri più deboli (un anziano, probabilmente affamato) non va a morderla. Quando il topo anziano muore avvelenato, gli altri membri del gruppo ci urinano sopra per marcare olfattivamente la pericolosità di quel tipo di esca, col risultato che da lì in poi tutti gli altri topi della comunità eviteranno di nutrirsene. Questa rappresenta una modalità molto basilare di apprendimento e generazione di una nuova cultura.

Grazie alla plasticità viene a determinarsi una dinamica predatore/preda dove comportamenti troppo prevedibili possono esporre gli individui al rischio di non sopravvivere, mentre la capacità di reagire in maniere inattese diventa un vantaggio immediato nella competizione per la sopravvivenza. Le culture acquisite dei predatori e delle prede si modellano reciprocamente e si trasmettono alle rispettive discendenze.

La nostra specie opera un salto ulteriore liberando gli arti superiori, che possono così essere impiegati per modellare utensili ed utilizzarli, inventando l’evoluzione tecnologica e le forme avanzate di linguaggio, necessarie a trasmettere interi bagagli di competenze da una generazione alle successive, e sviluppando forme di cultura precedentemente inimmaginabili.

Possiamo distinguere tuttavia tra una attitudine di tipo ‘applicativo’ ed una di tipo ‘esplorativo’. La prima è equivalente alla massa dello stormo di uccelli, la seconda ai singoli elementi dotati di maggior propensione al rischio. La massa si limita ad apprendere le conoscenze consolidate, mentre un ristretto numero di individui risulta in grado di forzarne i limiti, ovviamente rischiando in proprio.

In sintesi, mentre per la maggior parte degli individui è sufficiente apprendere ed applicare un bagaglio di competenze consolidato, senza metterlo in discussione, il comportamento ‘estremista’ relativo all’intelligenza consiste nel mettere in discussione il sapere consolidato per estenderlo oltre i confini precedentemente accettati, rischiando evidentemente di fallire nel tentativo.

Questo dilemma è rappresentato in molte delle narrazioni che ci sono giunte dall’antichità, che peraltro continuano a modellare la nostra cultura e le sue espressioni più recenti. Il racconto mitologico di Icaro che vola, con le sue ali, troppo in alto, fino a farle sciogliere dal calore del sole e a morire, rappresenta in forma simbolica l’aspirazione dell’umanità a nuove forme di conoscenza, ed i rischi che ne conseguono per chi provi ad esplorarle.

La conclusione di questo ragionamento rafforza la tesi che le società umane si strutturino ed organizzino per la massima efficienza, e che questo produca una dispersione delle forme di intelligenza e delle attitudini individuali. In più aggiunge una considerazione ulteriore, ovvero che per la maggior parte delle persone sia difficile ragionare per schemi e desumere un quadro coerente della realtà semplicemente dalle evidenze. Di conseguenza il loro approccio alla realtà dipenderà da un sapere acquisito, senza peraltro poter disporre degli strumenti indispensabili a rimetterlo in discussione.

Nel prosieguo conto di sviluppare una riflessione sul Principio di Autorità [5], quindi di esplorare le conseguenze delle presenti conclusioni sulle forme assunte dalle organizzazioni umane per comprendere meglio la loro influenza nei processi di auto-domesticazione [6].


1 – Da cosa si capisce se una persona è molto intelligente (PsicoAdvisor)

2 – Bias Cognitivo (Chiara Venturi)

3 – Evoluzione dell’intelligenza umana

4 – Darwin, Goleman e l’intelligenza diffusa

5 – Principio di Autorità

6 – Domesticazione umana

8 – Esaurimento delle risorse

(si conclude la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

I Processi di Inganno e le Ideologie prendono il controllo della Società spingendo alla massimizzazione della produzione di Ricchezza attraverso l’accelerazione del saccheggio ecosistemico
Essendo i Processi Ideologici fondamentalmente irrazionali, non sono in grado di tener conto della Realtà Fattuale, producendo l’esaurimento delle risorse disponibili nel più breve tempo possibile

In quest’ultima parte proverò a dedurre le estreme conseguenze dei meccanismi sistemici fin qui descritti. Abbiamo già visto come gli esseri umani siano spinti ad agire da ciò che percepiscono in termini di ‘bisogni’ [1], come questi bisogni si prestino ad essere manipolati da gruppi organizzati [2], e come la nostra umana propensione all’auto-inganno consenta a queste forme di manipolazione di agire efficacemente nell’orientare le nostre azioni [3].

Abbiamo anche visto come i Processi di Inganno più ‘efficaci’ tendano spontaneamente ad autoreplicarsi, reinvestendo una parte del benessere generato in forme di comunicazione di massa finalizzate ad alimentare le convinzioni collettive (Bias culturali) per essi vantaggiose [4]. Questo meccanismo genera una riluttanza dei processi sociali che tende a fissare le traiettorie delle civiltà, ostacolando prese di coscienza collettive e cambiamenti di rotta.

Questo significa, in termini spiccioli, che un incremento della disponibilità di risorse, indotto da nuove modalità di sfruttamento, finirà inevitabilmente a produrre una cultura socialmente condivisa votata all’aumento dei consumi (come è l’attuale) e che la collettività tenuta unita da questa convinzione alimenterà tale processo fino all’esaurimento delle risorse disponibili.

Ciò è determinato dal fatto che i soggetti responsabili dell’incremento dei consumi ricavano da questo processo il potere economico necessario ad alimentare narrazioni collettive favorevoli al processo stesso. Il progressivo esaurimento comprenderà anche le risorse potenzialmente rinnovabili, come quelle derivanti dai processi biologici, che in seguito all’aumento della popolazione verranno sottoposte ad uno stress eccessivo, finendo col perdere la capacità di auto-rigenerarsi.

Un esempio su tutti è quanto avvenuto con la colonizzazione delle zone temperate da parte dei nostri antenati, originariamente evolutisi nelle zone tropicali. Condizione necessaria perché Homo Sapiens migrasse dall’Africa a colonizzare l’Eurasia, peraltro in coincidenza di una serie di ere glaciali, è stata la padronanza del fuoco, generato dalla combustione della legna.

La specie umana è avanzata a colonizzare le zone climaticamente ostili scaldandosi grazie all’energia contenuta nel legno degli alberi. Col passare del tempo, la popolazione umana è progressivamente aumentata, e con essa il consumo di legname. Le pratiche agricole hanno quindi portato alla scomparsa delle foreste nelle pianure, e l’evoluzione tecnologica ha generato utensili sempre più efficaci nell’abbattimento di alberi e foreste, che al momento sopravvivono, solo in aree impervie e scarsamente interessanti ai fini produttivi.

Restando all’Italia, già in epoca romano-imperiale la pratica diffusa dei bagni termali aveva portato ad una depauperazione grave delle foreste appenniniche, che solo il crollo della popolazione (e del ‘benessere’), avvenuto nel corso del Medioevo, ha consentito una ripresa della vegetazione. La ripresa della crescita della popolazione, conseguente al Rinascimento e proseguita nelle epoche successive, ha poi nuovamente fatto tabula rasa di gran parte della vegetazione ricresciuta. Solo la recente transizione a risorse energetiche fossili (quindi non rinnovabili) ha consentito nell’ultimo secolo di ridurre l’abbattimento di alberi e dare di nuovo respiro ai boschi appenninici.

Processi analoghi di esaurimento delle risorse si sono osservati in numerose civiltà, preistoriche e recenti. Dalla già citata Isola di Pasqua alle popolazioni sudamericane responsabili dei disegni della Piana di Cuzco. Più recentemente l’uso dell’olio di balena, impiegato come fonte di illuminazione notturna, ha portato sulla soglia dell’estinzione numerose specie di cetacei. L’agricoltura meccanizzata, sospinta da una crescita della popolazione mondiale e da una cultura globale votata all’aumento dei consumi e dello spreco, ha causato la distruzione di pezzi importanti dell’ecosistema globale, dalle foreste primarie dell’Indonesia (Borneo) e dell’Amazzonia alle numerose varietà di macrofauna che da tali habitat dipendono. Un patrimonio di biodiversità che, una volta scomparso, non avrà modo di rigenerarsi su una scala temporale compatibile con l’esistenza umana.

Jared Diamond, nel saggio “Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere” [5], si domandava: “cosa avrà pensato l’uomo che ha tagliato l’ultima palma sull’isola di Pasqua? Si rendeva conto che quello era l’ultimo esemplare e che, una volta abbattuto, di palme sull’isola non ne sarebbero mai più esistite?”.

Di fatto, l’analisi condotta fin qui tenderebbe a dimostrare che l’opinione del singolo abbattitore fosse irrilevante, perché quello che ha causato la distruzione delle palme giganti non è stata la volontà di un singolo, bensì la convinzione collettiva che fosse giusto abbatterle.

Poteva andare diversamente? Forse, ma non certo appellandosi alla ragionevolezza, dal momento che, come spiegato in partenza, le Culture Motivazionali, le Ideologie, possono essere unicamente irrazionali. Una cultura irrazionale di indirizzo opposto è sicuramente emersa, e sarebbe stata in grado di fermare l’abbattimento delle foreste, se la cultura consumatrice non fosse stata già sufficientemente forte, capillare e pervasiva.

Possiamo vedere in opera dinamiche analoghe all’interno del processo di colonizzazione umana del continente americano, avvenuta circa 20.000 anni fa. All’epoca una conseguenza della glaciazione in corso fu l’abbassamento del livello del mare, che creò un corridoio tra l’Eurasia e il Nordamerica. I primi colonizzatori incontrarono una enorme abbondanza di forme animali (macrofauna) che potevano cacciare con facilità.

Questa abbondanza condusse ad un incremento della popolazione umana, con richieste di maggiori quantità di cibo che condussero, in ultima istanza, all’estinzione di numerose specie. Come riportato da Wikipedia [6]

Al termine del Pleistocene. … (circa 12.700 anni fa), 90 generi di mammiferi nordamericani di taglia superiore ai 44 kg scomparvero…

Venendo a tempi più recenti, a fermare l’estinzione antropica delle balene non è stata la consapevolezza collettiva del pericolo che ciò accadesse, bensì l’ascesa di un diverso prodotto in grado di sostituire l’olio di balena per l’illuminazione notturna, il cherosene [7]. Le balene si sono salvate solo perché estinguerle non è più apparso economicamente redditizio.

In conclusione, i Processi di Inganno:

  • emergono spontaneamente in seno alle società umane
  • muovono da assunti irrazionali
  • alimentano una soddisfazione momentanea di bisogni collettivi, reali ed immaginari
  • attingono a quanto disponibile nell’ambiente circostante
  • si concludono in seguito all’esaurimento di tali disponibilità.

Qualunque appello alla razionalità collettiva, qualunque speranza di ravvedimento, non possono che cadere nel vuoto. Le dinamiche relazionali umane danno luogo a processi marcatamente irrazionali, capaci di metabolizzare e sfruttare le funzioni cognitive superiori, ovvero la capacità di analisi logica e razionale, alterando e distorcendo la percezione collettiva delle conseguenze ultime dei processi in atto in modo da eliminare ogni possibile freno inibitorio.


[1] Razionalità vs Volontà

[2] Ideologie e Bisogni

[3] Evoluzione dei Processi di Inganno

[4] Comunicazione e Controllo Sociale

[5] Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere”

[6] Megafauna del Pleistocene

[7] La caccia alle balene

7 – Comunicazione e controllo sociale

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

Le classi sociali responsabili della gestione dei Sistemi Ideologici drenano la maggior quantità possibile di Ricchezza collettiva a proprio vantaggio, utilizzando i Processi di Inganno a fini di Controllo Sociale

Processi di Inganno [1] funzionali, una volta avviatisi, iniziano a restituire l’auspicato ‘benessere’ agli individui coinvolti. Se esistono margini perché il processo possa essere esteso ad una collettività più ampia, senza cioè che l’originario gruppo coinvolto abbia a rimetterci, la ricchezza acquisita viene esibita pubblicamente, gratificando i nuovi ricchi ed ottenendo di innescare un processo di emulazione.

L’esibizione di ricchezza diviene pertanto la prima forma di comunicazione sociale, intesa ad attestare l’efficienza del Processo di Inganno ed a gratificare i pionieri di tale processo, consentendo loro un’ascesa sociale.

Immaginiamo, a titolo di esempio, una tribù dove si sviluppi, magari per sentito dire, l’idea di coltivare una varietà alimentare. L’individuo, o gli individui coinvolti in questa nuova attività dovranno sacrificare il proprio tempo e le proprie energie per tutta una serie di lavori non immediatamente remunerativi. Mentre gli altri membri della tribù spenderanno il proprio tempo libero in attività ricreative, i novelli agricoltori dovranno innanzitutto rinunciare a parte del proprio cibo (poniamo cereali) per la semina, poi dovranno lavorare ad eliminare le erbacce, provvedere all’innaffiamento se il terreno si secca troppo, contrastare insetti ed animali vari che possano attentare alla salute della coltivazione e, solo dopo diversi mesi di questa attività, ottenere il meritato raccolto ed esibire agli altri membri il risultato di tanto impegno.

A quel punto, stante la disponibilità di terreni, anche il resto della tribù potrà decidere di avviare pratiche agricole. L’esito finale sarà un incremento del ‘benessere’ collettivo ed, in ultima istanza, la crescita della popolazione, dal momento che l’aumento della produzione alimentare consentirà di sfamare un maggior numero di individui. Questo darà vita, nel tempo, ad una Ideologia dell’Agricoltura basata sull’aspettativa che l’aumento della produzione agricola generi benessere. La componente irrazionale di questa ideologia sta nel non percepire l’esistenza di limiti alla possibilità di applicare questo principio, in sé veritiero. Limiti che possono discendere dalla dimensione della vallata, dalla disponibilità di acqua e dall’efficienza delle tecniche agricole. Limiti il cui portato, sul lunghissimo termine, consisterà nell’esaurimento della fertilità dei terreni.

Il punto che mi interessa approfondire riguarda le modalità per mezzo delle quali le Ideologie arrivano a permeare il tessuto culturale di una collettività. La prima forma di Comunicazione Sociale è proprio l’ostentazione di potere e ricchezza. Questo genera un processo di emulazione: i depositari del ‘sapere’ lo diffondono presso gli altri membri della comunità, che grazie a quel ‘sapere’ acquisisce benessere e comincia a crescere numericamente.

Ben presto le abilità dei diversi membri si differenziano: i più intelligenti e capaci di maneggiare il ‘sapere’ vengono incaricati della sua conservazione, mentre gli altri accettano di seguire le indicazioni, nella convinzione che gli convenga approfittare delle capacità intellettuali altrui, di cui sono carenti, in cambio del lavoro manuale. Possiamo individuare in questo semplice meccanismo l’inizio del processo di auto-domesticazione umana [2].

È interessante notare (questione cui riserverò un approfondimento) come proprio la ricchezza ed il benessere di una collettività consentano ai membri attivi di riservare parte del surplus alla cura degli individui ‘meno performanti’, fisicamente ed intellettualmente. Questo porta una collettività di successo a poter disperdere le abilità dei propri membri su uno spettro di diversità maggiore, potendo supportare abilità ‘estreme’ i cui inevitabili portati negativi non passerebbero il vaglio della selezione naturale. Sappiamo, dalle neuroscienze, che espressioni di intelligenza estrema in ambiti specifici (p.e. la matematica) sono spesso correlate a disfunzioni in altre funzioni cerebrali (p.e. disturbi dello spettro autistico). Queste forme di intelligenza estrema risultano penalizzate nel manifestarsi in ambienti ristretti, causando gravi difficoltà agli individui portatori dello specifico carattere, mentre in contesti sociali allargati la collettività può decidere di tollerare il ‘diverso’ e sopperire alle sue inadeguatezze, impedendo alla specifica caratteristica di venir rimossa dal genoma collettivo a causa dei processi di selezione naturale.

Nel momento in cui il ‘sapere’ diviene fonte di ricchezza e benessere, i detentori tenderanno a non condividerlo più spontaneamente, preferendo tenerlo sotto controllo, e con esso controllare la maggior frazione possibile della ricchezza generata. Tuttavia è necessario che la convinzione diffusa dell’efficacia del ‘sapere’ non venga persa. Per questo si attivano forme di Comunicazione Sociale tese a propagandare gli effetti benefici del ‘sapere’ (pur se elitario), e narrazioni sulla sua capacità di generare ricchezza e benessere per tutti (anche se non ugualmente distribuite).

I tenutari del ‘sapere’ preferiranno investire in questo tipo di comunicazione sociale, anziché nella diffusione generalizzata del sapere stesso, onde preservare una posizione elitaria all’interno dell’organizzazione sociale che si va strutturando. I detentori del ‘sapere ideologico’ assumono pertanto la connotazione di ‘casta sacerdotale’, tendendo a circoscrivere l’ambito di diffusione dello specifico sapere a cerchie ristrette.

Qui l’esempio più evidente è proprio quello delle istituzioni religiose. Confidare in entità ultraterrene offre il vantaggio di un grande sollievo psichico, ma poggia su basi teoriche indimostrabili. Per questo le collettività si affidano ad individui particolarmente abili nel convincere sé stessi e gli altri della fondatezza di tali convinzioni, decidendo di compensarli per l’operato fornito. Ben presto il dialogo con l’ultraterreno diviene una vera e propria professione, tale da richiedere una specifica organizzazione e formazione degli addetti anche solo per impedire che costrutti indimostrabili analoghi possano alterare l’equilibrio sociale faticosamente costruito.

Immaginiamo una piccola collettività isolata, come può esserlo un villaggio di allevatori/agricoltori del neolitico. La comunità ha le sue convinzioni, le sue divinità e le sue modalità di organizzazione dello sforzo comune. Immaginiamo arrivare da fuori un pellegrino, portatore di una diversa visione del sovrannaturale, che inizia la propria opera di proselitismo diffondendo idee alternative sull’aldilà e sui comportamenti da mantenere in vita per avere accesso al benessere dopo la morte. Chiaramente questo comportamento entra in conflitto non solo con le credenze esistenti, ma con la stessa ‘casta sacerdotale’ in essere, facilmente composta da un singolo individuo. Questa fragilità rende evidente la necessità di avere convinzioni irrazionali condivise su una dimensione più ampia di quella rappresentata da una singola comunità.

Per stabilizzare la posizione di vantaggio dei detentori di sapere irrazionale è necessario che il sapere stesso sia sufficientemente vasto ed articolato da non poter essere acquisito in tempi brevi e con un minimo sforzo. Non è sufficiente, per dire, che la collettività creda ad una divinità cui ci si possa rivolgere direttamente ed in termini semplici e diretti. È necessario invece che i riti siano complessi, che la volontà della divinità sia volubile e difficilmente interpretabile, che siano richiesti sacrifici personali per guadagnarne la benevolenza, che tutto sia, in ultima istanza, complicato ed arbitrario.

Come già detto, ogni sapere razionale ha necessità di una motivazione irrazionale per poter essere applicato, la motivazione irrazionale sarà gestita da una o più persone portatrici del sapere irrazionale che opereranno attivamente per fare in modo che la collettività non perda tale convinzione.

Per tornare all’esempio iniziale, l’agricoltura per prima necessita di un supporto irrazionale: la convinzione che quanto ha funzionato in passato funzionerà anche in un futuro al momento inconoscibile. Da questo discendono i riti pagani legati alla fertilità dei campi, le convinzioni sull’influsso delle fasi lunari, le pratiche legate al potere magico di specifiche parti di animali (le corna, per dire) o di particolari ore del giorno e della notte. Gli individui detentori di questi saperi, se abili nel convincere gli altri della loro validità, ne ottengono in cambio, quando non una retribuzione, quantomeno uno status sociale collettivamente riconosciuto, dal quale ricavare vantaggi di varia natura.

Nel passaggio dalla dimensione del villaggio a quella delle città, dei regni e degli imperi, la strutturazione delle culture irrazionali si sviluppa di conseguenza, mentre parallelamente si articolano le relative modalità comunicative. Come i singoli individui comunicano esibendo la ricchezza conseguita grazie alle proprie convinzioni, parimenti agiscono le culture.

Le culture religiose innalzano templi e vestono i propri sacerdoti di tessuti preziosi, le culture militari innalzano edifici, colonne ed archi di trionfo per mostrare la propria potenza, le culture mercantili erigono mercati coperti e centri commerciali, con la doppia funzione di attirare gli acquirenti e mostrare la propria opulenza. Ogni esibizione pubblica (mostre, saloni, raduni, sfilate) ha la specifica funzione di convincere la parte di popolazione più suggestionabile dei vantaggi generati da una specifica cultura motivazionale.

Necessariamente la comunicazione sociale risulta pervasa da contenuti irrazionali, dal momento che sono gli unici impossibili da validare o confutare, e quindi perennemente oggetto di discussione. Gli animatori di Processi di Inganno e Ideologie sono perciò obbligati a ribadire con continuità i contenuti irrazionali da essi veicolati, investendo energie e risorse economiche in forme di Comunicazione finalizzate al convincimento collettivo.

Per meglio comprendere questo passaggio possiamo osservare la transizione che interessa l’Europa nel passaggio dall’Impero Romano all’epoca medioevale. Al suo apice, tra il primo e il secondo secolo, l’Impero Romano disponeva di grandi ricchezze derivanti dalle continue guerre di espansione, col relativo saccheggio di popoli e civiltà. Nei secoli successivi il meccanismo di arricchimento mediante predazione va in crisi: l’impero è ormai vasto e fittamente popolato da cittadini romani che non possono più essere ridotti in schiavitù, le conquiste militari sono sempre più lontane e sempre meno redditizie, di conseguenza le risorse per alimentare la Cultura Militare imperiale si riducono, gli investimenti in infrastrutture declinano, e le popolazioni perdono fiducia nella capacità dell’organizzazione imperiale di rispondere alle proprie necessità.

In questo contesto di scarsità, a soppiantare la cultura Militare in declino è una Cultura Religiosa, il Cristianesimo, meglio attrezzata a gestire contesti sociali di piccole dimensioni e poveri di risorse. Laddove l’Impero veicolava, con grande fasto e dispendio di risorse, ideali di competizione ed arricchimento, il Cristianesimo predicava la solidarietà fra gli individui ed un premio nell’aldilà. In termini di Comunicazione la pesante e dispendiosa macchina imperiale viene sostituita da una schiera di frati e sacerdoti che diventano parte integrante delle comunità, vi partecipano attivamente, vengono da esse sostentati e periodicamente (ogni domenica, con la Messa) ribadiscono e rinforzano il messaggio ideologico. La Chiesa ottiene in questo modo un’egemonia culturale sull’intero continente che durerà quasi un intero millennio. Analogo e speculare processo avviene con l’avvento dell’Islam nel mondo arabo.

Il controllo della comunicazione sociale alimenta un processo di identificazione collettiva nell’Ideologia dominante, ottiene di consolidarla ed assicura il perdurare delle posizioni di rendita, circoscrivendo il controllo decisionale ad una cerchia relativamente ristretta di individui (la cui estensione e potere dipendono dalla diffusione della Ideologia stessa e dall’eterogeneità delle popolazioni che ad essa fanno riferimento).

Il controllo della comunicazione avviene per mezzo di due modalità, una attiva ed una passiva: da un lato veicolando, con tutti i canali disponibili, informazioni e contenuti funzionali al consolidamento ed allo sviluppo dell’Ideologia dominante, dall’altro impedendo ad Ideologie concorrenti, o a voci critiche in seno al consesso sociale, di diffondersi e minare la stabilità raggiunta.

I meccanismi per impedire alle idee concorrenti di scardinare le convinzioni diffuse sono di diversa natura. Una di queste sono le distrazioni e l’intrattenimento. Degli antichi romani è noto il motto “panem et circenses” proprio a significare che quando il popolo è sazio e distratto non c’è da preoccuparsi che si ribelli. “Circenses” sta per circo, che per i romani indicava gli spettacoli di combattimenti tra gladiatori, ma in seguito fu esteso a spettacoli di giocolieria ed alle rappresentazioni teatrali in generale.

Nel Medioevo la Chiesa attuò un controllo stringente sulla cultura, che si tradusse in analfabetismo diffuso tra le popolazioni. Questa transizione è marcata dal passaggio ad un diverso supporto per i testi scritti, la pergamena. Mentre i latini usavano il papiro, un supporto delicato ma economico, che consentiva una alfabetizzazione di massa, la pergamena, un supporto più duraturo ma estremamente costoso, determinò l’impossibilità economica per la gran parte delle popolazioni ad accedere a testi scritti, che diventarono estremamente rari. La conseguenza di ciò fu un analfabetismo diffuso.

Questo passaggio segnò un drammatico declino culturale degli stati europei, che non ebbe un analogo contraltare nel mondo islamico, in cui scienza e cultura fiorirono grazie ai commerci con la Cina, dove era stata inventata la carta, un supporto robusto ed economico che apparve in Europa solo molto più tardi. Fu grazie alla carta, ed all’invenzione della stampa, che il continente europeo tornò ad avere un’alfabetizzazione diffusa, che in poco tempo produsse prima la rivoluzione scientifica, quindi quella industriale, avviando il declino dell’Ideologia religiosa.

Una ulteriore modalità di controllo culturale (e, di conseguenza, controllo sociale) è la generazione di un ‘rumore di fondo’ informativo che, al pari dell’intrattenimento, tenga occupata e distratta l’attenzione pubblica. L’informazione ‘mainstream’, veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, televisione e giornali, arriva diffusamente e capillarmente alla gran parte della popolazione, mentre quella ‘alternativa’ viene sommersa dal rumore di fondo e resa inefficace.

Con la rivoluzione scientifica, ed il conseguente progresso tecnologico, è apparsa evidente l’importanza di avere popolazioni alfabetizzate ed acculturate, libere di organizzarsi ed esprimersi. Ciò non poteva mancare di avere ricadute drammatiche sull’organizzazione sociale e sulle strutture di comando. La rivoluzione industriale vede l’ascesa di una nuova classe sociale, la borghesia, che diventa il primo produttore di ricchezza, grazie al commercio ed ai processi industriali. La disponibilità di ricchezza consente (e richiede) ai nuovi potentati economici di prendere in mano la gestione degli indirizzi collettivi.

Questo comporta la necessità di scalzare le preesistenti organizzazioni di controllo sociale: stati nazionali ed organizzazioni religiose. Gli stati nazionali vengono progressivamente demoliti dalle rivoluzioni borghesi (francese ed americana) e dalla transizione a forme di governo democratiche, meglio controllabili da parte del mondo economico, mentre a minare il potere religioso è la progressiva laicizzazione della società, velocizzata ed acutizzata dalla diffusione del razionalismo e del pensiero scientifico.

Il quadro attuale vede il trionfo di un’Ideologia produttivo/mercantile, che proietta il proprio potere nel controllo dei mezzi di comunicazione di massa, giornali e televisione, e contemporaneamente genera un abbondante rumore di fondo attraverso l’intrattenimento e i social networks, riuscendo oltretutto ad arricchirsi dalla fruizione di tutte queste modalità informative.

Il controllo sociale si avvale di un ulteriore Processo di Inganno, che prende il nome di Politica. Mentre il popolo viene governato dagli apparati burocratici e ministeriali, economicamente e culturalmente controllati dal mondo produttivo, la classe politica inscena un teatro ideologico permanente, deviando l’attenzione della popolazione su questioni volutamente ambigue come i ‘diritti civili’, la ‘sovranità’ o le ‘identità nazionali’.

Le testate giornalistiche destinano gran parte del proprio spazio alle evoluzioni della scena politica, poi si occupano di informare su nuovi prodotti e tecnologie (pubblicità occulta), sullo sport (che non di rado è semplicemente veicolo pubblicitario per comparti produttivi, come nel caso dell’automobilismo), e sull’intrattenimento (rumore di fondo), restringendo il cerchio della comunicazione di massa a tematiche strettamente utilitaristiche per l’Ideologia dominante. Solo una minuscola frazione dell’informazione è riservata alle questioni sociali ed ambientali, ed in genere si tratta di notizie imprecise e superficiali, quando non puro e semplice ‘greenwashing’.

Per ogni Cultura Irrazionale, militare, religiosa, produttiva o commerciale che sia, la priorità consiste nell’accreditarsi come unica ragionevole e plausibile visione del mondo, lavorando ad occultare le incongruenze di fondo. In linea di massima è relativamente semplice individuare le forzature ideologiche nella comunicazione di massa, ma altrettanto palesemente non vi è traccia della consapevolezza di esse nella cultura collettiva.

L’Ideologia produttivo/mercantile, nel suo generare (nell’immediato) benessere diffuso ed abbondante, si lascia alle spalle rifiuti e distruzione, problemi sanitari, perdita di biodiversità e di fertilità dei suoli, esaurimento di riserve energetiche fossili e delle materie prime, antropizzazione galoppante, disparità sociali, povertà ed annientamento di equilibri biosistemici millenari. Tutto questi problemi, è evidente, ricadranno come un macigno sulle generazioni a venire, ma al fine di preservare i vantaggi immediati è conveniente che la collettività continui ad ignorali.

Per contro, i sacerdoti dell’Ideologia proclamano una fede cieca in costrutti culturali palesemente e dimostrabilmente falsi, come l’idea di una ‘crescita illimitata’ dell’economia, o l’esistenza di una ‘mano invisibile del mercato’, che ad un esame razionale appaiono concettualmente non dissimili dalle divinità idolatrate dai popoli preistorici.

Il consolidamento di ogni Ideologia ha la funzione di stabilizzare l’Ordine Sociale, evitando derive che potrebbero ridurre, o eliminare, il controllo esercitato da parte delle Caste Sacerdotali dominanti. Tale consolidamento dà luogo ad una riluttanza sistemica, che ostacola ogni possibile cambiamento frenando l’evoluzione collettiva e, non di rado, conducendo al collasso catastrofico dell’organizzazione sociale stessa.


[1] Processi di Inganno

[2] Domesticazione Umana

6 – Evoluzione dei Processi di Inganno

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

L’incremento del benessere alimenta l’emergere di nuove classi sociali specificamente occupate ad inculcare le ideologie e coltivare i Processi di Inganno collettivi

Negli approfondimenti precedenti abbiamo visto come i Processi di Inganno emergono dall’organizzazione delle società umane e come finiscano con lo strutturarsi in Ideologie. Ora cercherò di dar conto degli stessi eventi in chiave dinamica, ovvero come Processi di Inganno ed Ideologie evolvano dalla reciproca interazione, modificandosi a vicenda nel corso del tempo.

Il successo delle singole Ideologie dipende principalmente dal grado di benessere che ognuna di esse è in grado di restituire alla collettività che la adotti per un arco di tempo sufficientemente prolungato. L’eventuale successo di una ideologia porta all’emergere di una ‘casta sacerdotale’, un gruppo organizzato di persone che massimizza l’efficacia dei processi di inganno, percepiti come vantaggiosi dalla popolazione, e ne innesca di propri, tipicamente di natura parassitaria.

La ‘casta sacerdotale’ trae alimento dal surplus di ricchezza prodotta dall’operato delle popolazioni che si identificano nell’Ideologia collettivamente condivisa, ed ottiene benefici diretti, via via crescenti, dalla dipendenza che si sviluppa nella popolazione, il cui ‘benessere’ discende dai costrutti irrazionali di cui la casta sacerdotale stessa è veicolo.

Esempio pratico (civiltà antica): una tribù stabilisce che credere in una divinità è preferibile all’affrontare la paura della morte. I sacerdoti della divinità iniziano ad interpretarne le volontà, formalizzando una serie di regole, anche pratiche, che i fedeli sono tenuti a seguire. Le regole sono efficaci ed ottengono di migliorare la qualità della vita della collettività. La collettività riconosce ai sacerdoti il merito di tale miglioramento. Parte del surplus prodotto viene investito nell’alimentare il processo generatore di ‘benessere’. I sacerdoti riutilizzano quanto donato sia per le proprie necessità che per far crescere la ‘fede’, realizzando opere di ringraziamento alla divinità, luoghi di culto ricchi ed appariscenti e tutto il relativo corollario (di fatto l’adorazione della divinità appare indistinguibile dall’adorazione per il ‘benessere’ di cui la divinità è ritenuta dispensatrice… ciò vale sia per le divinità ultraterrene, sia per i costrutti culturali elaborati in tempi recenti: la supremazia militare, i mercati, la tecnologia, ecc…)

Nel caso in cui il surplus di ricchezza prodotto sia abbondante, gli individui animatori dell’Ideologia spingeranno il resto della popolazione a farne dono. Il possesso e la gestione di tale ricchezza viene quindi incorporato all’interno dell’Ideologia stessa, e descritto come necessario al rafforzamento dei processi responsabili del benessere collettivo.

I membri delle società umane tendono ad accettare l’idea che un ‘mediatore’ (la divinità, o il costrutto culturale, e di conseguenza i ‘sacerdoti’ che ne interpretino la volontà) debba ricevere una parte dei beni che l’Ideologia ha contribuito a generare. Il fatto che i ‘tributi’ vengano quindi specificamente incorporati nell’Ideologia condivisa favorisce questo processo di accettazione.

  • Nel caso di una cultura animata dalla religiosità, ad esempio una civiltà agricola primitiva, i sacerdoti operano a convincere la collettività della necessità di riti propiziatori, sacrifici animali, olocausti. Con l’accrescersi del surplus di risorse generato dalle pratiche agricole possono essere retribuiti operai per fabbricare manufatti dedicati al culto: vengono costruiti altari, prodotta oggettistica devozionale ed innalzati templi. Sul lungo termine avviene una strutturazione gerarchica nella stessa casta sacerdotale, i rituali diventano più complessi, vengono redatti testi sacri, si definiscono norme di abbigliamento e vengono stabilite ed imposte delle scadenze temporali arbitrarie per l’effettuazione di specifici rituali.
  • Nel caso di una cultura militare, la cui ricchezza derivi dal saccheggio di territori e culture limitrofe, assistiamo a processi analoghi, col ruolo sacerdotale incarnato nelle gerarchie militari. Anche in questo caso avremo le benedizioni rituali e i sacrifici alle divinità della guerra, avremo un vestiario specifico per l’esibizione di ruoli e gerarchie (le alte uniformi), avremo i manuali di tattica e strategia a formalizzare l’Ideologia e tramandarla, avremo opere monumentali (p.e. statue di re, generali ed archi di trionfo) a testimoniare e consolidare la memoria dei successi riportati.
  • Nel caso di una cultura produttivo/mercantile, a dominare sarà l’ostentazione della ricchezza ottenuta, sotto forma di oro, gioielli, tessuti pregiati e pietre preziose (in tempi più recenti oggetti tecnologici costosi, barche, orologi e automobili di lusso). I sacerdoti di una tale cultura si riuniranno in spazi ‘esclusivi’, per rimarcare il proprio status e la loro distanza dal ‘popolino’, erigeranno monumenti all’operosità sotto forma di grandi edifici di uffici e centri commerciali visibili a chilometri di distanza, che torreggeranno sulle città sottostanti per esibire il potere dell’Ideologia che li ha eretti.

Ho scelto di accomunare questi tre esempi nella definizione di Processi di Inganno (oltre a diversi altri, che vedremo in seguito) perché, come già spiegato, la componente motivazionale è obbligata a basarsi su assunti indimostrabili ed irrazionali.

  • Nel caso della religione è indimostrabile l’esistenza della divinità
    (n.b.: ed è altrettanto indimostrabile la sua inesistenza… questa analisi non ha l’obiettivo di analizzare la falsità o meno delle credenze religiose, bensì quello di indagare la natura umana e descrivere parallelismi tra aspetti dei rapporti sociali che a prima vista possono apparire molto diversi tra loro)
  • Nel caso delle culture militari è indimostrabile il diritto di un singolo o un intero popolo ad approfittare delle ricchezze altrui, o di aggredire ed asservire altre popolazioni
    (per questo si sono, nei secoli, costruite intere mitologie sui discendenze divine, popoli eletti, culture superiori o più evolute, fino ad arrivare alle moderne ideologie razziste).
  • Nel caso delle culture produttive/mercantili è indimostrabile che il benessere, individuale e collettivo, dipenda in misura diretta dalla quantità di beni di cui ognuno/a dispone
    (qualunque studente in psicologia può facilmente smontare questa tesi, che tuttavia ha profonde radici, frequentemente di natura culturale, ovvero indotte).

In sintesi, all’origine di tutto c’è la nascita di un’idea di ‘benessere’ ottenibile, e della maniera per ottenerlo. Questo innesca un Processo di Inganno, la cui funzione è di realizzare quel ‘benessere’. Se il ‘benessere’ è realizzato, il processo si autoreplica crescendo di scala ad ogni passaggio: maggior benessere prodotto, maggior popolazione coinvolta, maggiori evidenze di benessere esibite pubblicamente, progressivi aggiustamenti all’ideologia responsabile del ‘benessere’, aumento della ricchezza e dell’importanza sociale della casta sacerdotale responsabile dell’Ideologia.

Questo crescendo inarrestabile finisce, presto o tardi, con lo scontrarsi coi limiti ecosistemici dell’ambiente dal quale il ‘benessere’ viene ricavato. Vivendo in un ‘mondo finito’, è evidente che l’accaparramento di risorse da parte di un’unica specie non può che comportare una riduzione delle risorse disponibili per tutte le altre.

La nostra specie ricava ‘benessere’ dal danneggiare le altre: uccidendo animali per nutrirci, bruciando legna per scaldarci, deforestando per far spazio alle colture, cementificando per ricavarne abitazioni, rilasciando agenti inquinanti ed alterando la composizione chimica dell’atmosfera. Tali processi non hanno effetti significativi per popolazioni numericamente ridotte, ma portati alla scala attuale sono più che in grado di turbare l’equilibrio complessivo dell’ecosistema, potenzialmente in maniera irreversibile.

Questo è un tema che svilupperò meglio nell’ultima parte, ma qui serve a chiarire meglio la definizione di ‘Processi di Inganno’: è vero che i processi di inganno generano ‘benessere’, e in questo non c’è inganno, tuttavia il ‘benessere’ generato è sempre provvisorio, ed ottenuto a spese di quegli stessi equilibri naturali che hanno favorito la comparsa della nostra specie.

La natura stessa di questo ‘benessere’ è perciò estemporanea, anche se trattiamo di archi temporali dell’ordine dei secoli, quindi non facilmente né pienamente contestualizzabili dai singoli individui. L’idea che il ‘benessere’ ottenuto nell’immediato sia realizzato a spese delle generazioni future è solitamente ignorata delle narrazioni ideologiche, e questo rafforza l’Inganno insito nel processo stesso.

Il risultato è che i Processi di Inganno si sviluppano, modificando progressivamente le Ideologie che ne discendono, in modo da massimizzare la propria efficacia e rendere inevitabile l’esaurimento delle risorse da cui dipende il ‘benessere’ promesso, dal momento che l’esistenza stessa di un ‘benessere’ induce la crescita della popolazione, che comporta l’aumento dello sfruttamento e, a lungo andare, l’esaurimento di ciò che pure era, originariamente, ‘rinnovabile’.

Nel prossimo post analizzerò il legame tra Processi di Inganno, Ideologie e Comunicazione, per illustrare le modalità attraverso le quali le Ideologie vengono veicolate al grande pubblico, informando e modellando la percezione collettiva della realtà e garantendo forme di controllo sociale atte a prevenire scostamenti dall’ortodossia ideologica.

4 – I Processi di Inganno

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

Singoli meccanismi di auto-inganno si integrano per dar vita a ‘Processi di Inganno’ capaci di amplificare le Volontà individuali e collettive

Abbiamo visto, nei precedenti approfondimenti, come i meccanismi di auto-inganno (Bias Cognitivi) si strutturino in forme sociali (Bias Culturali). Al crescere di dimensione dei gruppi umani, nel passaggio dalle piccola comunità (tribù e villaggi) alle città, e su su fino a stati ed imperi, le modalità di auto-inganno funzionali al benessere ed alla sopravvivenza si articolano ulteriormente, rafforzandosi e sviluppando proprie forme organizzative.

Abbiamo anche visto come un eccesso di consapevolezza possa indurre alla disperazione, e come la possibilità di compensare questa disperazione per mezzo di convinzioni irrazionali migliori la capacità umana di far fronte alle avversità. Ora si tratta di proiettare questo scenario su una dimensione sociale.

Posto che la convinzione dell’utilità di determinate pratiche irrazionali risulta vantaggiosa per l’individuo, lo stesso avviene a livello di gruppi. Con una differenza fondamentale: il gruppo agisce come un singolo organismo, le cui funzioni si articolano nei singoli individui. All’interno di un gruppo gli appartenenti si differenziano in base alle proprie inclinazioni ed attitudini, capacità ed abilità. Se un individuo è più bravo a cacciare, farà di preferenza il cacciatore, se è bravo a fabbricare utensili, farà l’artigiano.

In un simile contesto emergeranno necessariamente individui più capaci di altri nelle modalità di auto-inganno, ed è a questi individui che il gruppo assegnerà la funzione di rafforzare le convinzioni irrazionali collettive, fabbricare argomentazioni teoriche e praticare i riti propiziatori. Gli individui più portati a maneggiare le modalità di auto-inganno saranno chiamati dalla collettività a praticare le stesse modalità di inganno sugli altri membri del gruppo.

Quello che avviene quando una convinzione irrazionale viene condivisa è tipicamente l’emergere di un ‘leader carismatico’ che se ne fa portabandiera. Trattandosi di un processo irrazionale, risulta arduo sia convalidarlo che confutarlo. Se sono convinto che i miei insuccessi dipendano da una causa immateriale, non è possibile né accertare né contestare questa affermazione. Ma se ho realmente necessità di crederlo, sarò disposto a ricompensare, con beni o con il credito di autorità, chiunque mi supporti in tale convinzione.

La forma più semplice di questa attività la possiamo osservare nelle società umane organizzate per piccoli gruppi e tribù. In queste collettività, di norma, a curare le attività legate alla sfera dell’irrazionale, la cosiddetta ‘spiritualità’, è una figura sciamanica. Lo sciamano è ritenuto dalla tribù un individuo meno legato degli altri alla realtà fisica, capace quindi di dialogare con un mondo immateriale dal quale trarre indicazioni sulla condotta da tenere e sulle scelte da operare collettivamente.

All’interno di un processo di inganno vengono formulate e formalizzate descrizioni (razionalizzazioni) di processi di causa/effetto implicanti enti immaginari, che pertanto prendono la forma di ‘verità di fede’, dal momento che non è possibile produrre una dimostrazione della loro effettiva sussistenza. Tali razionalizzazioni svolgono funzioni motivazionali, e possono essere sfruttate per modificare e manipolare i comportamenti di gruppi e collettività.

I ‘saperi’ acquisiti vengono tramandati, di generazione in generazione, solitamente in forma orale, da uno sciamano al suo discepolo, che ne prenderà il posto come guida spirituale della comunità. Questo è, nella sua forma prototipale, ciò che ho definito come ‘Processo di Inganno’. Va fatto notare come il termine ‘inganno’ non sottintenda una volontà di approfittare degli altri membri della comunità, perché finalizzato al benessere della collettività stessa. Il processo, tuttavia, presta il fianco a possibili abusi.

Col crescere delle dimensioni della collettività le cose si fanno più complicate, perché i gruppi sociali si moltiplicano e diversificano, pur continuando a coesistere, aggregandosi per affinità. Ogni attività pratica evolve dal singolo individuo in un gruppo di esperti, portatori di competenze condivise e specifiche. In una collettività estesa tendono a svilupparsi gilde e corporazioni, gli artigiani da una parte, i guerrieri da un’altra, gli allevatori da un’altra ancora.

Necessariamente le attività legate ai ‘Processi di Inganno’ evolvono di conseguenza, dando vita a vere e proprie caste sacerdotali, cui è delegato lo svolgimento dei rituali, l’approfondimento e la continuazione del culto (n.b.: l’utilizzo del termine ‘caste sacerdotali’ potrebbe essere interpretato da un punto di vista strettamente religioso, mentre va inteso nel senso più ampio di organizzazioni di individui con competenze specializzate in ambiti irrazionali).

Lo sviluppo culturale di individui e collettività procede infatti su due binari paralleli. Da un lato attraverso lo sviluppo di competenze legate alla conoscenza del mondo reale ed alla sua manipolazione, quelle che potremmo definire ‘Culture della sfera Razionale’. Dall’altro mediante l’elaborazione dei sistemi di idee necessari a gestire gli aspetti emozionali, ivi inclusi i processi motivazionali, che potremmo etichettare ‘Culture della sfera Irrazionale’.

L’esigenza di questo doppio binario appare evidente se si osservano le azioni di singoli e collettività. Le competenze pratiche possono guidare la realizzazione di un qualsiasi lavoro manuale, ma la decisione se effettuare o meno tale lavoro, o quando iniziare, non sempre si può desumere da un’analisi razionale (a monte di tutto, la necessità stessa del nostro esistere non può essere fatta discendere da un’analisi razionale, ma unicamente da una Volontà egoistica).

Se la Realtà non ha alcuna necessità di noi, l’unico possibile motore delle nostre scelte è la decisione individuale di esistere, la già menzionata Volontà, motore irrazionale che apre ad un ventaglio di opzioni tra le quali selezionare la modalità di esistenza più congrua con la nostra sfera emotiva, i nostri saperi e le nostre capacità.

È da questo ventaglio di possibilità che emergono le ‘Culture Motivazionali’, ovvero i sistemi di idee in grado di aiutarci a selezionare e scegliere le modalità più adatte per svolgere le azioni quotidiane ed organizzare la nostra sfera sociale. Le stesse Culture Motivazionali che, sulla scala dei gruppi sociali, finiscono col definire l’identità, l’indole, le scelte e l’agire di interi popoli.

Un sistema di idee è necessario per stabilire se si debba o meno abbattere un albero, o costruire una casa, se lavorare o riposarsi, se operare di concerto con altri o, al contrario, ostacolare le intenzioni altrui. Un sistema di idee risulta indispensabile a gestire gli aspetti motivazionali dell’esistenza, per se stessi irrazionali e non derivabili dall’osservazione della realtà. Il termine che definisce un tale sistema di idee è Ideologia.

A puro titolo di esempio, il giorno di riposo settimanale non discende da nessuna legge naturale, ma è il portato dello sviluppo di agricoltura ed allevamento, che hanno prodotto una sufficiente abbondanza di cibo e sicurezza da consentirci di disporre, periodicamente, di una giornata non lavorativa. E si è convenuto un giorno ogni sette perché sette giorni sono, con buona approssimazione, un quarto dell’orbita lunare, ovvero uno dei principali ‘orologi’ dell’antichità. Questa prassi è stata quindi formalizzata, presso popoli diversi ed in modalità diverse, all’interno di un ‘pacchetto di credenze’, che ne ha resa permanente l’adozione. E il giorno di riposo dal lavoro viene in genere dedicato ad attività legate alla sfera dell’irrazionale, religiose e/o ricreative, ottenendo di rafforzare convinzioni e motivazioni.

L’inserimento di intermediari all’interno delle dinamiche individuali e sociali introduce un termine di ulteriore arbitrio, e consente all’intermediario di ottenere forme di ricompensa. A titolo di esempio: se i membri di una tribù sono convinti che l’arrivo della pioggia discenda dalla volontà di un non meglio definito ‘Grande Spirito’, l’intermediazione di uno sciamano viene considerata risolutiva nel momento in cui la pioggia si verifica. Il conforto psichico offerto da tale convinzione consiste nell’eliminare la preoccupazione che la pioggia possa non venire mai più.

Il ruolo di sciamano si carica dell’importanza conferita alla risoluzione del problema, e l’intera tribù si offre di provvedere alle necessità dell’individuo che ricopre tale incarico. Il meccanismo di auto-inganno individuale (credere nella pioggia mandata dal Grande Spirito) trova un rinforzo nella figura dello sciamano, innescando un Processo di Inganno all’interno del quale il vantaggio ottenuto dal ‘mediatore’ è tale da alimentare l’inganno indipendentemente dalla convinzione del mediatore stesso.

Il rischio di una tale deriva etica appare intrinseco al processo stesso: le pulsioni irrazionali alimentano la produzione di ricchezza e benessere oltre le immediate necessità; gli individui più inclini alle modalità di inganno hanno facilità ad inserirsi all’interno di questa dinamica e le capacità manipolatorie consentono loro di assurgere a posizioni chiave, finendo col trovare vantaggio ad alimentare il processo stesso indipendentemente dalle proprie stesse convinzioni (che pure possono evolvere nel tempo).

Con la definizione di Processo di Inganno si intende perciò un sistema stabile di inganno socialmente formalizzato, all’interno del quale un singolo o un gruppo di individui operano ad alimentare convinzioni infondate ed a fornire spinte motivazionali in cambio di un ritorno economico, ottenendo di contribuire al benessere diffuso e finendo con l’assurgere a posizioni di vertice nell’organizzazione sociale.

Per eccellere nella gestione dei Processi di Inganno è necessario un approccio quantomeno elastico a ciò che potremmo definire come Realtà Fattuale, in altri termini disporre della capacità di auto-ingannarsi con facilità. Questa capacità di auto-inganno può svilupparsi al punto da far perdere del tutto il contatto con la realtà, fino a sostituire ad essa le proprie fantasie e ad interpretare ciò che accade in forme totalmente distorte.

Ciò può condurre ad azioni orribili basate non necessariamente sulla crudeltà, bensì sul convincimento della loro necessità ai fini di un ‘Bene Superiore’, una dinamica psichica ben nota e documentata. Il punto interessante è proprio relativo all’emergere di queste personalità devianti ed al loro assurgere a posizioni di leadership, in larga parte determinato dal successo e dall’efficacia dei ‘Processi di Inganno’ al cui interno si trovano ad agire.

Un esempio su tutti è l’ascesa del Nazismo in Germania. Gli ideologi nazisti furono in grado di generare una bolla di irrazionalità collettiva di proporzioni inusitate, all’interno della quale azioni assolutamente riprovevoli trovavano giustificazione. Parallelamente la compartimentazione della società fece si che larga parte della popolazione venisse tenuta all’oscuro dei fatti reali (per il suo bene, ovviamente…) col risultato di trascinare la Germania in un processo di pulizia etnica insensato e l’intera Europa in una guerra fratricida e devastante.

In estrema sintesi, gli esseri umani hanno la possibilità di determinare le proprie azioni, ma per farlo necessitano di un sistema di idee. Una possibile opzione è rappresentata dal fare il minimo necessario e vivere alla giornata. Questa scelta determina una ridotta disponibilità di surplus di risorse da investire per mettere in moto altri processi.

In alternativa, se un mediatore ti convince a lavorare di più, con argomentazioni necessariamente irrazionali, il surplus di ricchezza prodotto potrà essere investito per alimentare il Processo di Inganno, che potrà così protrarsi nel tempo e coinvolgere altri soggetti.

Col crescere della popolazione coinvolta e l’aumento della complessità delle società umane osserviamo l’ascesa dei Processi di Inganno ed il loro strutturarsi in ‘Ideologie’, una dinamica che approfondiremo nei prossimi post.

2 – Evoluzione dei Bias cognitivi

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

La Volontà può scegliere di applicare la Razionalità, oppure di ingannarsi
La Volontà inganna se stessa producendo razionalizzazioni e finendo col crederci
L’esercizio di Volontà è inscindibile da meccanismi di auto-inganno

La razionalità, come abbiamo visto, si è rivelata un potente strumento di manipolazione del mondo e della realtà fattuale. Una sua applicazione indiscriminata può, tuttavia, risultare controproducente, minando l’efficienza delle funzioni biologiche primarie degli individui: sopravvivenza e successo riproduttivo.

Un primo problema discende dai tempi e dall’attenzione richiesti per elaborare le informazioni ricavate dal mondo esterno, informazioni poi non sempre disponibili in quantità sufficienti ed in forme adeguate.

Dover gestire una mole incongrua di fatti, oltretutto potenzialmente ambigui, può causare il blocco dei processi razionali e l’emergere di processi mentali ripetitivi ed inconcludenti, capaci di generare stress e dar luogo a comportamenti svantaggiosi sotto diversi profili.

Allo stesso modo un eccesso di consapevolezza, in particolare quando si affrontino situazioni emotivamente difficili o impossibili da gestire, come una malattia, la stessa vecchiaia o l’idea della morte, risulta potenzialmente disfunzionale, generando una mole soverchiante di pensieri negativi, dannosi per il benessere individuale.

In individui particolarmente sensibili ciò può condurre, non di rado, a comportamenti autodistruttivi. In questo scenario si inquadrano diverse delle derive comportamentali legate allo stordimento (alcol, droghe) ed in ultima istanza al suicidio.

Non è un caso che molte delle filosofie orientali siano focalizzate su tecniche di gestione della mente (meditazione) atte a svuotare la coscienza dall’accumulo di pensieri e preoccupazioni, portato negativo dell’eccesso di consapevolezza.

Per far fronte a questi potenziali guasti il cervello attua spontaneamente specifiche modalità di auto-inganno, i Bias Cognitivi [1], ovvero razionalizzazioni sbrigative, spesso prive di fondamento, che consentono alla sfera emozionale di riprendere il controllo nei momenti di impasse e contenere il rischio di collasso dei processi razionali.

L’acquisizione di capacità di auto-inganno appare pertanto come un necessario ed inevitabile corollario allo sviluppo del pensiero razionale, atta ad impedire che le funzioni cognitive superiori interferiscano con gli imperativi biologici. Un’articolazione obbligata degli strumenti a disposizione della nostra sfera emotiva che si sviluppa in parallelo all’aumento dell’intelligenza e delle abilità di analisi logica.

In sintesi: l’abilità di comprendere la realtà in maniera obiettiva e spassionata porta con sé tutta una serie di complicazioni, che richiedono di essere gestite per non finire col compromettere la nostra capacità di sopravvivenza e riproduzione.

Gli strumenti cognitivi di auto-inganno emergono nel corso dello sviluppo della razionalità proprio per consentire alla sfera emozionale di bypassare, ove necessario, i processi razionali, senza minare la fiducia in essi. Una soluzione che può apparire poco soddisfacente ma che, in termini evolutivi, è risultata premiante.

Conseguenza interessante dell’esistenza dei meccanismi di auto-inganno è che non possiamo mai aver certezza di stare sviluppando un’analisi razionale o, al contrario, di appoggiare le nostre convinzioni su una razionalizzazione priva di reale fondamento. È questo uno dei principali motivi per cui risulta difficile sviluppare un confronto costruttivo su convinzioni non condivise.

La capacità di analisi razionale risulta pertanto limitata all’ambito conoscitivo, mentre qualsiasi applicazione pratica delle nozioni apprese è mediata dalla sfera decisionale, agita dagli ‘imperativi biologici’ e capace di sovvertire senza difficoltà qualsiasi evidenza entri in contrasto con essi.

I meccanismi di auto-inganno vengono rafforzati ed amplificati dalla condivisione sociale, fissandosi in Bias Culturali che tendono a strutturarsi in Processi di Inganno i quali, col tempo, si formalizzano in Ideologie [2].

(continua)


1 – Bias Cognitivi

2 – Ideologie

La solitudine dei filosofi

Nell’arco dei quasi sedici anni di vita di questo blog ho finito col maturare una inevitabile stanchezza. La voglia di scrivere non è scomparsa, a frenarmi non è un esaurimento della motivazione. È, piuttosto, la consapevolezza delle conseguenze di ciò che vado elaborando ultimamente.

La scoperta del meccanismo che origina i bias cognitivi ha rappresentato per me un punto di non ritorno, consentendomi di inquadrare la fragilità umana in tutta la sua varietà e complessità. La natura ci ha donato una straordinaria capacità di comprensione che risulta, al tempo stesso, uno strumento formidabile per comprendere la Realtà ed un costante attentato alla nostra stessa capacità di sopravvivenza.

L’estrema lucidità, l’estrema comprensione della natura del mondo, ci lasciano basiti ed inermi, soli al cospetto dell’inumana indifferenza del Cosmo. Solo i bias cognitivi ci aiutano a sopportare la ‘cruda realtà’, restituendoci consolanti fantasie esistenziali. Forme di auto-inganno di cui l’evoluzione ci ha forniti come aiuto per sopportare le avversità.

Da un po’ di tempo, probabilmente da sempre, la mia curiosità si è data a smontare questi costrutti. Il metodo scientifico, il continuo rimettere in discussione quello che pensiamo di conoscere, è un potente grimaldello in quest’opera di demolizione, il cui fine ultimo dovrebbe essere il raggiungimento di una comprensione chiara e lucida della realtà, non offuscata da millenni di inquinamenti culturali.

Tuttavia, più avanzo in questo percorso, più strada percorro sulla via della conoscenza, e più ottengo di allontanarmi dai miei stessi simili. Le verità che raccolgo sono spiacevoli, scomode da accettare, a tratti disperanti. L’Universo è senza senso, la civiltà umana è senza senso, le nostre vite sono senza senso. È possibile accettare questa realtà?

Personalmente, in qualche modo ci sto riuscendo, ma quel che vale per me non è detto che valga per tutti. Ho imparato in giovane età a fare a meno del conforto della fede, e più avanti ho finito col disfarmi di altre narrazioni confortanti, legate alla scienza ed alla politica. Realizzo tardivamente che potrei essere un’eccezione.

Nella vita non sono mai stato attratto dalla ricerca dello stordimento, ottenuto da molti con l’alcol e le droghe. Non mi sono mai ubriacato, mai sballato. Oggi posso leggere con lucidità queste forme di ricerca dello stordimento come segnali di fragilità, tentativi disperati di alleviare il ‘peso della vita’. La vita non mi è mai pesata, e in questo mi ritengo fortunato.

Nondimeno la vita è un peso per molti, soprattutto con l’avanzare dell’età, con la rinuncia ai sogni della gioventù, con la realtà di un corpo che perde colpi, con la scomparsa di persone care. Più si diventa fragili, più ci si aggrappa alle illusioni. È una reazione umana che non è possibile biasimare.

La mia ricerca intellettuale va in direzione opposta rispetto a questa necessità. Le persone hanno bisogno di illudersi per tirare avanti, io invece procedo a macinare queste illusioni, riducendole in polvere. E qui veniamo al punto: quale può essere il senso di condividere le mie conclusioni? Che utilità possono avere, non già per me, ma per chi le legge?

Se le persone hanno bisogno di credere, nell’essere umano, nella cultura, nella politica, nell’aldilà, nella scienza, negli ideali, che senso ha distruggere queste illusioni? Solo perché personalmente sono in grado di sopportare una tale consapevolezza, cosa mi fa ritenere di poterla infliggere con leggerezza a chicchessia?

Questo è il motivo per cui, ormai da settimane, sto girando a vuoto. Scrivo, pagine su pagine, inanello evidenze e relazioni, rapporti di causa-effetto, ma alla fine arrivo sempre al punto di domanda: a che serve, a chi serve, quello che sto scrivendo? Non trovo risposta, e le pagine restano ammucchiate nei files dove le ho stipate.

L’ultima domanda rimane, a questo punto, a cosa serva ancora questo blog. Al momento non ho una risposta. Non sono più la persona che lo avviò, quasi sedici anni fa. La mia vita è diversa, la mia consapevolezza è diversa, nemmeno il mondo è più lo stesso di prima.

Se smetterò di scrivere, come sembra probabile, lo lascerò aperto per i visitatori occasionali, come una stele assira in caratteri cuneiformi, a coprirsi di polvere digitale. Lo slancio che mi animava anche solo tre lustri fa si è col tempo esaurito, le aspettative rispetto alla rilevanza di questo strumento si sono pian piano prosciugate, ed al momento ho dubbi anche sulla sua reale utilità.

Senza voler essere pessimisti, non mi sembra verosimile un ritorno di fiamma, perlomeno in tempi brevi. Questo potrebbe essere l’ultimo post a tempo indefinito. Un saluto a chi mi ha seguito fin qui.

Bias culturali – l’idea di normalità

Credit: image from Pedro Szekely on Flickr

Comincerò con un aneddoto. Anni fa mi accingevo a tornare a casa dall’ufficio, in bicicletta. Un collega di lavoro, il tipo di persona che si identifica in un’automobile sportiva, uscendo dallo stesso edificio mi apostrofò con disprezzo: “Tu non sei normale!”. Per nulla turbato da tale considerazione gli risposi serafico: “Io non voglio essere normale”. Non ci furono repliche.

Un’analoga idea di normalità è recentemente riemersa nel corso della campagna elettorale. La destra ha suggerito l’idea di intervenire per correggere le ‘devianze’, intendendo con questo termine una serie di ‘derive comportamentali’, contrapposte ad una presunta ‘normalità’. Il punto è che discriminare la popolazione tra ‘normali’ da un lato e ‘devianti’ dall’altro è totalmente sbagliato.

In natura non esiste la normalità, semmai esiste una ‘prevalenza’ di alcuni caratteri su altri. Le caratteristiche prevalenti, in una specie, sono quelle che meglio si adattano alla situazione contingente, consentendo ai singoli individui, ai gruppi ed all’intera specie di prosperare. Tuttavia la natura, per mezzo della riproduzione sessuata e delle mutazioni casuali, si riserva margini di errore, producendo ad ogni generazione individui significativamente diversi dalla versione standard. Sono proprio questi individui che, al mutare delle situazioni contingenti, possono consentire ai gruppi cui appartengono di adattarsi e continuare a prosperare.

Per chiarire meglio il concetto citerò un esempio tratto da “L’Origine delle Specie” di Charles Darwin [1]. La lunghezza del pelo, in una qualunque specie animale, discende in linea diretta dalle condizioni climatiche standard in cui la specie vive e prospera. Un individuo che nasca col pelo più folto soffrirà il caldo, risultando svantaggiato nella competizione per la sopravvivenza e la riproduzione. Analogamente, un individuo dal pelo più corto soffrirà il freddo, con conseguenze simili. Questa forma di svantaggio fa sì che gli individui con caratteristiche difformi dai valori ottimali non abbiano la possibilità di alterare lo standard dell’intera specie.

Tuttavia, nel momento in cui le condizioni climatiche si trovino a variare, come ad esempio all’inizio di una glaciazione, saranno gli individui dal pelo più folto ad essere avvantaggiati, a sopravvivere e a riprodursi con maggior facilità. La loro esistenza rappresenta un margine di adattabilità fondamentale per preservare la specie dal rischio di estinzione. Inoltre, specie che si ritrovino, per un qualunque motivo, a popolare habitat diversi da quello originario, superato un primo periodo di difficoltà finiscono con lo sviluppare adattamenti specifici, locali, che risultano vantaggiosi nel nuovo habitat, diversificandosi dalla linea genetica di partenza.

La diversità fra singoli individui rappresenta pertanto una necessità nei processi evolutivi, e non solo non può essere eliminata, ma è al contrario fondamentale per garantire alle specie la necessaria capacità di adattamento alle eventuali trasformazioni degli habitat ed alla competizione con specie differenti. Basterebbe già questo per bollare determinate ideologie suprematiste, basate su idee come la ‘purezza della razza’, come Bias Culturali, ma c’è dell’altro.

Quando spostiamo l’attenzione dai singoli individui alle specie sociali osserviamo che non è tanto l’efficacia individuale a rappresentare la carta vincente, dato che il gruppo (mandria, stormo, banda, tribù, piccola comunità) agisce come un sovra-individuo, integrando le capacità dei singoli membri. In natura disporre di un ventaglio differenziato di abilità rappresenta un vantaggio. Un gruppo dotato di individui con abilità diverse riesce ad essere più versatile, e meglio adattabile, di un gruppo in cui tutti sanno fare più o meno le stesse cose.

Il vantaggio di mettere a sistema le singole abilità travalica l’appartenenza di specie. Come ho osservato personalmente in Sud Africa, branchi di erbivori di specie diverse pascolano abitualmente insieme, spontaneamente integrando i differenti acumi sensoriali per meglio individuare la presenza di predatori. Animali che hanno una vista scadente (i rinoceronti) possiedono per contro un ottimo olfatto, animali che hanno un olfatto scadente possono avere un ottimo udito, animali che hanno un udito scadente possono avere una vista più acuta. All’avvicinarsi dei predatori, la prima specie ad accorgersene fugge, e in questo modo allerta tutte le altre.

Analogamente, in un gruppo di umani è vantaggioso avere un ampio ventaglio di caratteristiche individuali, con alcuni più alti della media, altri più bassi, alcuni più forti e massicci, altri più veloci, come pure avere individui che metabolizzano meglio alcuni cibi, altri con una vista superiore alla media, o con un ottimo udito, o con un olfatto sensibile. Lo stesso vale per le caratteristiche psicologiche: alcuni individui possono essere più irruenti, altri violenti, altri emotivi, altri calmi, altri razionali. Non esiste una risposta unica ed ottimale a tutti i problemi, per questo è necessario generare e conservare un ventaglio di capacità e propensioni diverse.

Se le abilità di un singolo individuo sono definite dal suo personale patrimonio genetico, le abilità complessive del gruppo sono espressione del pool genetico collettivo. Quelle abilità particolari che nel gruppo risultino carenti, diventano oggetto di attrazione e desiderio sessuale nei confronti di membri di altri gruppi, portando di norma alla formazione di coppie fra individui appartenenti a diverse comunità.

Questo discorso vale anche per condizioni particolari, estreme e fortemente svantaggiose per i singoli individui, come possono essere i disturbi mentali, caratteriali o, limitatamente alla sfera riproduttiva, l’omosessualità. Nel momento in cui queste caratteristiche risultano in grado di procurare un vantaggio al gruppo, nonostante gli svantaggi derivanti ai singoli individui, esse vengono preservate all’interno del pool genetico (con una prevalenza ad esprimersi raramente).

In molti popolazioni native del Nord America, ad esempio, veniva riconosciuta una ‘doppia natura’ di alcuni individui, ossia il non essere così nettamente maschi o femmine (corrispondente a ciò che viene attualmente identificato con le etichette di omosessualità e transgender). Questi individui, anziché essere stigmatizzati o emarginati, come nelle culture coeve del Vecchio Mondo, venivano ritenuti più vicini alla realtà immateriale, al mondo degli spiriti, e finivano solitamente a svolgere la funzione di sciamani.

Nel ruolo di sciamani, sacerdoti o profeti potevano trovare spazi, status ed accettazione sociale perfino individui con disturbi mentali. Esistono condizioni fisiologiche, come l’epilessia del lobo frontale, che causano a chi ne soffre visioni mistiche perfettamente convincenti. Considerata l’importanza per una piccola comunità, in termini di collante sociale e capacità di resilienza, di convinzioni religiose riguardanti una realtà immateriale (comuni a tutte le comunità umane note, dalla preistoria ad oggi), risulta evidente come condizioni semi-patologiche possano essere state in grado, dato un particolare contesto, di generare vantaggi per le antiche comunità, ed essere perciò state preservate nel genoma attuale.

In linea di massima, una collettività comprendente individui con caratteristiche fisiche e mentali disperse su un ampio ventaglio di variabilità risulta più efficiente, compatta e capace di affrontare le difficoltà rispetto ad una composta da individui simili o del tutto identici. Questo discorso vale per tutte le forme viventi.

Un ambito dove risultano evidenti le conseguenze di una ridotta variabilità genetica sono le produzioni agricole industriali, dove la disponibilità di sementi più produttive di altre ha portato all’avvento delle monocolture. La coltivazione su più ettari di terreno di piante geneticamente identiche fa sì che le piante stesse siano tutte identicamente attaccabili da un medesimo parassita, portando alla perdita di interi raccolti laddove la variabilità naturale ne avrebbe salvato una parte, quella diversamente in grado di resistere ai predatori.

Tornando al discorso iniziale, da dove nasce l’idea che la ‘normalità’ sia una condizione talmente desiderabile da renderla un totem, al punto da volerla forzatamente estendere all’intera popolazione? Da quale bias cognitivo emerge il Bias Culturale, promosso da partiti di destra e da molti integralismi religiosi (entrambi IdeoCulture), che bolla tali ‘devianze’ come difetti da dover ricondurre nell’alveo di una non meglio definita ‘normalità’? Nel mio modello interpretativo, nel momento in cui vengono diffuse idee in contrasto con le evidenze fattuali è chiaramente in atto un ‘processo di inganno’ [2].

Una buona parte dei processi di inganno si fonda su paure irrazionali. Una paura profonda è quella di essere noi stessi dei ‘devianti’, o di poterlo diventare, o che possano diventarlo persone a noi care, che dipendono da noi, o dalle quali noi stessi dipendiamo. Questo è conseguenza del fatto che le ‘atipicità’ comportano un bagaglio di difficoltà per gli individui che ne sono portatori, e nessuno desidera aggiungere ulteriori problemi a quella che è già la normale fatica di vivere. Il fatto stesso che i caratteri ‘atipici’ vengano espressi nel pool genetico in percentuali ridotte evidenzia la difficoltà che essi generano agli individui che ne sono portatori, riducendone l’aspettativa di vita ed il successo riproduttivo.

La normalità, ossia l’assenza di una qualsiasi eccezionalità, rappresenta quindi una ‘comfort-zone’ all’interno della quale le persone trovano rifugio da un’esistenza che non manca di produrre fatica e stress. L’idea di perdere tale condizione privilegiata, o che ciò accada ad una persona cara (trascinando con sé, nel disagio, l’intero nucleo familiare), è una preoccupazione diffusa. Oltre al fatto che forme estreme di scostamento dallo standard possono ben rientrare nella casistica delle patologie.

Se la comparsa di individui portatori di caratteristiche atipiche e svantaggiose ci pare ingiusta, va considerato che i processi di selezione naturale non sono modellati da esigenze etiche. In natura si producono spontaneamente individui con caratteristiche differenti, ed è solo la maniera in cui queste specificità riescono ad adattarsi alla situazione contingente a dettare la sopravvivenza o meno, ed il successo riproduttivo, del singolo individuo. Questo processo, come abbiamo visto utile e necessario a livello di gruppi e specie, comporta che molte delle ‘eccezionalità’ che si generano spontaneamente finiscano col tradursi in insuccessi, non di rado con conseguenze tragiche per i singoli individui.

Ad aggiungere ulteriore complicazione c’è l’impossibilità di tracciare un confine netto tra le ‘eccezionalità’ destinate al successo e quelle che conducono a forme di autodistruzione. A seconda del contesto sociale, o culturale, in cui vengano a manifestarsi, determinate caratteristiche fisiche e/o mentali possono condurre all’ascesa sociale o alla prematura scomparsa. Forme di irrequietezza intellettuale possono sbocciare in un talento artistico apprezzato da molti, o in una leadership carismatica, con conseguente successo sociale o, per ragioni totalmente fuori dal nostro controllo, deviare verso l’abuso di sostanze psicotrope (alcol e droghe) e addirittura condurre al suicidio.

In conseguenza di ciò, oltre alla naturale fascinazione, esiste un istintivo ed irrazionale ‘fastidio’ nei confronti degli individui con caratteristiche di eccezionalità. Fastidio che si aggrava nel caso di tratti platealmente svantaggiosi, come le disabilità fisiche o mentali, stante il riflesso istintivo ed irrazionale a temere di perdere ciò che riteniamo parte integrante del nostro essere individui, ovvero la salute fisica e mentale. Su queste preoccupazioni ed insicurezze è relativamente facile modellare ed alimentare narrazioni collettive consolatorie (Bias Culturali), finalizzate ad guadagnare consenso popolare e ad ottenere potere decisionale.

Va poi considerato un ulteriore fattore di scala, generato dai processi di massificazione che hanno operato negli ultimi secoli. In una piccola comunità, il cui obiettivo è la sopravvivenza spicciola, ogni individuo trova il modo di rendersi utile, anche nella sua diversità. Per contro, in una comunità allargata e scarsamente differenziata le caratteristiche ‘eccezionali’ finiscono col generare più problemi che vantaggi, ai singoli ed alla collettività. Da ultimo, i processi industriali hanno contribuito a mettere in buona luce l’uniformità, in contrasto con l’eterogeneità.

A partire dalla rivoluzione industriale si è compreso come solo i processi ‘normalizzati’ consentano di generare i massimi livelli di produzione, attraverso le economie di scala. Costruire un singolo componente ha un costo che può essere quasi totalmente ammortizzato nel caso se ne producano migliaia, attraverso la realizzazione di processi standardizzati. Una singola vite può essere realizzata al tornio, da un operaio specializzato, e costerà in proporzione al tempo/persona richiesto. Una vite identica può essere prodotta in migliaia di copie da un macchinario (il cui costo finirà spalmato su un numero estremamente alto di esemplari, pressoché azzerandosi) ad un costo infimo, pari a poco più del valore del metallo di cui è composta.

Questi processi hanno inevitabilmente influito sulla nostra percezione del valore delle cose, che viene correlato ai metodi produttivi: ciò che viene fabbricato in serie, in copie tutte identiche, è ritenuto affidabile anche se offerto a prezzi molto bassi, perché questo è lo standard al quale l’industria ci ha abituati. Da qui a trasferire questo giudizio sulle persone il passo è breve: tutto quello che si discosti più di tanto dalla ‘norma’ viene considerato semplicemente ‘difettoso’, come se la natura (o Dio, per chi ci crede) commettesse errori nel tentativo di produrre, con uno stampino, individui tutti perfettamente identici.

Da notare che, in campagna elettorale, alle parole della destra contro le ‘devianze’, da parte opposta si è contrapposto uno slogan parimenti privo di senso, “viva le devianze”, anch’esso frutto di una visione totalmente ideologica delle relazioni umane, ma di segno contrario. Le caratteristiche ‘eccezionali’ devono trovare accoglienza nella collettività, ma tale accoglienza non può ignorare le difficoltà ad esse connesse che ricadono, spesso con conseguenze negative, sui singoli individui e sulla loro cerchia relazionale.

Il linguaggio della politica, inevitabilmente, tende a rispecchiare il generale livello di consapevolezza collettiva. In questo caso risulta sconfortante il grado di semplificazione veicolato nella narrazione pubblica rispetto a tematiche sociali gravi e persistenti, se non addirittura in via di aggravamento. Un ulteriore riflesso di quanto lontano sia il sentire comune rispetto alle evidenze fattuali da tempo acquisite nella letteratura scientifica.

Nello specifico, il disagio di vivere, che in ogni individuo si declina diversamente, è la causa prima su cui intervenire. Depressione, alcolismo, violenza, stili di vita autodistruttivi, ne sono gli effetti, descritti come ‘devianze’. Il disagio di vivere discende a sua volta dall’interazione tra la nostra natura individuale, biologica, genetica, ed il contesto in cui questa natura si esprime. Se la natura individuale, nel suo ventaglio di espressioni, risulta immodificabile, stanti i tempi lunghissimi dell’evoluzione biologica, è invece il contesto in cui ci troviamo a vivere ad essersi radicalmente alterato nel volgere di pochi secoli, in una progressione inarrestabile.

La sensazione è che esista una volontà collettiva, inespressa e probabilmente almeno in parte inconsapevole, di applicare alla nostra specie gli stessi criteri di produttività mutuati dallo sviluppo industriale. Persa la necessità, propria dei piccoli gruppi umani del lontano passato, di difendere ed integrare gli individui portatori di ‘diversità’, si procede a rimuovere le ‘devianze’ dal corpus sociale, attraverso lo stigma, la repressione o il carcere, in un processo del tutto analogo all’eliminazione degli scarti di produzione all’interno di un processo industriale.

Veicolare, nella comunicazione collettiva, l’idea che occorra intervenire unicamente sugli effetti, le cosiddette ‘devianze’, scegliendo bellamente di ignorare le cause a monte, appare come un’operazione puramente demagogica: l’alimentazione di un Bias Culturale in chiave di puro opportunismo.

Esistono al contrario cause prime passibili di intervento, come l’organizzazione abitativa e sociale, le modalità relazionali e l’influenza dei vettori culturali, sempre più nelle mani dei grandi potentati economici, a differenza delle cause nel complesso ineliminabili, perché scritte nel nostro DNA collettivo, nel nostro bagaglio di biodiversità.

Questa consapevolezza dovrebbe portarci a ripensare l’intera organizzazione sociale e collettiva, a rimettere al primo posto i bisogni umani, schiacciati da un processo che ci sta progressivamente trasformando in automi. Un processo di massificazione e livellamento che, nel generare profitti astronomici, procede ad alimentare una narrazione collettiva mendace ed ottundente, tesa a sopraffare le nostre individuali, limitate, capacità intellettive.


1 – Meu amigo Charlie Darwin

2 – Competizione, cooperazione e inganno

Siamo nei guai

Universo 25” [1] è il nome dato dal prof. John B. Calhoun ad un famoso studio di etologia condotto all’inizio degli anni ‘60. L’esperimento consisteva nell’osservare le dinamiche di una colonia di topi inseriti in un habitat ‘ideale’ (le virgolette sono d’obbligo), privo di predatori e con cibo e spazio a volontà. L’habitat era teoricamente in grado di ospitare diverse migliaia di individui, ma non raggiunse mai la saturazione teorica: dopo archi di tempo più o meno lunghi la popolazione al suo interno finiva sistematicamente col degenerare ed estinguersi.

Calhoun provò a dare diverse interpretazioni ai risultati della sua ricerca, arrivando a coniare la definizione di ‘Fogna del comportamento’ [2]. I risultati non mancarono di lasciare un’impronta nella cultura popolare, ispirando diversi romanzi di fantascienza sociologica, da uno dei quali fu tratto il film ‘Soylent Green’, uscito in Italia col titolo ‘2022: i sopravvissuti’ [3], ambientato nell’anno in corso (anche da questo credo dipenda il fatto che ne torni a parlare proprio adesso [4]).

Il declino e relativo collasso delle colonie dell’esperimento è stato attribuito a diversi fattori, ed analizzato sotto diversi approcci, principalmente legati alle scienze sociali. Non ho approfondito più di tanto la letteratura in materia, ma nessuna tra le spiegazioni trovate fin qui chiama in causa l’assenza di predatori all’interno dell’habitat artificiale.

La funzione complessiva dei predatori negli ecosistemi sembrerebbe non pienamente compresa. Ho avuto modo, nei mesi scorsi, di visionare un documentario sul ‘Fattore Paura’ [5], connesso alla presenza di predatori. Il documentario descrive come sia stato necessaria la reintroduzione di uno specifico carnivoro (il licaone), in una riserva naturale africana devastata da decenni di guerre, per riequilibrare una popolazione di antilopi d’acqua fuori controllo.

Si è osservato come la presenza dei predatori influenzi a più livelli i comportamenti delle specie predate. Nello specifico, le antilopi che si erano spinte a pascolare nelle pianure, decuplicando la popolazione rispetto alla situazione pre-bellica, con la ricomparsa dei licaoni sono tornate a nascondersi nelle boscaglie. Questo ha influito sia sulla dieta che sulle abitudini riproduttive della specie predata, portando ad una riduzione della popolazione molto maggiore di quella dovuta ai semplici abbattimenti.

Da questa prospettiva, l’esclusione dei predatori dall’esperimento “Universo 25” appare come uno dei principali fattori di squilibrio nei comportamenti dei roditori. L’assenza di predazione ha portato all’emergere di profili comportamentali diversi da quelli selezionati in natura, operando una selezione patologica degli individui, in ultima istanza premiando caratteristiche indesiderate che hanno finito col portare la colonia all’estinzione.

La conclusione finale è che nessuna specie vivente esiste ‘a sé stante’, indipendentemente dal contesto ecosistemico. Ogni individuo, e ancor più ogni specie, esiste come parte dell’ecosistema, come tassello di un mosaico più ampio, all’interno del quale svolge il proprio ruolo. L’alterazione del contesto, l’eliminazione di significative forzanti esterne, genera una condizione in cui il ruolo svolto viene a mancare, e assieme al ruolo viene a mancare la necessità per la specie di esistere. L’evoluzione si occupa poi di rimuovere la specie inutile dall’equazione complessiva.

Se osserviamo quanto messo in atto nei secoli dalla nostra stessa specie, non possiamo evadere uno spiacevole presentimento. Fin dagli albori della storia umana abbiamo fatto il possibile per contrastare la predazione, divenendo di fatto noi stessi il predatore apicale degli ecosistemi planetari. Questo ha influito sulla selezione naturale, dirottandola verso una selezione artificiale ed alimentando un processo di auto-domesticazione [6].

Inevitabilmente, l’assenza di predazione sta modificando l’evoluzione della nostra specie. Il trasferimento in habitat sempre più artificiali, l’adozione massiva di abitudini lavorative ripetitive, il sistematico stravolgimento delle modalità sociali, sta finendo col produrre un’umanità totalmente disconnessa da qualsivoglia contesto ambientale naturale.

E, come abbiamo visto, al cessare di una specifica funzione ecosistemica finisce con l’esaurirsi la necessità che una specie esista, col risultato di innescare processi evolutivi degenerativi che, in ultima istanza, ne causano l’estinzione.

Immagine da Wikimedia Commons

[1] – Universo 25

[2] – Fogna del comportamento

[3] – 2022: i sopravvissuti

[4] – Negli anni ’70 l’esperimento “Universo 25” ha mostrato che la nostra società è destinata al collasso – THE VISION

[5] Nature’s Fear Factor

[6] – Domesticazione umana

Competizione, cooperazione e inganno (contenimento)

(quarta parte di una riflessione iniziata qui)

La funzione di contenere la diffusione dei comportamenti auto-competitivi nelle esatte proporzioni capaci di avvantaggiare il gruppo senza comprometterne l’efficienza viene svolta per mezzo di uno stigma sociale condiviso. I partecipanti al gruppo condividono una soglia di tolleranza che non deve essere superata. Al di sotto di tale soglia una moderata quantità di comportamenti auto-competitivi è tollerata, al di sopra scatta il biasimo collettivo dell’individuo o del gruppo responsabile.

Essendo le organizzazioni umane diverse e molto complesse, non esiste una soglia univoca ma unicamente una convergenza comportamentale in direzione di tale soluzione. Culture diverse metabolizzano e stigmatizzano in modi differenti i comportamenti auto-competitivi.

In alcune culture è presente una elevata tolleranza alla competizione sul piano fisico, al bullismo ed alla conseguente sopraffazione, e sono tipicamente le culture più aggressive verso l’esterno. Queste culture risultano, per contro, meno tolleranti nei confronti delle forme di inganno esercitate fra membri della stessa comunità.

In questa categoria rientrano le IdeoCulture [1] militari, dagli imperi dell’antichità ai moderni fascismi, nelle quali l’esaltazione della competizione e della violenza reciproca, fra individui come fra nazioni, fa da contraltare a continui richiami all’integrità morale, al rispetto delle regole, delle leggi e delle tradizioni.

Simmetricamente, le culture che basano il proprio successo sull’astuzia, esercitata nei confronti di soggetti esterni alla propria cerchia relazionale, sono anche più tolleranti riguardo all’esercizio dell’inganno fra i propri membri ma hanno, per contro, una bassissima tolleranza per i comportamenti aggressivi e violenti.

In questa categoria rientrano le IdeoCulture mercantili, che traggono il massimo vantaggio dal coltivare processi di fiducia finalizzati all’asservimento ed alla domesticazione collettiva. Un’IdeoCultura mercantile massimizza i propri vantaggi quando riesce a mediare tra comunità pacifiche che lavorano a produrre tipologie diverse di risorse, ed a guadagnare nello scambio.

Le due forme di auto-competizione appaiono in questo senso auto-escludenti: l’evidenza di una competizione sul piano fisico inficia la possibilità di sviluppare anche una competizione sul piano intellettivo (inganno), perché un individuo/gruppo consapevole di essere coinvolto in dinamiche di sopraffazione di tipo fisico sarà più difficile da ingannare.

Il terzo tassello del quadro che vado costruendo lo individuo in questa forma di reciproca auto-esclusione. Ricapitolando, i comportamenti ‘auto-competitivi’ nei gruppi umani possono definirsi:

– intrinseci, perché funzionali all’efficacia del gruppo stesso [2]

– modellati attraverso forme di stigma sociale

– necessariamente minoritari, perché potenzialmente dannosi [3]

– auto-escludenti, perché reciprocamente incompatibili

Ora non mi resta che estendere il quadro interpretativo alle dinamiche tipiche delle relazioni tra IdeoCulture, arrivando ad una miglior definizione dei processi di manipolazione reciproci e del ruolo svolto dai meccanismi di inganno.

(continua)


[1] – L’ascesa delle IdeoCulture

[2] – Competizione, cooperazione e inganno (origine)

[3] – Competizione, cooperazione e inganno (preponderanza)

Raduno nazista (da Wikimedia Commmons)