Da diversi mesi ho abbandonato l’abitudine di scrivere sul blog di tutti i libri che vado leggendo. Dapprima per via di alcuni lavori mediocri o non particolarmente entusiasmanti, poi per definitiva perdita della motivazione. In fondo, a cosa serve che aggiunga le mie considerazioni in calce a libri che chiunque può benissimo leggere e giudicare da sé?
In questo caso, tuttavia, farò un’eccezione, perché il libro in questione è pressoché irrintracciabile, essendo stato pubblicato per l’ultima volta nel 1977 in una collana da edicola (Urania – Mondadori) e da allora mai più riproposto. Probabilmente nemmeno la copia in mio possesso fu acquistata al momento dell’uscita, ma proviene con molta probabilità dagli scaffali delle bancarelle lungamente frequentate nel corso dell’adolescenza.
Da accanito divoratore di narrativa fantascientifica ero infatti un habitué di rivendite di libri usati dove potevo recuperare i lavori di autori che non godevano il privilegio di una pubblicazione “da libreria”, e finivano con l’essere in breve tempo introvabili (salvo sperare in future ristampe).
Di quell’epoca, legata ai miei solitari anni giovanili, conservo inevitabilmente un ricordo romantico. Nascosti in fondo ad un armadio ho ancora centinaia di copie dei Romanzi di Urania pubblicati negli anni ’70 ed ’80, quando le uscite erano addirittura ogni due settimane (parliamo di ventisei pubblicazioni l’anno… non tutte appetibili, a dire il vero).
In mezzo a molta paccottiglia si potevano portare a casa romanzi di Philip K. Dick, Ursula Le Guin, James G. Ballard, autori che avrebbero trovato una consacrazione nella cultura “alta” solo molti anni dopo. E soprattutto moltissimi autori minori ed ormai dimenticati, tra i quali appunto L. P. Davies.
Ricordo che la lettura di “Psicospettro” mi appassionò molto, sebbene rovinata da un inatteso incidente di percorso: nel riposizionare il segnalibro (probabilmente poco prima di cedere al sonno, dato che ero, e sono ancora, solito leggere la sera prima di addormentarmi) commisi l’errore di posizionarlo alcune decine di pagine più avanti, col risultato di saltare un pezzo dello svolgimento della vicenda, e di rendermene conto solo una volta giunto alla fine del racconto.
A quel punto cercai di rileggermi anche la parte mancante, ma la storia ormai svelata aveva perso ogni suspence. In parte per rimediare a quel pasticcio, ed in parte perché ne avevo un buon ricordo, pochi giorni fa ho rimesso mano al libro (nonostante mantenessi abbastanza netta la memoria delle vicende narrate) per vedere se conservasse ancora, tra le pagine ingiallite, l’antica fascinazione.
Il sottogenere di appartenenza del plot può essere definito fanta-horror: un personaggio con problemi di schizofrenia e poteri telecinetici (spostamento di oggetti e simili) vive uno sdoppiamento di personalità letterale: la sua seconda identità lascia il corpo originario per andare ad occupare quello di un altro individuo recentemente deceduto, ed in questo stato di transfert vive la proiezione di una vicenda narrata in un vecchio fumetto di fantascienza.
Un po’ racconto di zombi (ante litteram), un po’ thriller fantascientifico, in un crescendo di situazioni inspiegabili e macchinari dal funzionamento mirabolante (alimentati dall’energia psichica della personalità schizoide) la minaccia viene infine affrontata e debellata in una landa desolata, dove in seguito non resterà traccia degli avvenimenti, se non nei ricordi dei protagonisti.

Duole dirlo, ma a rileggere questo libro l’ho trovato meno che mediocre, come vedere un vecchio B-movie in bianco e nero degli anni ’50 girato da Ed Wood. Non mi sento di infierire nei confronti di uno scrittore che sicuramente non aveva pretese artistiche, limitandosi a confezionare narrativa di puro intrattenimento, ma la delusione rimane cocente perché si proietta su un intero segmento di narrativa popolare che mi ha accompagnato per lungo tempo.
E’ dunque questo il “ghetto culturale” da cui Philip Dick tentò inutilmente di evadere in vita: libercoli per lettori di poche pretese, pressoché privi di approfondimento psicologico dei personaggi, capaci di evadere dalla piattezza del quotidiano solo per mezzo di fantasie roboanti, stereotipate ed implausibili. Un tratto comune alla cultura “pop” passato direttamente da un veicolo di intrattenimento ad un altro, dalla narrativa al cinema.
Cosa ce ne faremo di tutti questi sogni improbabili di epoche ormai lontane? Di questi scenari da guerra fredda ormai improponibili? Di queste vicende immaginarie buone solo a riempire volumetti di consumo leggero, da edicola appunto? Non so, temo nulla.
Per quanto duro possa essere recidere il cordone ombelicale con le mie fantasie giovanili, pure non riesco più a trarne nutrimento. In cambio di una maturazione personale sicuramente apprezzabile ho perso qualcosa che probabilmente non riavrò più: un altro pezzo della mia giovinezza. E dovrò adattarmi a farne a meno.