
Questo è ciò che resta della “ciclabile abusiva” nel tunnel di Santa Bibiana dopo la cancellazione operata (con estrema solerzia) dagli agenti della Polizia Municipale. La cosa più interessante che si evince già dalla foto è che gli automobilisti continuano a non occupare quello spazio, principalmente perché non ne hanno alcuna necessità.
Sotto Santa Bibiana si è consumato il primo scontro di una guerra che si presume lunga e sanguinosa tra i cicloattivisti romani e l’amministrazione cittadina. I primi fermamente intenzionati ad operare una trasformazione rapida ed efficace del tessuto urbano, i secondi interamente occupati ad ostacolarli e preservare uno status quo insostenibile.
La causa prima di questo scontro sta in una evoluzione culturale intervenuta in tempi recenti. Una trasformazione nel modo di interpretare il rapporto tra biciclette e territorio urbano che ha interessato solamente una delle parti in campo: i ciclisti.
Mentre il mondo del cicloattivismo maturava, sulla pressione delle necessità di sopravvivenza immediate, una nuova visione rispetto alle modalità d’intervento sul tessuto urbano, i burocrati comunali sono rimasti abbarbicati su soluzioni intempestive, inefficaci e stantìe.
Ogni cambiamento di paradigma, nella storia umana, ha sempre richiesto tempi lunghi di elaborazione e metabolizzazione, e quasi sempre ha prodotto conflitti prima di affermarsi definitivamente. Quest’ultimo non fa eccezione. Di cosa si tratta, dunque?
A monte di tutto c’è il dato incontestabile che la bicicletta è, a tutti gli effetti, un veicolo che non ha alcun impedimento a circolare sulle strade. Il principale limite alla sua diffusione sta nella sensazione di insicurezza che si prova nel condividere le sedi stradali con un traffico veicolare spesso caotico, disordinato ed aggressivo.
La prima questione da affrontare consiste perciò nella moderazione delle velocità di punta e dei comportamenti illegali degli automobilisti più che nella realizzazione di piste ciclabili in sede propria, maggiormente indicate in contesti urbani a “ciclabilità evoluta” caratterizzati da un traffico di bici intenso. Pretendere di inserire questo tipo di infrastrutture relativamente invasive in un contesto sociale che non ne abbia ancora maturato l’esigenza pone di fronte a un rischio concreto di “crisi di rigetto”.
Questi due orientamenti, tuttavia, si contrappongono ormai da diverso tempo rappresentando le istanze di diverse tipologie di ciclisti, rappresentati anche nella letteratura tecnica come “lepri” e “tartarughe”. Il ciclista “lepre” preferisce muoversi in velocità sulla sede stradale, il ciclista “tartaruga” predilige passeggiare tranquillamente sulle ciclabili in sede propria. Nessuna di queste due tipologie risulta al momento numericamente dominante.
La nuova “vision” scaturisce dalla constatazione che il tessuto urbano è in sé fortemente disuniforme, alternando vie residenziali a sezione ridotta (che comportano un traffico locale lento e prevalentemente in cerca di, o in uscita da, parcheggi) con arterie trafficate e veloci. Laddove il tessuto urbano presenti una fitta rete di strade secondarie i ciclisti (sia lepri che tartarughe) possono muoversi in relativa sicurezza. Al contrario, nei punti in cui questo tessuto perde di continuità i ciclisti finiscono ad essere esposti ai maggiori pericoli.
Il caso specifico di Santa Bibiana è stato esaminato nel dettaglio in un precedente post mentre per l’analisi complessiva sull’organizzazione urbana rimando alla serie di interventi intitolati “Ripensare la ciclabilità urbana”. Consiglio, se possibile, di leggere entrambi questi link per avere un quadro completo della situazione.
(anche se può sembrare che sia in gran parte farina del mio sacco, queste riflessioni devono moltissimo al lavoro di progettazione e divulgazione di Matteo Dondé e Alfredo Drufuca, ed alla corrente di pensiero che prende il nome di “Mobilità Nuova”)
Riducendo la questione ai minimi termini, le due opposte visioni che si contrappongono propugnano l’una una rete di corridoi ciclabili tale da innervare capillarmente la città, l’altra la soluzione di situazioni di crisi spazialmente localizzate e l’utilizzo dell’intero tessuto viario a discrezione dei ciclisti. Piste ciclabili chilometriche vs. sistemazione di passaggi pericolosi.
Chiaramente questi due approcci sono antitetici. La realizzazione di una rete di piste ciclabili in sede propria, con tutto il suo portato di problematiche relative alla cattiva accoglienza da parte dei residenti, richiede tempi lunghissimi, finanziamenti, gare d’appalto… ed in negativo impone ai ciclisti percorsi fortemente obbligati, che non sempre calzano con le esigenze individuali.
L’individuazione e risoluzione delle “criticità”, dal canto suo, è relativamente semplice una volta compreso come è strutturato il tessuto urbano, ha fasi di progettazione e cantierizzazione molto più leggere ed è in grado di operare una riconnessione ciclabile fra quartieri adiacenti molto più rapida ed efficace.
Sicuramente quando il numero dei ciclisti in città avrà raggiunto una soglia critica diventeranno necessari interventi più radicali, costosi ed invasivi, e la rete di corridoi ciclabili diventerà una necessità ben accolta dalla popolazione, ma fino a quel punto occorre lavorare a costruire una fruibilità complessiva del tessuto urbano.
Santa Bibiana ha dimostrato che si possono mettere in comunicazione due quartieri confinanti, in meno di un’ora, con solo una mano di vernice ed un po’ di buona volontà. Un messaggio troppo radicale per chi ha passato tutta la vita ad immaginare come stravolgere arterie stradali consolidate, per chilometri, con corsie ciclabili del tutto sovradimensionate all’utenza attuale.
Su questo terreno si consuma ad oggi lo scontro. Siamo convinti che il buonsenso alla fine prevarrà, ma non è possibile stabilire quando ciò avverrà. Speriamo che la nostra nuova santa protettrice si muova ad illuminare le coscienze della controparte.
