(No)auto-ritratti

Il crescente interesse sviluppatosi intorno al mondo della bicicletta ha dato vita, sul web, a diversi spazi che esplorano ed analizzano questo tema. Una delle modalità è la “galleria di ritratti”, in cui si raccontano le esperienze di diverse persone ed approcci. Non saprei dire quanto inevitabilmente, ma anche il sottoscritto è finito nel “mucchione” (in ottima compagnia, devo dire).

Il primo a chiedermi una “narrazione” è stato Paolo, per il sito Senz’auto. La sua galleria riguarda persone che hanno scelto di non possedere un’automobile. Gli ho fatto presente che il mio “non possederla” è solo un dato tecnico, dal momento che uso (poco) quella di mia moglie, ma il ritratto gli è parso ugualmente significativo.

A breve distanza mi ha contattato Francesco, che gestisce una web-tv. In questo caso l’intervista verteva più su un ritratto a 360° della mia storia e delle esperienze a cui ho partecipato, con l’esplicita richiesta di un aneddoto che raccontasse un po’ chi sono. Una sorta di curriculum vitae ciclistico che ho compilato forse troppo sinteticamente.

Le “interviste” finiscono qui? Non lo so. Personalmente preferisco guardare avanti, lavorare agli obiettivi a breve e lungo termine, non fermarmi a contemplare il passato. Anche perché, quando mi giro indietro, come a metà di un’arrampicata, ho le vertigini!

Storia di una casa

Il lavoro di digitalizzazione di vecchie foto, da poco ripreso, mi sta rimettendo in contatto con pezzi del mio passato estratti a caso, man mano che procedo ad aprire scatoline di diapositive. La maggior parte sono riprese architettoniche nelle quali mi dilettavo tempo addietro, e che oggi trovo sostanzialmente inutili, diverse sono foto di uscite e viaggi in bicicletta, in rari casi si tratta di reali passaggi chiave della mia vita.

Le foto che mi sono da poco ricapitate per le mani raccontano la casa di Pianello prima della sua ristrutturazione. Sono state probabilmente scattate nell’estate del 1999 (erano in coda ad altre foto di un viaggio in Austria effettuato quell’anno) e rappresentano la testimonianza di una decisione importante.

Pianello di Cagli è il paese natale di mia madre, dove vivono ancora le sue sorelle e la maggior parte dei nostri cugini. E’ il luogo dove, fin da bambini, passavamo le vacanze estive, quello dove io e mia sorella abbiamo sviluppato la maggior parte dei legami affettivi familiari.

Passavamo le estati ospiti nella casa dei nonni, un edificio molto antico e rustico, fresco d’estate quanto gelido d’inverno, nel borgo antico del paese. La casa rimase in esercizio fino alla scomparsa di mia nonna Caterina, dopodiché restò in attesa dell’esecuzione della spartizione delle diverse eredità fra i cinque figli: campi, collinette, stalle, un fienile ed una casa totalmente diroccata persa in mezzo al nulla.

L’intenzione di mio padre era di acquistare dall’erede designato (nel caso non fosse toccata a mia madre) la casa della nonna, per ristrutturarla… ma la vicenda minacciava di andare per le lunghe. Nel mentre gli fu diagnosticata una brutta malattia, cosa che spinse gli eventi in una direzione diversa.

In quell’estate del ’99 i miei genitori stavano valutando due alternative: costruire una casa ex-novo fuori dal paese o ristrutturarne una esistente nel borgo storico. Col progressivo allontanamento dei giovani molte case antiche erano rimaste disabitate ed in teoria disponibili, ma con l’inevitabile esigenza di drastici lavori di ristrutturazione.

Essendo praticamente cresciuto nel “borghetto” l’idea di costruire una casa ex-novo lontano da lì non mi entusiasmava, oltre alla riluttanza ideologica data dall’idea di abbandonare edifici vecchi per fabbricarne altri. Oltretutto, vista la non giovanissima età dei miei genitori, sia io che mia sorella preferivamo saperli a poca distanza dai parenti.

L’occasione che si presentò era quella di una casa totalmente da ristrutturare, poiché abbandonata da più di vent’anni dopo lavori lasciati a metà che l’avevano resa ancor più inabitabile di prima, e tuttavia in una collocazione perfetta per la rete sociale dei miei genitori. I quali, per l’appunto, mi chiesero di valutare se fosse il caso di prenderla per sistemarla o piuttosto lasciar perdere e cercarne un’altra.

Ricordo che presi la cosa molto sul serio, ci portai dentro una sedia ed una alla volta mi sedetti in tutte le stanze cercando di immaginare come avrebbero potuto diventare una volta sistemate. Nel dubbio di non riuscire a farmi da subito un’idea precisa, decisi di documentare fotograficamente ogni singola stanza.

Dopo i primi scatti pensai che una presenza umana nelle foto sarebbe stata utile a rendere più evidenti le proporzioni e gli spazi, così inclusi me stesso nelle foto. Il risultato è bizzarro, a metà tra una serie di scatti architettonici ed una galleria di autoritratti, con una percettibile vena di ironia.

La struttura stessa della casa, tuttavia, pareva non avere alcun senso. Al pianterreno sussistevano cinque locali, con ben tre porte d’ingresso. Il primo era probabilmente un uso cucina, dato che vi stazionavano antichi elettrodomestici, dotato di ingresso indipendente.

Il secondo un semplice corridoio che da una seconda porta di ingresso conduceva alle scale che salivano ai piani superiori e collegato al primo ambiente da una porta laterale.

Le altre due “stanze” che al pianterreno affacciavano sulla strada erano probabilmente il risultato, abbastanza disastroso, di lavori di ristrutturazione ed ampliamento che avevano portato a filo la facciata dell’edificio, colmando un vuoto sul quale affacciava una cantina/magazzino.

Questo lo deduco dalle travature in metallo, diverse da quelle in legno del resto della casa. Nel vano a sinistra era ricavato un orribile bagno (probabilmente non preesistente nell’edificio), in quello a destra un lavatoio ed una terza porta di accesso.

Proiettata verso l’interno del blocco di edifici (la casa è “di spalle” ad un’altra) l’antica cantina/magazzino, con appoggiate all’interno travi, damigiane e vecchie botti marcite, cui la “chiusura” posticcia aveva tolto anche l’ultimo barlume di luce.

Quindi la rampa di scale che conduce al primo piano, dove sono presenti altri tre locali.

il primo una ex camera da letto, con finestra che dà sulla facciata.

Il secondo l’equivalente del rifacimento del pianterreno, con una tripla finestra messa a distanze tali che non era possibile aprire completamente le persiane né le vetrate, perché sbattevano le une sulle altre (nella foto il soffitto sembra spiovente, ma è un effetto ottico prodotto dal grandangolare estremo utilizzato)

Qui ho scattato due foto, questa è ripresa dal lato opposto.

Questo è il terzo ed ultimo locale, sovrastante la vecchia cantina, anch’esso poco illuminato a causa della creazione del locale precedente. Si vede sul lato sinistro uno sgabuzzino, presente su tutta la colonna di stanze. Di fronte a me, fuori dall’inquadratura, c’era un vecchio camino.

Nello stesso ordine, al secondo piano si ha una stanza da letto con finestra sulla facciata identica per dimensioni a quella sottostante.

Una terrazza ancora ingombra di calcinacci, mattoni e materiale edile vecchio di vent’anni e senza ringhiera.

La seconda stanza da letto, stavolta illuminata dalla porta finestra che affaccia sulla terrazza

E l’ennesimo stanzino/sgabuzzino posteriore.

Quindi un’ultima rampa di scale, interrotta a metà, che in maniera molto fortunosa conduce ad una soffitta al terzo piano.

Locale molto ampio, anche se col soffitto che da un lato si abbassa fino ad un metro da terra, illuminata da una minuscola finestra sul lato più basso.

Anche qui ho scattato due foto, questa è dall’altro lato della stanza. Alle mie spalle la porta che conduceva ad un ulteriore locale collocato al di fuori dello sviluppo dell’edificio, in pratica sopra la casa retrostante.

A conclusione del fotoreportage una vista della facciata prima dei lavori (con mia madre davanti a quella che è rimasta, ad oggi, l’unica porta di accesso).

Da subito mi vennero diverse idee, prima fra tutte quella di aprire la stanza posticcia con le tre finestre sul lato anteriore per ricavarne una terrazza coperta. Mi è sempre piaciuto starmene seduto al coperto a guardare la pioggia cadere, ed inoltre era l’unico modo di ridare almeno un po’ di luce al locale posteriore.

Al piano terra, invece, si sarebbe dovuta realizzare la “zona giorno”, abbattendo la parete interna del corridoio d’ingresso, trasformando la prima porta in una finestra e l’intero locale in una sala da pranzo.

Anche l’altra coppia di locali avrebbe dovuto essere accorpata in un unico spazio destinato a diventare una cucina, e collegato al primo da un passaggio senza porta, mentre la ex cantina poteva diventare un salottino con divano, trasferendo in basso il caminetto al primo piano.

Ma il problema più grosso rimaneva la sistemazione dei bagni. Realizzarli negli “sgabuzzini” avrebbe significato averli all’interno delle stanze su un solo lato, inagibili per gli occupanti degli altri locali. Per risolvere questo problema mi ha aiutato molto avere una visione tridimensionale dell’edificio.

La soluzione è consistita nel chiudere le porte di accesso dal lato delle stanze, demolire i solai e portarli al livello dei pianerottoli e realizzare le porte di accesso direttamente da questi ultimi, a metà delle scale. in questo modo la casa ha avuto a disposizione due bagni, uno a metà tra il piano terra e il primo piano, l’altro esattamente sopra.

Anche la mansarda è diventata una locale abitabile, con un terzo bagno suo proprio ed illuminata da due lucernari, raggiungibile dalla scala una volta prolungata fino al muro di fondo, con un piccolo pianerottolo finale. La stanza in più è stata venduta ai proprietari della casa sottostante.

In conclusione, al termine di costosi lavori di ristrutturazione, è diventata una casa molto ampia e vivibile, di cui mi restano due grandi rincrescimenti. Il primo è non aver pensato a realizzare una terrazza al livello della mansarda, che ci avrebbe regalato una vista impareggiabile sull’intera vallata, ora godibile solo dal lucernario (ma non escludo, prima o poi, di rimetterci mano).

Il secondo, più grande, è che mio padre non abbia potuto godersi appieno il frutto di tanto laborioso impegno, stroncato dalla malattia a lavori quasi completati. Chi se la gode davvero, oltre a mia madre per tutta l’estate, è la nuova generazione: i tre figli di mia sorella che, come noi un quarto di secolo prima, non vedono l’ora che torni l’estate per andare a stare lontano dalla città e dal traffico.

Doppio tuffo nel passato

Un vecchio computer, prestato anni fa ai miei suoceri, da pochi giorni ha definitivamente tirato le cuoia. Nel corso dei diversi tentativi effettuati per tentare di farne almeno una macchina in grado di navigare in rete ho scoperto, praticamente nascosta in fondo alla motherboard, una scheda SCSI.

Per i molti che non lo sapranno, SCSI è un formato di trasmissione dati usato in passato per hard disk e periferiche altamente performanti, attualmente caduto nell’oblio. Il motivo per cui questa schedina PCI mi è parsa subito così importante consisteva nel fatto di poter rendere nuovamente funzionante un vecchio scanner per diapositive, anch’esso da anni a far la polvere sulla mia “scrivania di casa”.

Sono stato affascinato dalla fotografia fin dall’adolescenza e, nell’arco di tempo che va dall’acquisto della mia prima fotocamera (avvenuto al volgere dei diciott’anni) al momento del passaggio al digitale, ho scattato letteralmente migliaia di immagini, da principio prevalentemente su negativo in bianco e nero (che sviluppavo e stampavo in casa), poi su diapositive a colori.

Consapevole dell’importanza delle tecnologie informatiche nel ridar vita e rendere fruibili questi “ricordi” avevo acquistato uno scanner per film, in grado di digitalizzare i miei vecchi scatti effettuati su pellicola. Purtroppo il lavoro di acquisizione si arrestò ben presto, per motivi diversi.

In primo luogo l’acquisto di un’ottima fotocamera digitale mi aveva proiettato in una dimensione fotografica del tutto nuova, poi il passaggio ad un MacBookPro (Apple) aveva ridefinito la mia idea di utilizzo del computer per l’elaborazione delle immagini. In breve il vecchio scanner (per le vecchie dia) seguì la sorte del vecchio PC (il Mac non disponeva di una porta SCSI…) e finì temporaneamente dimenticato.

Altre considerazioni ne decretarono l’abbandono per quasi un decennio. Impossibilitato a collegarlo al Mac dovetti attendere l’arrivo di un altro PC. Nel frattempo la scheda SCSI originale Canon necessaria per farlo lavorare in ambiente Windows era andata smarrita, e quella che avevo sul vecchio PC era compatibile solo con l’ambiente Linux, che però aveva problemi a gestire la tastiera wireless (Bluetooth).

Di fatto, per un motivo o per l’altro, lo scanner non fu più usato. La svolta si è avuta un paio di giorni fa quando, recuperato la scheda SCSI, mi è partita la fantasia di riportarlo in vita. Armeggiare con hardware tanto datato è un po’ una cosa da vecchi stregoni, ma la scommessa mi tentava troppo.

Per prima cosa ho provveduto ad inserire la scheda nel nuovo PC, non senza qualche timore. E’ vero che il protocollo PCI è tutt’ora supportato (di malincuore, visto che la nuova motherboard ha solo due slot contro le sei/sette di quelle più anziane), ma l’esperienza mi ha insegnato che tutto quello che va ad inserirsi su una macchina funzionante rischia di renderla instabile.

Una volta inserita la schedina e riavviato Windows7 c’è stata la spiacevole scoperta di ritrovarla “non supportata”. Le modifiche periodiche al sistema operativo richiedono infatti un aggiornamento dei protocolli di interfaccia fra software e hardware, i cosiddetti “drivers”, che nel caso di hardware vecchio e fuori mercato non ha commercialmente senso fare.

Inutile insistere, mi sono reso conto che alla stessa maniera lo stesso scanner non sarebbe stato più supportato col nuovo OS. Per farlo funzionare sarebbe servita un’intera macchina con su Windows XP, o qualcosa di ancora più vecchio.

L’unica chance, prima di abbandonare l’idea, consisteva nell’installazione di un OS alternativo “in parallelo” a Windows: ovviamente Linux. Questo è stato il primo tuffo nel passato: rimetter mano ad un sistema operativo col quale avevo familiarità un decennio addietro ed avevo poi abbandonato preferendo passare il tempo ad utilizzare il PC anziché a litigarci.

Linux, rispetto a Windows e MacOS, ha la particolarità di non essere un progetto commerciale ma un OS “open source”, a codice aperto. Questo fa sì che la proprietà del software sia diffusa, e le logiche sottese alla sua crescita differiscano profondamente da quelle dei sistemi legati ad un’ottica di profitto, ivi incluso il mantenimento di funzionalità legate ad apparecchiature fori mercato.

In soldoni, se a Microsoft o a Canon non interessa che io continui ad utilizzare uno scanner vecchio (o un plotter, o una stampante), puntando sulla vendita di macchine nuove ed in qualche maniera rendendola necessaria, agli sviluppatori di Linux interessa invece che il loro OS possa dialogare con qualsiasi sistema informatico, passato e presente.

Dunque Linux, scaricato… installato (senza partizionamento dell’HD, anche se più in là mi piacerebbe dargli una sistemazione più stabile e definitiva)… avviato… solito problema con la tastiera Bluetooth! Solo che stavolta a farne le spese è stata la tastiera, prontamente sostituita con una tradizionale non wireless.

Quindi il software di acquisizione (Vuescan, in una release senza limitazioni), pazientemente messo da parte un decennio addietro, non vuole più funzionare. Telefonata ad un amico smanettone che mi suggerisce di utilizzare il software “free” di default per la gestione degli scanner (SANE). Lo avvio, cerca lo scanner, lo trova e… Bingo! …lo mette in funzione!

Non so spiegarvi l’emozione di far ripartire un attrezzo rimasto inutilizzato per tanto tempo. E’ un po’ come in quei vecchi film horror degli anni ’50 in cui la mummia del faraone emerge polverosa dal sarcofago per tornare in vita. Estraggo da un altro “sarcofago” un po’ di scatolette di diapositive a caso e comincio a digitalizzarle.

Questo è il secondo tuffo nel passato, un passato ancora più remoto, precedente i computer, le biciclette ammortizzate, la mia vita presente e quella recente. Ricordi seppelliti per vent’anni o più rimettono in funzione neuroni addormentati e mi trascinano indietro nel tempo, incredulo.

Ero io questo qui?

Andavamo davvero in giro per le montagne con quei buffi caschetti, i K-way, i maglioni di pile e le mountain-bike rigide coi freni a cantilever?

Sono perplesso. Che altro ancora potrà uscir fuori dal vaso di Pandora una volta scoperchiato? Emergerà qualche strano mostro a ghermirmi? Non lo so, ma penso che correrò il rischio…

Cometa PanSTARRS C/2011 L4

Sei anni e due mesi fa, l’apertura di questo blog venne “salutata” dal passaggio della cometa McNaught. In questi giorni una simile “piccola meraviglia” è visibile nei nostri cieli, e prende il nome di PanSTARRS C/2011 L4. Piccola e molto elusiva, in realtà.

Il problema, con comete di questo tipo, è che arrivano ad essere sufficientemente brillanti solo molto in prossimità del sole, cosa che rende l’osservazione problematica. Se a questo aggiungiamo che il passaggio avviene in un periodo dell’anno in cui il clima non è propriamente mite, ed è facile trovarsi in presenza di nubi, soprattutto in prossimità dell’orizzonte, riuscire ad osservarla diventa quasi una sfida.

Bisogna innanzitutto trovare un sito con visuale perfettamente sgombra fino all’orizzonte, quindi attendere circa un’ora dopo il tramonto perché il cielo si scurisca a sufficienza, e a questo punto osservare in fretta, poiché solo poche decine di minuti dopo è la cometa stessa a tramontare.

Ad aggravare la cosa contribuiscono due fattori: l’assorbimento atmosferico, che toglie luminosità all’oggetto man mano che si avvicina all’orizzonte, e l’inquinamento luminoso (per chi come me la osserva dalla città), che rende il cielo in prossimità dell’orizzonte più luminoso delle zone sovrastanti. Nelle due sessioni osservative che ho avuto modo di effettuare la cometa risultava pressoché invisibile prima delle 19.10 a causa del chiarore del cielo, e già non più percepibile alle 19.30 perché ormai troppo bassa.

In questa finestra osservativa molto ristretta, se armati di un buon binocolo e sapendo dove puntarlo, si può cogliere la debole luce di questa “visitatrice celeste”, destinata a sbiadire progressivamente nei prossimi giorni man mano che la sua orbita la porterà ad allontanarsi progressivamente dal sole.

(in questa elaborazione ho cercato di riprodurre l’effetto dell’osservazione visuale in un binocolone 14×70. La foto originale, di Roberto Petagna, è stata pubblicata sul forum Coelestis e messa cortesemente a disposizione dall’autore)

Dr. Slime un anno dopo

Poco più di un anno fa iniziava la mia esperienza con lo “Slime”, un fluido in grado, almeno in teoria, di rendere le ruote da bicicletta “autoriparanti” in caso di forature. Ora ritengo passato un sufficiente arco temporale per tirare le somme di quanto avvenuto.

Cominciamo subito col dire che non tutte le promesse sono state mantenute. Lo “Slime” non è la soluzione finale ai problemi di foratura, ma resta pur sempre uno strumento in più da mettere in campo. Le forature non sono mancate, ma si sono ridotte drasticamente di numero e gravità degli esiti.

Nelle due mountain bike che utilizzo, entrambe montate con fasce antiforatura GEAX e camere d’aria Slime-Lite (la versione leggera, con meno liquido), nonostante percorsi decisamente ostici il numero di forature si è potuto contare sulla punta delle dita. In particolare la Specialized rossa ha resistito praticamente un anno senza necessità di riparazioni, cedendo solo un paio di settimane fa ad un “nemico soverchiante”.

Al termine di un giro al lago di Castelgandolfo siamo infatti incappati in un’area infestata di quelle spine fastidiosissime chiamate “baciapiedi”, col risultato che siamo arrivati alle macchine con le coperture variamente “traforate”, chi con le ruote già a terra, chi con le ruote gonfie nonostante diverse spine infilzate.

Una volta rimosse le spine, anche le mie due ruote sono andate a terra. Tornato a casa, in un moto di ottimismo, le ho rigonfiate senza ripararle. Già poche ore dopo l’anteriore era di nuovo a terra, mentre la posteriore restava ben gonfia. Slime vs. spine 1:1

Oggi mi sono messo di buzzo buono a riparare l’anteriore, ma ho dovuto desistere. Oltre alle spine tolte a mano dal copertone, una volta smontata la camera d’aria ne sono emerse almeno altre sette od otto di un tipo più sottile ancora sporgenti all’interno del copertone, un paio infilate attraverso la fascia antiforatura geax. Queste spine più sottili sono un nemico rispetto al quale lo Slime si difende molto bene, provocano fori piccoli che il liquido riesce ad ostruire facilmente.

Le “baciapiedi” sono un altro paio di maniche, producono fori grossi che lo Slime è in grado di tenere sotto controllo solo per un lasso di tempo limitato, a condizione che la spina non si sposti e la ruota non si sgonfi. In questo caso l’azione dello Slime si limita a rallentare lo sgonfiamento della ruota, consentendo quantomeno di terminare il giro.

Quello che è risultato dall’esame della camera d’aria, e mi ha motivato a buttarla, sono stati cinque fori evidenti al solo gonfiaggio, sono convinto che se l’avessi immersa in acqua ne sarebbero usciti fuori altri ancora. Di sicuro ne sono presenti anche sulla camera d’aria posteriore, anch’essa a terra al rientro a casa da Castelgandolfo, che però è rimasta gonfia per due settimane, non riparata, senza battere ciglio.

Invece ho fatto di recente una scoperta interessante: anche le valvole tipo Presta (quelle sottili) hanno il meccanismo di sblocco rimovibile. Questo consente di trattare con lo Slime camere d’aria di dimensioni particolari, che non vengono commercializzate con già il fluido all’interno, e di gestire la quantità di materiale introdotto.

In particolare ho preparato un paio di camere d’aria oversize per le ruote da 2,35″~2,50″ della Santacruz, riempendole con 50cc di Slime l’una. Il peso di ognuna è passato da 200 a 275 grammi. L’aggiunta dello Slime comporta quindi un aumento di peso di 150gr complessivi, che su una bici di 16kg rappresenta un incremento dell’1%… insignificante.

In conclusione, anche se il “sogno” di poter andare in giro senza tip-top e pompetta di emergenza non si è realizzato, lo Slime ha ridotto di parecchio il numero di interventi “di rattoppo” richiesti ed ho intenzione di continuare ad usarlo. Oggi ho acquistato la seconda confezione di “refill” dopo aver esaurito la prima, presa un anno fa.

(continua)

La politica, la città e il denaro.

(venerdì scorso, 8 marzo, sono stato invitato dal Coordinamento Roma Ciclabile ad una tavola rotonda sulla ciclabilità e la mobilità nuova al Bici@RomaExpo. Qui di seguito il sunto del mio intervento, riveduto e corretto con correzioni ed integrazioni di cose che avrei voluto dire e mi sono sfuggite…)

In primo luogo mi scuso anticipatamente con il pubblico. Mi scuso perché so bene che si viene a queste tavole rotonde per sentirsi dire cose positive ed incoraggianti, per sentirsi raccontare che si costruiranno tante nuove piste ciclabili, che ci aspetta un futuro radioso ed ecosostenibile. Io vi dirò il contrario.

Tenterò di affrontare un’analisi sistemica dell’esistente. Cominciamo dalla nostra città, Roma: è una città fatta male, è una città profondamente “sbagliata”. Ma se è così, se si è sviluppata in questa maniera, non è per caso. Roma è stata modellata da forze, volontà, esigenze ed abitudini mentali che l’hanno portata ad essere quello che è.

Queste forze non smetteranno di operare da un giorno all’altro. Continueranno a spingere sempre nella stessa direzione con la stessa ostinata protervia dei decenni precedenti ai fini di mantenerla in questo stato e continuare in una sedicente ‘crescita’ assurda ed irrazionale.

Nel dettaglio, si possono identificare diverse componenti di questa deriva. In testa ci sono gli interessi economici che si muovono intorno all’edilizia ed all’idea di trasporto privato. Il denaro muove le decisioni politiche, e dove più ce n’è, anche le decisioni diventano più rapide. Il modello di trasporto privato ha creato quartieri mostruosi nelle periferie cittadine e, parallelamente, uno sviluppo abnorme della rete stradale, che sempre all’edilizia ed agli appalti fa capo.

Un’altra delle teste dell’idra è rappresentata dalla politica, che fin dal primo dopoguerra nel nostro paese è stata ridotta al livello di tifo da stadio. La cittadinanza, a differenza di altri paesi dove c’era più attenzione alla gestione della cosa pubblica, non ha giudicato i propri eletti in base a quello che realizzavano, ma alle teorizzazioni sui massimi sistemi.

Così se da una parte si invocavano i ‘compagni’, dall’altra gli ‘amici’, dall’altra ancora i ‘camerati’, lo scopo principale delle classi politiche che si sono succedute è stato la gestione della città in funzione dei flussi di denaro e degli interessi in essere, in maniera sostanzialmente bipartisan. Così, se l’interesse era di realizzare una nuova lottizzazione extraurbana, il politico di turno aveva il compito di rivestire questa speculazione edilizia con la propria ‘ars retorica’, decantando la bellezza e funzionalità dei nuovi quartieri ed i posti di lavoro che si venivano a creare, non certo i costi sociali per le opere di urbanizzazione che finivano a ricasco della collettività.

Il terzo punto chiave lo svolge la popolazione italiana, che storicamente non ha mai dato prova di una grossa familiarità col concetto di ‘bene comune’. Per abitudine, ignoranza, ingenuità o vera e propria forma mentis culturale, il nostro è un popolo che applica da sempre ‘l’arte di arrangiarsi’, fronteggiando con soluzioni individuali qualsiasi problema gli si ponga dinnanzi. Ognuno di noi, a fronte dei problemi di mobilità prodotti da un’espansione irrazionale ed ingestita della città e del doversi spostare dai quartieri ‘dormitorio’ della periferia alle aree industriali ed alle zone di uffici, ha semplicemente pensato di dotarsi di un’automobile privata, in omaggio alle sirene della pubblicità ed al conformismo.

Questo ha prodotto la congestione delle arterie cittadine, l’inquinamento, il degrado degli spazi urbani ed uno scadimento generale della qualità della vita che viene tuttavia percepito come ‘inevitabile’. Il tutto in un quadro di generalizzata inconsapevolezza rispetto alle possibilità di una diversa organizzazione urbana (peraltro molto difficile da realizzare a ‘danno fatto’).

A titolo di esempio considerate che a Roma abbiamo pro-capite il triplo delle automobili che hanno a Parigi (dove ci sono, peraltro, più di venti tra linee metropolitane e treni urbani). Provate ad immaginare un qualsivoglia politico che in un comizio si rivolga ai suoi elettori affermando: “faremo in modo di obbligarvi a vendere o a disfarvi di due terzi delle automobili che possedete”. Semplicemente surreale.

Ora ci si viene a parlare di mobilità ‘leggera’, di mobilità ‘dolce’, di riorganizzazione degli spazi urbani, come se fosse possibile, e finanche semplice, rovesciare un paradigma che si è venuto consolidando nei decenni. Non è così, e per diversi motivi.

Il primo è che la bicicletta e la mobilità leggera non muovono interessi economici speculativi. La bicicletta produce il risparmio di tutti, non la ricchezza di pochi, per questo motivo saranno i singoli cittadini a doverla pretendere, per lo stesso motivo difficilmente la classe politica la promuoverà con convinzione.

Di fatto, le proposte e le realizzazioni che abbiamo visto fin qui (anche nel Piano Quadro della Ciclabilità di Roma) riguardano in larga misura piste ciclabili in sede propria, infrastrutture di difficile realizzazione e per loro natura costose. Si torna al tema degli appalti, e dell’edilizia come motore primo di ciò che ‘si muove’ in questa città.

A questo riguardo, mentre da noi si ‘elaboravano’ piani fantasmagorici di reti ciclabili urbane, tutte destinate a rimanere sulla carta, all’estero quelle reti le realizzavano concretamente, e le analizzavano scoprendo che i risultati erano in larga misura diversi dalle attese. Questo per dire che anche il Piano Quadro della Ciclabilità di Roma, che fin qui ha rappresentato il massimo sforzo da parte dell’attuale amministrazione, è già, senza un solo cantiere aperto, in larga misura da rivedere e stravolgere.

L’unica novità che ci viene in aiuto è il fatto che i meccanismi economici che hanno prodotto questo tipo di proliferazione urbana cominciano ad incepparsi, la crisi sistemica, di cui abbiamo visto solo le prime avvisaglie, toglierà benzina (letteralmente) al motore della ‘crescita’, e creerà spazi in cui forme di mobilità più a misura d’uomo possano affermarsi e prosperare.

Ma sarà comunque a noi cittadini spingere in questa direzione. Se continueremo, come negli ultimi sessant’anni, a farci piovere cemento sulla testa senza reagire potremo aspettarci soltanto una situazione, se possibile, ancor peggiore dell’attuale.


UPDATE: il mio intervento è stato filmato e messo on-line da Guido Fontani del comitato Ciclabile Nomentana Subito. Non è esattamente come me lo ricordavo, ma parlare a braccio è molto diverso dal redigere un testo scritto. La sostanza degli argomenti trattati, tuttavia, rimane.

Il sogno, la città e la torre

Dopo gli Stati Generali della Bicicletta e della Mobilità Nuova di Reggio Emilia mi capita spesso di ragionare sulle “città ideali” delineate dalle strategie di mobilità alternativa tratteggiate nel Libro Rosso. Quartieri car-free, sviluppo del trasporto pubblico, spazi per la mobilità in bicicletta, intermodalità.

A volte mi ritrovo a fantasticare su come potrebbe essere il mio quartiere, questo moloch di palazzoni da otto piani materializzatosi negli anni ’60 e riempitosi di automobili in sosta nei decenni successivi. In un Photoshop mentale chiudo strade, creo piazze, immagino spazi per la socialità ed il commercio locale, per i giochi dei bambini, per la vita relazionale.

Poi riapro gli occhi e il mostro è sempre lì, inamovibile, una realtà sedimentata ed incistata in decenni di passiva accettazione del pensiero unico incentrato sull’automobile. Una realtà figlia di miopia ed egoismo, di esibizionismo cafone, di passivo adeguamento al “così fan tutti”, di ignoranza, pigrizia mentale ed intellettuale.

Anche iniziando ora a demolire questa gabbia di lamiere ammucchiate l’una sull’altra, anche impiegando tutte le energie e l’intelligenza necessarie, quanto ci vorrà ad operare la trasformazione? Quanta fatica richiederà rimodellare le nostre abitudini mentali al nuovo paradigma? Quante discussioni, quante riluttanze, quante lotte andranno affrontate?

Un modello urbanistico sociale si viene strutturando nel corso dei decenni in modo che ogni parte sia funzionale alle altre, non si può aggredire e trasformare intervenendo sui singoli punti, non si cambia un pezzetto alla volta… va affrontato in blocco.

Non è possibile disincentivare l’uso dell’auto privata senza contemporaneamente offrire delle alternative valide, e spesso non si possono offrire alternative valide a vite che si sono modellate su un paradigma diverso senza stravolgerle. Se anche il risultato finale è desiderabile, sicuramente le fasi intermedie saranno lunghe, faticose e stressanti.

Come se a un certo punto, costruendo una torre, giunti al quarto o quinto piano ci rendessimo conto che tutti gli altri hanno costruito torri rotonde, mentre la nostra è quadrata. Hai voglia spiegare che tonda è più robusta strutturalmente, più resistente agli attacchi e dentro ci si vive meglio… ormai la frittata è fatta e non si torna indietro.

Ci terremo le nostre città malfatte, malate, stressanti e dagli standard di vita scadenti. Continueremo a predicare il cambiamento a gente che ottusamente rifiuterà di ammettere di aver sbagliato, caparbiamente difendendo scelte stupide ed insostenibili. Il sogno resterà sogno e ci terremo la nostra inutile torre quadrata abbandonata a metà.

(p.s.: giuro che lo spunto iniziale di questo post era ottimista, l’idea di partenza era il “sogno”, l’immaginare una città diversa prender forma sotto i miei occhi. Ma mentre lo ragionavo ho visto quest’idea accartocciarsi e collassare. Perfino sognare, anni fa, mi riusciva più facile...)