Massimo Mantellini (eh, sì, ancora lui…) segnala sul suo Blog che la RAI ha richiesto a Youtube ed altre piattaforme video on-line di rimuovere tutti i materiali di sua proprietà in vista del lancio di un proprio portale web in cui renderli disponibili. Ai soli abbonati… Già questo mi pare problematico sul piano tecnico, oltreché discutibile per diversi motivi, ma tant’è, siamo un paese in cui prima ancora di “coltivare l’orticello” ci si tira su un bel recinto.
Tutto normale? Se ci mettiamo i paraocchi e concentriamo lo sguardo solo sulle finalità strettamente commerciali magari sì, ma questa è una forma di miopia nella quale cerco, se possibile, di non cadere, anche se tutti i mass media ne sembrano ormai affetti ed anzi ne siano da tempo attivo “veicolo di contagio”. Già, perché qui non stiamo parlando solo di un “prodotto commerciale”, per capirci non sono le pere del fruttivendolo, non è il pieno dal benzinaio, è quello che in questo paese hanno visto e ascoltato milioni di persone: cultura, costume, memoria collettiva.
Faccio un esempio, per quanto “scemo” possa sembrare: Jo Chiarello. Questo nome vi dice niente? Qualcuno se la ricorda? Direi quasi impossibile. Eppure giusto qualche giorno fa, non ricordo più su quale blog visto che stavo navigando un po’ a casaccio, c’era questo:
Ecco, è difficile dire le sensazioni che ho provato nel rivederne le immagini: mi ha rituffato indietro di 25 anni, un’altra Italia, un altro mondo, com’era la mia vita “una vita fa”… Posso immaginare che questo tipo di contributi di cultura “bassa” difficilmente avranno spazio negli archivi RAI. O forse invece ci saranno, ma in tal caso ecco la prima questione: cosa davvero troveremo là dentro? E chi deciderà cosa “merita” di starci e cosa no? O per dirla diversamente: cosa potremo ricordare e cosa no? Fahrenheit 451 di Bradbury, qualcuno/a l’ha letto (o ha visto il film)? Parlava di libri bruciati, di cancellazione della memoria, di controllo sociale.
Prima ancora di sapere cosa troveremo negli “Archivi di Stato” Jo Chiarello sarà stata “raschiata via” da Youtube insieme ad innumerevoli altri “fotogrammi” del nostro passato e della nostra storia. Frammenti pazientemente ritagliati e selezionati da migliaia di persone per raccontare con ognuno un pezzetto di sé, della propria memoria, delle proprie emozioni, fino a costruire un enorme puzzle che indipendemente dai singoli pezzi narra il nostro tempo.
Sarò esagerato, ma mi pare che da più parti si stia usando il grimaldello del copyright per limitare e controllare la memoria storica delle persone. Purtroppo è una questione fondamentale e di cui si parla sempre troppo poco: la monetarizzazione della conoscenza, lo sfruttamento commerciale del Sapere. Qualcosa che, se abbandonata alle dinamiche puramente e dichiaratamente egoistiche del mercato, finisce con l’impoverire l’intera collettività.
Poi c’è un’altra questione, a mio pare non secondaria: questi contenuti, una volta resi disponibili in forma “ufficiale” saranno altrettanto facilmente riutilizzabili, citabili, linkabili, in una parola “fruibili”? Youtube permette di fare con i video quello che si fa col “quoting” del testo, consentendo l’embedding nei nostri post delle immagini di cui si sta scrivendo (Beppe Grillo insegna). Non è un problema di “qualità” del materiale video, che è bassissima, ma di usabilità dei contenuti, di didattica in senso lato, di ricircolo culturale.
Dunque cos’ha da temere la RAI se immagini vecchie di venti o trent’anni (quando l’uso attuale non era nemmeno immaginabile) e a scarsa risoluzione vengono rese disponibili a tutti? Cos’ha da temere la RAI da Jo Chiarello, che senza i suoi improbabili fan sarebbe completamente dimenticata? Cos’abbiamo da rimetterci noi se frammenti a bassa qualità di pezzi della nostra storia, minuscola e maiuscola, finiscono “in the public domain”?
Perché, poi, si pretende di privare gli altri media di quello che è consentito fare con le parole? Citare porzioni di testo pubblicate dai giornali, di carta e on-line, è consentito, citare porzioni di film e spettacoli no? In cosa consiste la differenza? Bisogna pur distinguere tra il “prodotto finito”, completo, qualitativamente commerciabile, e la sua “citazione”. Stiamo discutendo di legalizzazione di un abuso, o quantomeno di un “panorama legislativo” inadeguato ai tempi ed alle tecnologie (e, aggiungerei, pesantemente condizionato da lobbies mediatiche miliardarie… non dimentichiamo da dove nasce Forza Italia).
Vediamo la questione da un altro punto di vista: possiede un popolo la propria storia? E se sì (come immagino) che uso può farne se non raccontarla? E “come” raccontarla efficacemente senza i suoni, senza le immagini, senza la musica? Che narrazione potremmo mai fare di un’epoca se ci venisse impedito di utilizzare i materiali video ed audio di quel periodo? Se, per esempio, gli eredi di Hitler e Mussolini si avvalessero del “diritto d’autore” per vietare la riproduzione di filmati, scritti e discorsi? Parleremmo di censura, in quel caso?
Bisogna ovviamente definire un discrimine tra cosa è privato e cosa è invece pubblico, ovvero patrimonio culturale collettivo. E questo non significa che lo “sfruttamento commerciale” non vada tutelato, tutt’altro, solo che non può prevaricare i diritti della collettività. Come ben dice Massimo Troisi ne “Il postino”: la poesia non è di chi la scrive… la poesia è di chi “gli serve”. E a noi “serve” di poter possedere e raccontare la nostra storia, “alta” e “bassa”, perfino quando si tratta di Jo Chiarello.
Perché, appunto, si tratta di “sfruttamento non commerciale”, che è più o meno come raccontare ad un amico una barzelletta ascoltata in tv o alla radio, o letta su un giornale. E non penso che si possa parlare di “sfruttamento commerciale” neppure se i gestori dei server (Youtube perlomeno), sulle loro pagine (che non siamo obbligati a visitare) ci mettono accanto un po’ di pubblicità (che siamo sempre liberi di non guardare) di prodotti commerciali (che siamo sempre liberi di non acquistare) per ripagarsi delle spese di gestione del servizio.
Avevamo appena cominciato (qualcuno/a almeno) ad usare Youtube per rielaborare ricordi, situazioni, mode, forme culturali ed altro, e adesso ci si dà un bello stop con il pretesto dei diritti d’autore (peraltro già pagati, col canone, da tutti noi). Quand’è che si ragionerà anche qui del valore collettivo della conoscenza diffusa? Gratuitamente diffusa? O dobbiamo rassegnarci a non possedere nemmeno i nostri ricordi?
Come appunto cantava Jo Chiarello: “Che brutto affare!”.
Links per approfondimenti:
L’articolo di Tessarolo (citato da Mantellini)
La replica di Luddist