Eravamo giovani

"Eravamo giovani
Prima che la vita ci vestisse
con un abito di delusioni
prima che il tempo ci spezzasse le ossa
prima che il mondo masticasse i nostri sogni
prima di tutto questo
prima dei ricordi
senza saperlo
eravamo giovani"

Il candidato



Alla fine, a quanto pare, doveva accadere. Il mondo della politica si è accorto dell’esistenza di un potenziale serbatoio elettorale romano legato ai temi della bicicletta ed ha fatto i suoi passi per avere un "rappresentante" di questa realtà nelle liste delle prossime elezioni regionali. I "Verdi" (un partito attualmente allo sbando dopo un decennio abbondante di scelte suicide) hanno candidato Paolo Bellino detto "Rotafixa", come indipendente, al consiglio regionale del Lazio.

Conosco Paolo più o meno dal 2004. Le nostre strade si incrociarono all’epoca della prima Ciemmona, lui provenendo dal calderone delle ciclofficine popolari, io dalla Fiab. Due universi paralleli che fino a quel momento si erano simmetricamente ignorati, ognuno arroccato nel suo castello di certezze ed estremamente diffidente nei confronti dell’altro.

La Fiab ambiva a diventare un interlocutore istituzionale, le Ciclofficine ed il mondo legato alla Critical Mass cercavano invece di risvegliare l’animo ribelle dei ciclisti urbani con esperienze di movimento, molto spesso sul filo della legalità. Questo si rifletteva in una distanza siderale in termini di azioni, progetti, strategie, riflesso inevitabile di un sostanziale gap anagrafico.

Su richiesta dell’allora presidente Fiab, Gigi Riccardi, mi feci carico di provare ad aprire una linea di dialogo tra queste due realtà, iscrivendomi alla mailing list della Critical Mass romana. Provare a portare le istanze Fiab in quel contesto di "ribellione urbana" fu un tentativo discretamente folle. Me ne dissero di tutti i colori, da una parte e dall’altra, per anni.

All’interno del movimento dei "ciclisti critici", legato alla CM, Paolo rappresentava l’ala forse più estremista. Nella sua ricerca filosofica del veicolo assolutamente essenziale era arrivato a riscoprire le biciclette da pista "a ruota fissa", decidendo di farne una sorta di oggetto di culto e riportandole sulle strade.

Nelle bici di uso comune vi è un meccanismo, parte del sistema di trasmissione, detto "ruota libera". Per farla breve è quello che consente, una volta presa velocità, o sulle discese, di non dover girare i pedali. Nelle bici "a ruota fissa" questo meccanismo manca, la pedaliera è vincolata alla ruota posteriore ed i pedali devono girare sempre (anche in discesa).

Le bici "a ruota fissa" hanno altre bizzarre caratteristiche. Una è quella di poter rallentare/frenare agendo direttamente con le gambe sulla pedaliera, cosicché molti le usano senza i classici freni a leve, inoltre sono prive di cambio. Tutte queste peculiarità si rivelano vantaggiose nelle competizioni in pista, ma non esattamente "confortevoli" nell’uso urbano.

Per approfondimenti sulla filosofia della "ruota fissa" vi rimando al sito di Paolo "Movimento Fisso", dove potrete anche trovare numerose riflessioni di natura filosofica. Per quanto riguarda me non l’ho mai condivisa, e questo ha prodotto, nel tempo, innumerevoli discussioni, confronti, polemiche, scazzi. Alla lunga mi sono stancato ed ho optato per una sorta di "vivi e lascia vivere", rinunciando ad "evangelizzare" chi, per contro, finiva col cercare di evangelizzare me.

Da parte mia, continuando la frequentazione degli spazi di discussione del movimento, finii con lo spostare il mio punto di vista allontanandomi dalle istanze della Fiab ed avvicinandomi a quelle della Massa Critica, col risultato di finire impantanato e pressoché isolato in una "terra di mezzo": troppo "estremista" per la Fiab, troppo "moderato" per i ciclisti critici.

Nel mentre Paolo sperimentava una serie di problematiche legate allo "sfratto" della prima "Ciclofficina Centrale" dal complesso dell’Angelo Mai, ed alla perdita di coesione del gruppo che in quello spazio si era formato ed in qualche modo identificato.

L’inaspettato riavvicinamento con mr. "Rotafixa" si è verificato pochi mesi fa, in concomitanza dei tragici fatti di via dei Fori Imperiali, che hanno prodotto la nascita del Coordinamento "Di Traffico si Muore". In quel contesto Paolo ha portato la sua carica di contagiosa emotività, guidando una campagna mediatica molto efficace.

Di lui, per altri versi, si potrebbe parlar male per ore: del suo caratteraccio, della sua aggressività, della sua intransigenza, delle sue sigarette puzzolenti… nonostante questo penso che una sua elezione all’interno del consiglio regionale (eventualità che al momento mi sembra abbastanza remota, anche se non del tutto inverosimile…) rappresenterà una spina nel fianco, un "rospo" duro da mandar giù per il clientelare apparato politico romano.

In tal caso non lo invidierò, consapevole che dovrà passare i prossimi anni impegnato a preservare la propria integrità, e a guardarsi le spalle dai pescecani della politica e del "mattone". E solo un pazzo come lui può pensare di farcela.

Quindi ecco qui il mio piccolo contributo. Se siete convinti che questo sistema ingoi vite umane e produca infelicità ed insoddisfazione, se ci tenete a tornare a vivere in spazi urbani a misura d’uomo, se pensate che sia il caso di cambiare rotta sul cammino che ci sta portando alla totale alienazione, oggi avete una possibilità vera di farvi rappresentare: Paolo Bellino detto "Rotafixa".

Almeno questo glielo devo. Se non si fosse candidato lui, probabilmente non sarei nemmeno andato a votare.

Sirio B

Negli ultimi mesi, complice la rinata passione per l’astronomia, ho spesso “ammorbato” i lettori di questo blog con reports di nottate osservative. Ora devo farlo di nuovo, ma la storia che segue merita di essere raccontata per considerazioni che, come vedrete, sono legate solo marginalmente all’osservazione del cielo in sé. Tuttavia, per meglio comprendere il quadro della vicenda, sarò costretto a dilungarmi in un un breve (sic!) excursus, mi auguro non troppo “letale”.

Questo post racconta dell’osservazione di una stella, e non una qualsiasi. Sirio è eccezionale già per il semplice fatto di essere stata, fin dalla preistoria, la stella più luminosa del nostro cielo. Luminosità in larga misura apparente poiché dovuta alla relativa vicinanza, ma pur sempre un dato storicamente e culturalmente importante. Dal nostro emisfero è osservabile in inverno, nella costellazione del “Cane Maggiore“.

Sirio è anche una stella doppia, con una minuscola compagna che gli orbita accanto. La formazione di sistemi stellari multipli, al pari di quella dei sistemi planetari come quello di cui la Terra fa parte, è una naturale e diretta conseguenza delle dinamiche di formazione stellare, innescate dalla condensazione delle nubi di gas e polveri presenti nel piano galattico.

Detto “in soldoni” una nube dalla forma irregolare, collassando, può dar luogo alla formazione di più stelle orbitanti intorno ad un comune centro di gravità: stelle di diversa massa, colore, luminosità. Il cielo è pieno di questi oggetti, facilmente osservabili con telescopi di ogni dimensione, e Sirio non è perciò un’eccezione, se non per quanto riguarda la differenza di luminosità tra le due componenti.

(la foto è tratta da QUI)

 

La cosa che rende questa stella speciale è il fatto che la sua compagna, denominata per convenzione “Sirio B“, è una cosiddetta “stella degenere“, una “nana bianca“. Stupì, all’epoca della sua scoperta, l’intero mondo scientifico: troppo piccola per essere così calda, troppo massiccia per essere così piccola, troppo densa per essere fatta della stessa materia nota fino a quel momento.Per spiegare la natura di questa classe di oggetti fu necessario sviluppare un’intera nuova branca dell’astrofisica. Oggi abbiamo un modello sufficientemente affidabile per descrivere l’evoluzione delle stelle nelle ultime fasi di vita, a rischio di eccessive semplificazioni proverò a riassumerlo per sommi capi.

Le stelle si formano dalla contrazione, per gravità, di nubi di gas interstellare. La nube, in pratica, inizia a cadere su sé stessa, ed in questo processo si surriscalda. Quando l’idrogeno nelle zone centrali raggiunge una sufficiente temperatura e densità si innescano reazioni di fusione termonucleare, che producono quantità enormi di energia.

L’energia prodotta nel centro della stella “preme” dal centro verso l’esterno. Dopo un primo turbolento periodo di assestamento si realizza un equilibrio con la forza di gravità, che “spinge” in senso inverso. La stella quindi assume una forma stabile e passa alcuni miliardi di anni a brillare in maniera uniforme.

Questa lunga fase di stabilità ha necessariamente un termine quando le reazioni di fusione atomica che trasformano i nuclei di idrogeno in elementi più pesanti “consumano” la maggior parte del combustibile nucleare. L’energia prodotta diventa insufficiente ad equilibrare il peso degli strati esterni. La massa stessa della stella la “schiaccia” in un oggetto ultradenso, in cui le proprietà della materia diventano molto diverse da quelle che siamo in grado di riprodurre nei nostri laboratori.

(in realtà tutto è molto più complesso, le stelle attraversano fasi evolutive in cui si gonfiano enormemente, espellono nel vuoto buona parte della propria massa, nel caso di sistemi doppi o multipli la travasano sulla compagna più vicina modificandone le caratteristiche, se sono troppo massicce esplodono, ecc, ecc…)

Da notare che la massa iniziale della stella svolge un ruolo importante in questo processo: le stelle più grosse “bruciano” più in fretta di quelle piccole, e la loro vita è di conseguenza più breve.

Dunque Sirio B è una stella collassata, la più vicina e, soprattutto, una delle pochissime osservabili con strumenti relativamente piccoli. E qui finisce la nostra puntata extra di “SuperQuark” per tornare alle vicende personali del sottoscritto: nella stessa serata di “astronomia dal balcone” descritta nel precedente post ho provato anche, “en passant“, a dare un’occhiata a questo bizzarro sistema.

“Non è stata un’osservazione preparata in anticipo, non sapevo né la distanza né la direzione in cui avrei potuto trovare l’eventuale compagna, né la sua magnitudine esatta. A dirla tutta non pensavo proprio che l’avrei vista, sapevo solo che era un oggetto quasi impossibile.

Guardo e la prima cosa che mi colpisce è l’enorme quantità di luce diffusa dalla primaria, Sirio A. Tuttavia mi pare di intravedere un puntino estremamente elusivo nel quadrante in alto a destra. Possibile che la compagna si riesca davvero a vedere?

Continuo ad osservare e, sebbene non visibile con continuità, mi convinco che potrebbe essere davvero Sirio B. Cercando tutt’intorno non si vede nient’altro di simile, anche a distanze diverse, quell’increspatura, quel “grumo di luce” puntiforme, è una singolarità, un unicum.

 

La prima cosa che mi viene in mente è di verificare l’angolo di posizione, ovvero la posizione assoluta rispetto al sistema di coordinate celesti. Questo è tutt’altro che banale in uno strumento in cui l’oculare per osservare è perpendicolare al cammino ottico, ruotato di 45°, e la verticale dell’osservatore una ulteriore variabile indipendente. Comincio a lambiccarmi su come ricavarlo dalla serie di riflessi dello schema newtoniano, complicato dalla rotazione apparente della volta celeste rispetto ad un sistema altazimutale, quando realizzo che la soluzione è sotto i miei occhi, e non solo, ci sto combattendo dall’inizio dell’osservazione: la stella si sposta da est a ovest (e pure in fretta!).

Il “puntino” segue la stella, quindi è ad est. Considerando un sistema di riferimento con lo zero rivolto verso il nord e la rotazione in senso orario valuto un angolo di posizione sui 260°, la distanza, confrontata “ad occhio” con quella tra le due componenti di Castore (una doppia con separazione di 4″ d’arco), la valuto sui 12″, la magnitudine è impossibile da stimare, affogata com’è nel mare di luce della primaria.

Chiudo tutto, scendo a casa e vado a consultare Wikipedia. Sirio B si trova ad est della principale (anche se il sistema di riferimento ufficiale è diverso da quello che avevo immaginato…), dieci secondi d’arco di distanza. Perfettamente coerente con quanto osservato.”

 

 

A quel punto, essendo già collegato ad internet, ho deciso di condividere sul momento il mio entusiasmo con la comunità degli astrofili italiani. Oltretutto, non avendo una grande opinione riguardo alla qualità di alcune parti della mia strumentazione (che, per i feticisti della tecnica, è descritta qui, assieme al racconto della sessione osservativa che avete appena letto), ho ingenuamente domandato se qualcun altro/a avesse in passato effettuato la stessa osservazione.Il risultato è stato di generale incredulità. Dopo un po’ di scambi anche piccati mi sono reso conto che la stragrande maggioranza dei partecipanti al forum, appassionati di stelle doppie compresi, non solo non l’aveva mai osservata, ma non ci aveva neppure mai provato, non ritenendo un’osservazione tanto “estrema” alla portata del proprio strumento.

La lezione di tutta questa storia qual’è? Per me semplicemente che i limiti di quello che possiamo fare molto spesso ce li creiamo da soli. Che i costrutti mentali, specialmente quelli derivanti da un’eccessiva specializzazione, ci rinchiudono in gabbie dalle quali fatichiamo a liberarci. Che un gesto semplice ed ingenuo può regalarci esperienze che anni di studio ci hanno insegnato a ritenere irraggiungibili.

E in sostanza, come il proverbiale calabrone che “vola perché non sa di essere troppo pesante per poterlo fare“, qualche sera fa ho puntato il mio telescopio su Sirio B e, “non sapendo di non poterla vedere“, semplicemente l’ho vista.

Un balcone affacciato su Marte

Alcuni mesi fa, in preda ad uno di quei "momenti di follia" che, a posteriori, si rivelano le decisioni più azzeccate, acquistai (usato) un nuovo telescopio. All’epoca mi frenavano dubbi sull’effettiva resa ottica, incertezze sulla gestibilità di un arnese tanto pesante ed ingombrante e forti perplessità su quanto sarei concretamente riuscito a goderne. Superato il periodo di "rodaggio" posso dirmi pienamente entusiasta dell’acquisto.

Nelle prime uscite in montagna ho potuto apprezzare il salto di qualità dato dal grande diametro sugli oggetti deboli del "cielo profondo" (deep-sky): galassie, piccole nebulose planetarie, ammassi stellari. Oggetti evanescenti che richiedono un basso ingrandimento, e per i quali non incide troppo la perdita di definizione causata dalla turbolenza dell’aria, che confonde i dettagli più fini.

Più recentemente ho testato lo strumento approfittando delle condizioni di buona stabilità atmosferica che si verificano in città (dove però l’inquinamento luminoso prodotto da lampioni ed insegne rende di fatto invisibile il "deep sky") rimanendo sbalordito dalla notevole qualità ottica degli specchi.

La movimentazione "fatta a mano" è certo un limite, ma non un impedimento, nell’uso ad alti ingrandimenti, e sebbene la vocazione dei Dobson sia il "deep-sky" è possibile, con un po’ di pazienza e spirito di adattamento, ottenere visioni molto dettagliate e gratificanti anche sui pianeti.

Dopo tanti test, ieri sera ho montato il telescopio sul balcone di casa ed ho atteso che il pianeta Marte sorgesse sopra il tetto del palazzone di fronte. Abituato a superare raramente i 160 ingrandimenti col vecchio 20cm (uno strumento ormai vecchiotto, progettato ed ottimizzato per un uso fotografico a largo campo e non certo per l’alta risoluzione), mi sono ritrovato col nuovo a viaggiare allegramente a 500 ingrandimenti (!!!) con una qualità di dettaglio spettacolare.

Marte, in passato, mi aveva dato poche soddisfazioni. Le sue dimensioni apparenti, anche nelle condizioni migliori, sono sempre minuscole e senza un telescopio di generose dimensioni è difficile tirar fuori dei dettagli. Ma ingrandito 500 volte appare grande tre volte la luna piena vista ad occhio nudo, si distinguono perfettamente la piccola calotta polare di ghiaccio secco (CO2, l’H2O si trova più in profondità) e diverse aree scure sul rosso predominante della superficie.



(questa foto, che mostra efficacemente cosa si poteva
osservare all’oculare, è stata tratta da
QUI)

In effetti, mai avrei pensato di poter possedere ed usare uno strumento di 30cm di apertura senza la geniale intuizione di John Dobson (la cui vita, per inciso, meriterebbe un post a sé), che negli anni ’60 operò una vera e propria "rivoluzione copernicana", purtroppo arrivata da noi con decenni di ritardo.

Per secoli gli astronomi si erano posti il problema di mantenere gli oggetti celesti immobili al centro del campo inquadrato, compensando la rotazione terrestre per mezzo di montature geometricamente e meccanicamente complesse, oltreché molto pesanti. Il risultato fu di far levitare i costi necessari al supporto ed alla movimentazione dei telescopi ben oltre quelli già elevati delle ottiche.

Il fatto è che, se si esclude l’impiego fotografico, quello che consente all’occhio di osservare di più e meglio è proprio l’apertura dello strumento. Un telescopio di diametro maggiore ha una miglior risoluzione (la capacità di distinguere dettagli) e raccoglie più luce. Semplicemente raddoppiando il diametro dell’ottica diventa possibile utilizzare un ingrandimento doppio e si vedono stelle quattro volte più deboli.

Dobson fece un ragionamento molto semplice: "qual’è la soluzione che mi consente di osservare con il diametro più grosso possibile?" Lo schema ottico, per semplicità costruttiva e di lavorazione, non poteva che essere quello ideato da Newton. La montatura "essenziale" una semplice cassa di legno in grado di ruotare in orizzontale, sulla quale il tubo ottico potesse liberamente ruotare verticalmente, in modo da poter essere facilmente puntato in una qualsiasi direzione nel cielo.



Questo tipo di soluzione in gergo tecnico è detta "altazimutale" (dai due assi orizzontale e verticale detti rispettivamente "azimuth" e "altitudine"). Tra i suoi limiti vi è l’impossibilità di inseguire gli oggetti sulla volta celeste compensando la rotazione terrestre (anche se i moderni sistemi di pilotaggio computerizzato dei motori consentono questa ulteriore possibilità) e soprattutto l’impossibilità di un uso fotografico del telescopio a causa della rotazione del campo inquadrato.

Tutte queste problematiche vengono normalmente risolte nei grandi osservatori professionali, ormai esclusivamente dedicati alle riprese fotografiche, ed in qualche caso anche in strumenti amatoriali di "fascia alta". Ma l’unica cosa che interessava John Dobson era la possibilità di osservare visualmente attraverso uno strumento di grande diametro, tutto il resto diventava secondario.

L’idea di Dobson, tuttavia, non ebbe vita facile. L’impossibilità di un uso fotografico venne vista da subito come un grosso limite, le montature di legno guardate con scherno ed irrisione, i telescopi stessi dileggiati con l’appellativo poco gratificante di "secchi di luce". Un altro grosso problema era il costo, all’epoca proibitivo, degli specchi di grosso diametro, che in molti casi venivano fabbricati a mano, in maniera artigianale, direttamente dagli astrofili (con esiti qualitativi spesso non entusiasmanti).

Quando i Dobson iniziarono a diffondersi negli USA, in Italia, periferia della civiltà, un altro grosso limite fu rappresentato dalle spese di spedizione intercontinentali, e la scarsa domanda frenò l’offerta da parte dei fabbricanti. Ma appena i primi Dob fecero capolino negli "star party" buona parte degli astrofili finì conquistata dalla qualità dell’esperienza osservativa vissuta guardando dentro questi "tuboni".

Oggidì, grazie alle ottime ottiche prodotte in Cina a costi contenuti ed alla progressiva diffusione fra gli appassionati, di Dobson in giro se ne vedono sempre più, con dimensioni impensabili fino a qualche anno fa. Non è raro che un Dob da 25cm sia consigliato come strumento "entry level", come pure che uno da 50cm sia nelle aspirazioni dei visualisti più accaniti. Senza arrivare ai "mostri" da 75cm e passa che qualcuno già da un po’ si porta appresso…