Le conseguenze del cattivo agire

conseguenze2L’immagine qui sopra illustra efficacemente il fallimento delle politiche di gestione del territorio italiano messe in atto negli ultimi decenni: basta un acquazzone più intenso del solito per creare allagamenti. Molti pensano che il problema siano le fogne ostruite a causa della cattiva manutenzione, ma la realtà è più complessa.

La realtà è che le fognature sono dimensionate in base ad un flusso previsto, non possono accogliere più acqua di quella per la quale sono state progettate, quindi anche se perfettamente funzionanti non sarebbero lo stesso in grado di garantire lo smaltimento di una quantità d’acqua superiore nei tempi previsti, dando luogo agli allagamenti.

Quindi il problema sembrerebbe essere quello di livelli di precipitazione estremi, che la stampa ha iniziato a chiamare col roboante termine “bombe d’acqua”. Quanto a questo ci sono segnali di un’evoluzione delle precipitazioni in direzione di eventi violenti concentrati in tempi brevi, ma neanche questo è sufficiente a spiegare quello che osserviamo ad ogni pioggia più intensa del solito.

Il fattore veramente decisivo in questo processo riguarda quello che avviene quando la pioggia arriva al suolo. Un suolo naturale, coperto di vegetazione, assorbe l’acqua per capillarità e la trattiene. Un suolo artificiale, come quello rappresentato da strade ed edifici, opera nella direzione di un rapido smaltimento dell’acqua piovana, incanalandola nella rete fognaria.

Man mano che la cementificazione e l’impermeabilizzazione del suolo procedono ad erodere il suolo naturale, di fatto distruggendolo per svariati secoli a venire, questo processo assume connotati ingestibili, perché la capacità della rete fognaria viene da un lato sovrasaturata a causa delle nuove edificazioni, dall’altro la capacità del suolo di trattenere l’acqua si riduce, aumentando portata e velocità dei reflui.

Né è pensabile di aumentare la portata della rete fognaria, poiché questo avrebbe come unica conseguenza di trasferire il problema più a valle, causando l’esondazione dei fiumi ed allagamenti in altre aree. Il risultato è quello che possiamo osservare in queste foto, strutture fognarie realizzate e dimensionate per gestire i flussi di scolo in un determinato momento storico diventano critiche a soli vent’anni di distanza a causa delle trasformazioni intervenute nel territorio circostante.

Ad oggi la discussione politica comincia ad affrontare il problema, ma col solito enorme ritardo culturale tipico della nostra società. Si ragiona di rallentare la cementificazione, ridurre la costruzione di nuove strade (si ragiona e basta, dato che gli interessi economici spingono ancora verso un incremento delle cubature e della rete viaria), mentre un dibattito serio sullo smantellamento e la disasfaltatura delle strade è ancora molto oltre l’orizzonte culturale e decisionale di questo paese.

Ci arriveremo, col tempo, ma non prima di aver prodotto ulteriori danni irreparabili.

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Nella foto: automobilisti romani ammirano le conseguenze delle proprie scelte…
(mentre cercano qualcuno o qualcosa a cui attribuirne la responsabilità)

L’apocalisse vichinga in Groenlandia

Per lunghi decenni ho ritenuto la Groenlandia solo una grossa isola perennemente coperta dai ghiacci. Non molto tempo addietro ho infine acquisito il fatto che fosse stata scoperta dai navigatori vichinghi, i quali le diedero il nome di “Terra Verde” (Grüne Land), ma è stato solo con la lettura di Collasso di Jared Diamond che mi si è chiarita la tragica vicenda delle colonie norvegesi.

Scoperta poco prima dell’anno mille dal navigatore Eric il Rosso, durante un periodo climatico più mite della media, due piccole zone costiere furono ben presto popolate da agricoltori e pastori, che diedero vita a gruppi di villaggi noti rispettivamente come Insediamento Orientale ed Occidentale (nonostante fossero pressoché sullo stesso meridiano, distanti circa 500km in direzione nord-sud).

(l’Insediamento Orientale)

I vichinghi introdussero le pratiche agricole e di pastorizia tipiche della madrepatria norvegese, ed oltre a quelle provarono a sfruttare le risorse del posto come la pesca e la caccia a foche e trichechi, ma qualcosa, o meglio, molte cose tutte insieme, andarono storte in modi non inizialmente preventivabili. Cinque secoli dopo la loro fondazione, di quelle colonie non rimaneva nulla, né animali né abitanti, solo poche chiese di pietra.

Gli errori di valutazione furono molti. La bassa latitudine suggerì l’adozione di pratiche agricole analoghe a quelle del nordeuropa, senza tuttavia tener conto del clima molto diverso determinato dall’assenza della corrente del Golfo. I groenlandesi si trovarono a dover affrontare inverni mediamente più freddi e secchi di quelli cui erano abituati.

L’essere approdati su una terra vergine, verde e ricca di foreste, non lasciò supporre che i tempi di formazione e rigenerazione della vegetazione, a causa del freddo e delle rade piogge, fossero enormemente più lunghi di quelli della madrepatria: le foreste tagliate non ricrescevano, e lo stesso accadeva ai pascoli.

Altro fattore inizialmente sottovalutato fu la lontananza dall’Europa, ed i costi enormi del commercio navale in condizioni tanto critiche. Le colonie groenlandesi esportavano lana ed oggetti d’avorio, quest’ultimo ricavato dai denti dei trichechi (la cui caccia stagionale presentava rischi non indifferenti), ed importavano manufatti in ferro.

La storia delle colonie racconta di un lento, inarrestabile declino, vieppiù straziante in considerazione del fatto che si trattava di popolazioni appartenute alla nostra stessa civiltà, alla nostra stessa cultura. Mentre intorno al 1200 l’Europa viveva un fiorire di arte, cultura e civiltà, l’età dei comuni che porterà al Rinascimento, su un’isola coperta dai ghiacci, lontani da tutto e da tutti, cinquemila persone vedevano i propri margini di sopravvivenza assottigliarsi progressivamente in maniera irreversibile.

Le analisi dei siti archeologici ci raccontano di una popolazione che finì col perdere la metallurgia per la mancanza di legname per ridursi, infine, ad utilizzare utensili di legno ed osso, in un indesiderato ritorno all’età della pietra. Le analisi dei resti alimentari narrano del progressivo abbandono della pastorizia a causa di stagioni estive troppo fredde e brevi, di una dieta basata in larga misura sul consumo di carne di foca dal sapore orribile, della follia, probabilmente consapevole e sopravvenuta in un secondo tempo (un tabù alimentare?), di eliminare dalla propria dieta l’unico alimento relativamente abbondante in quei lidi, ovvero il pesce.

Un’economia di sopravvivenza destinata a soccombere di fronte ad un mutamento climatico globale che viene definito la “piccola era glaciale”, ricordata in Europa come causa di inverni molto più freddi della media e tramandata ai posteri dalla moda di indossare enormi parrucche. La piccola era glaciale determinò la fine delle colonie vichinghe ormai irraggiungibili dalle navi anche in estate a causa della presenza di iceberg nei fiordi dove affacciavano i piccoli porti degli insediamenti.

Dimenticati da tutto e da tutti, i cinquemila coloni vichinghi sparirono nel nulla assieme ai loro villaggi, agli animali da pascolo, alla loro storia ed alla loro cultura. La tragedia che li colpì ha potuto essere ricostruita solo in tempi recenti.

Paradossalmente, mentre gli europei soccombevano alle avversità ambientali, tribù Inuit stanziate molto più a nord riuscirono a sopravvivere e (relativamente) prosperare grazie a caccia e pesca.

Mentre i vichinghi distruggevano lentamente i campi coltivabili per tagliare la torba in mattoni e fabbricare case “all’europea” gli inuit vivevano in tende d’estate, e d’inverno costruivano igloo di ghiaccio. Mentre i vichinghi tentavano senza successo di esportare in Groenlandia l’allevamento di bovini ed ovini, la metallurgia, l’uso del legname per costruzioni e riscaldamento, gli inuit sfruttavano le risorse locali: pesce, carne di foca, grasso di balena per il riscaldamento, costruendo tende, vestiti, imbarcazioni ed utensili utilizzando pelli ed ossa animali.

A mente fredda possiamo rimproverare ai vichinghi i molti errori di cui si fecero carico, l’incapacità di dialogare coi loro vicini inuit (che appellavano col termine “skraelig”: pezzenti) e di imparare da loro uno stile di vita che li avrebbe resi capaci di sopravvivere, l’arroganza tutta europea di ritenersi superiori ai nativi.

Tuttavia non possiamo non muovere a compassione all’idea di diverse migliaia di nostri simili intrappolati ai confini del mondo, dimenticati “da Dio e dagli uomini”, costretti da inverni sempre più rigidi ad uccidere e divorare fino all’ultimo i pochi e stentati capi di bestiame, privi infine di risorse naturali, di utensili, di cibo, di riscaldamento, condannati ad estinguersi uno dopo l’altro da un gelo divenuto inarrestabile.

Contro tutto e contro tutti

Il mese di maggio ha visto i cicloattivisti romani impegnati in una sorta di “gara europea” sponsorizzata da un’app per smartphone (Endomondo). La sfida consiste nel coinvolgere il maggior numero di ciclisti del territorio e registrarne i tragitti quotidiani (l’app utilizza per questo il GPS dello smartphone) in modo che a fine giornata si possa conteggiare il numero di chilometri percorsi complessivamente e cogliere il polso della ciclabilità “di trasporto” complessiva. Il Challenge non tiene conto dei ciclisti sportivi e di quelli che vanno in bici per allenarsi, ma solo dell’utilizzo urbano.

Ai #salvaiciclisti romani non è parso vero di poter dimostrare che “Roma pedala di più”, ci siamo quindi attivati per ottenere la partecipazione della città al contest. È a questo punto che si sono avute le prime avvisaglie che le cose non sarebbero andate neanche stavolta per il verso giusto. L’amministrazione cittadina, infatti, dopo aver fatto orecchie da mercante per settimane, ha accettato alla fine di formalizzare l’iscrizione solo pochi giorni prima dell’inizio del contest, per poi dimenticarsene del tutto.

La situazione totalmente paradossale consiste nel fatto che il contest riguarda le città, non i singoli ciclisti. In ogni altra città europea l’amministrazione è direttamente coinvolta  nel challenge, lo pubblicizza presso i potenziali partecipanti, lo sponsorizza a sua volta con premi per i più attivi. In ogni altra città europea è l’amministrazione a fregiarsi del titolo conseguito. Ovunque tranne qui, dove se il Comune avesse partorito un proprio logo quello avrebbe dovuto riportare in grande la scritta: “STICAZZI!”.

Il challenge europeo è iniziato così, con un manipolo di valorosi che, come i trecento spartani di Leonidas, hanno dovuto non solo fronteggiare nemici soverchianti (le macchine amministrative delle altre città, anche piccole, che hanno coinvolto molti più partecipanti), ma anche combattere coi problemi di viabilità e le tare ataviche di una città, la nostra, che odia da sempre in primis ciclisti ed in generale i non appartenenti al “culto del Dio Motore”, il tutto nella totale indifferenza di chi del risultato finale avrebbe pure avuto occasione di vantarsi.

Come è andata a finire? Ecco qua i risultati.

Roma si è piazzata al terzo posto dopo Varsavia e Lodz, a veramente un soffio dalla seconda, rincorsa per quasi tutto il mese. Ma la classifica in sé non dice molto, bisogna grattare più a fondo fra i numeri per capire cosa realmente sia successo.

Roma ha avuto al suo attivo 1121 partecipanti, ma di questi solo 780 hanno prodotto chilometri per la competizione, e solo 600 hanno caricato nel contest più di 30km, ovvero pedalando in media più di un km al giorno (per confronto, il sottoscritto nello stesso arco di tempo ne ha percorsi 730, con una media giornaliera superiore ai 20km).

La prima classificata, Varsavia, ha potuto contare su una squadra di 2332 elementi con 1600 ad inserire chilometri e ben 1340 con all’attivo più di 30km a testa: grossomodo il doppio di noi romani. La seconda, Lodz, ha messo in campo 1533 partecipanti, dei quali oltre 1100 hanno inserito chilometraggi, e circa 900 di essi per più di 30km: una volta e mezzo Roma (pur conseguendo un totale di chilometri pressoché identico).

Queste cifre ci raccontano, sostanzialmente, che i ciclisti romani pedalano in proporzione tanto quanto quelli del Nord Europa, nonostante condizioni molto più svantaggiose dovute all’assenza di infrastrutture, di segnaletica dedicata, e dei requisiti minimi di civiltà per quanto riguarda l’uso delle sedi stradali da parte dei conducenti di veicoli a motore. E lo fanno senza premi, né riconoscimenti, né pubblica attenzione.

Ci raccontano anche, proprio a causa di questi problemi, della difficoltà a crescere di numero, non secondariamente perché tutte le iniziative messe in campo “dal basso” vengono bellamente ignorate, quando non platealmente osteggiate, proprio dall’amministrazione di turno, indipendentemente dal suo colore politico e dai proclami e le promesse fatte in campagna elettorale.

Ma questi ragionamenti non raccontano ancora tutto. Questa è la parte di classifica che riguarda il sottoscritto, classificatosi 52° con passa 700km pedalati in meno di 30 giorni (il mese iniziava col ponte del 1° maggio, in quella data ero fuori città).

Beh, se quei chilometri li avessi percorsi a Lodz, città arrivata di un soffio davanti a Roma, la mia posizione in classifica sarebbe stato un ben più gratificante 12° posto. Personalmente la trovo una strepitosa metafora della condizione del cicloattivista romano (o italico in generale): farsi un culo come una casa per ottenere solo le briciole.