Sull’origine delle ideologie

(N.b.: a pochi mesi di distanza da questo scritto ho messo mano ad un’analisi più puntuale del processo, che ne integra la sostanza fornendo chiavi interpretative ulteriori)


Nel post precedente accennavo a ‘processi di sostituzione’, un tema poi riemerso nella discussione, purtroppo breve, che si è sviluppata via social con l’amico Marco Melillo. Ho pertanto iniziato a buttar giù una serie di riflessioni con l’obiettivo di mettere a fuoco il concetto ma, mentre procedevo, un’idea ben più interessante ha finito col prender forma.

Sono infatti arrivato ad individuare un motivo che rende necessarie, non occasionali, la nascita e lo sviluppo delle ideologie. Se pensiamo a quanto queste ultime, a partire dalle fedi religiose per arrivare alle attuali ideologie ‘laiche’, hanno influenzato lo sviluppo della storia umana, comprenderne la loro collocazione antropologica ha una sua importanza.

Partiamo però dalle dinamiche di sostituzione che, a monte di tutto, sono parte integrante dei processi vitali: fenomeni legati alla chimica organica che possono essere efficacemente descritti in termini di molteplici eventi di tipo sostitutivo. Le nuove generazioni sostituiscono quelle più antiche; le forme mutate di DNA sostituiscono le versioni precedenti; le tipologie nuove, e meglio adattate, degli individui di una stessa specie, sostituiscono quelle preesistenti.

La chiave interpretativa dei ‘processi di sostituzione’ è, di fatto, molto aderente all’originale pensiero esposto da Charles Darwin nel saggio “L’origine delle Specie”. Tuttavia nel corso degli anni ha prevalso una chiave d’interpretazione, che potremmo etichettare come ‘positivista’, strettamente legata all’idea di ‘evoluzione’, termine che veicola significati non sufficientemente neutrali ed oggettivi e presta il fianco ad interpretazioni improprie. Il motivo per cui ciò è accaduto risulta tutt’altro che banale, e richiederà un approfondimento.

Sintetizzando all’estremo la storia dell’umanità (analisi più dettagliate dei singoli eventi potete cercarle nei post pubblicati in passato), lo sviluppo di un cervello di grandi dimensioni ha rappresentato il fattore chiave per la sopravvivenza della nostra specie. Come conseguenza inevitabile, l’aumento della capacità cognitiva ha portato con sé l’emergere di grandi dilemmi:

Qual’è il senso dell’esistenza umana?”
“Cosa è giusto e cosa è sbagliato?”
“Cosa è Bene e cosa è Male?”

La nostra specie, per la prima volta nella storia della vita sul nostro pianeta, ha dipeso quasi unicamente dall’esercizio dell’intelligenza, impiegata sia a fini cooperativi che per comprendere e prevedere gli eventi. La necessità di dare risposta ai summenzionati ‘grandi dilemmi’, più che un mero esercizio filosofico, ha rappresentato per i nostri avi una questione di vita o di morte, perché da quelle stesse risposte ne sarebbero discese decisioni e scelte, ed in ultima istanza l’efficacia dell’azione collettiva mirata alla sopravvivenza del gruppo.

Può essere difficile, nel momento attuale, ragionare di sopravvivenza, tanto è distante la nostra condizione da quella di anche soltanto un secolo fa, figuriamoci calarci nel pensiero di popolazioni preistoriche. Tuttavia, nel momento in cui il pensiero astratto divenne la principale arma a disposizione della nostra specie, al pari degli artigli dei predatori o dei muscoli degli erbivori, l’ambito delle idee finì col diventare dominante nell’organizzazione umana, mettendo in secondo piano le reazioni istintive.

Le specie viventi sono necessariamente dotate di pulsioni istintive alla sopravvivenza ed alla riproduzione. I comportamenti istintivi sono codificati all’interno del cervello ad un livello molto più basico di quelli destinati al pensiero. Gli insetti, pur disponendo di cervelli minuscoli, dotati di pochi neuroni, possono attuare una serie di comportamenti complessi. In essi, però, non esiste possibilità di apprendimento: tutti i comportamenti sono strettamente codificati a livello genetico.

La pulsione alla sopravvivenza è un elemento chiave di questa rigida programmazione. In estrema sintesi: gli individui che possiedono reazioni adeguate a sopravvivere e riprodursi trasmettono questo carattere alle generazioni successive, quelli che ne possiedono versioni difettose o inefficienti muoiono senza riprodursi.

Ma un cervello rudimentale, se pure è in grado di effettuare una serie di operazioni ripetitive al pari di un microscopico robot, non è la dotazione migliore per fronteggiare gli imprevisti. Col crescere delle dimensioni degli animali è stato possibile alimentare cervelli più grandi, capaci di risposte flessibili e dell’abilità di apprendere. La specie umana è quella che si è spinta più avanti in questa direzione.

Come già detto, nel momento in cui la nostra specie sviluppa un cervello plastico e ne fa lo strumento principe per la propria sopravvivenza, i processi cognitivi finiscono col diventare dominanti rispetto ai processi istintivi. Si rende perciò necessario lo sviluppo di architetture cognitive, quelle che siamo soliti definire sovrastrutture culturali, in grado di sopperire alla diminuita efficacia delle reazioni istintive.

Siamo stati quindi obbligati a sviluppare dei rinforzi culturali all’istinto di sopravvivenza, proprio per evitare che l’eccessiva capacità immaginativa del nostro cervello producesse risposte distruttive per noi stessi e per i nostri simili. Un tale risultato venne ottenuto, fin dalla notte dei tempi, imbrigliando la libertà di pensiero all’interno di quello che possiamo definire uno schema della realtà, quello che poi ha preso il nome di ‘bagaglio culturale’.

Ogni collettivo, dalla piccola tribù alle capitali degli imperi, è stato obbligato a dar forma ad una visione condivisa della realtà, che offrisse spiegazioni all’esistente e desse indirizzi comportamentali finalizzati al benessere, dei singoli individui e dell’intero gruppo, ed alla coesione sociale. Nacquero così le storie, le leggende, le interpretazioni ed in ultima istanza le religioni che, come abbiamo già detto, rappresentano il primo esempio noto di ideologie.

In una realtà primitiva, la spiegazione più semplice all’esistenza del mondo è immaginare entità sovrumane che, dopo aver creato e modellato l’Universo, amministrano la giustizia e comminano premi e punizioni. La religione nasce per offrire un fondamentale rinforzo dell’istinto di sopravvivenza attraverso l’idea di una vita dopo la morte.

Essa ha la doppia funzione da un lato di disincentivare il suicidio, dall’altro di codificare ed obbligarci ad ottemperare ai comportamenti più idonei al successo del gruppo sociale cui apparteniamo, ivi incluso, ove necessario, il sacrificio di sé per il bene comune. Con l’avvento della scrittura, nel terzo millennio avanti Cristo, tutte queste complesse teologie finirono nella redazione dei testi sacri, formalizzando un ventaglio completo, seppur variegato, di risposte ai dilemmi umani.

I testi sacri sono la pietra angolare di qualsiasi pensiero religioso. Essendo, per comune consenso, ispirati direttamente dalla divinità, il loro contenuto non è questionabile. I principali sono sopravvissuti fino ai giorni nostri, e le indicazioni da essi fornite sono risultate talmente efficaci da aver accompagnato l’umanità attraverso i lunghi millenni di sviluppo delle civiltà.

Il problema è sorto quando diversi intellettuali, nell’arco di alcuni secoli, hanno iniziato a sviluppare il pensiero scientifico, mettendo in discussione l’attendibilità dei testi sacri. Con molta evidenza, il massimo sapere di culture dell’età del bronzo non poté competere con le conoscenze ed i nuovi strumenti tecnologici sviluppati nell’arco di secoli.

Dapprima Galileo, con l’invenzione del telescopio, dimostrò l’inattendibilità della Bibbia sulle materie astronomiche. In seguito Newton sostituì la narrazione teologica del cosmo con un asettico formalismo matematico, capace di dar conto dei movimenti dei corpi celesti grazie a poche semplici equazioni. Da ultimo Darwin, che spiegò ‘l’origine delle specie’ togliendo alla divinità anche il merito della varietà delle forme viventi.

Il problema, per i religiosi, è che i Testi Sacri devono, per definizione, essere infallibili, essendo emanazione stessa della divinità. Se quanto affermato in un Testo Sacro non risulta coerente con la realtà fattuale, si pongono due eventualità, entrambe spiacevoli: o la divinità ha scelto di mentire all’umanità, il che aprirebbe a scenari poco rassicuranti, o il testo non è emanazione della divinità, e a questo punto risulta delegittimato nella sua interezza.

Il risultato dello scardinamento prodotto dal pensiero scientifico sulle società umane appare drammatico. Da un lato abbiamo l’affermazione di un pensiero laico, freddo, lucido ed oggettivo, capace di leggere la realtà attraverso strumenti meccanici e non più per mezzo di interpretazioni culturali. Dall’altro si registra il progressivo smantellamento delle credenze religiose, che trascina con se il valore di collante sociale e la ‘stampella psichica’ rappresentata dai modelli culturali veicolati dalle fedi.

Il pensiero scientifico, del suo, non è in grado di svolgere le funzioni di rinforzo degli istinti di sopravvivenza e di collante sociale, per gruppi e comunità, che le architetture cognitive del pensiero religioso avevano fino ad allora espletato. L’istinto di sopravvivenza, come pure le esigenze relazionali, di cui tutti abbiamo bisogno per non soccombere alle difficoltà della vita, non possono essere validate da un’oggettività scientifica, ma unicamente descritte in termini di strutture cognitive.

Ridotto il discorso ai minimi termini: se la fede è in grado di far sentire una persona importante, utile, desiderata, di dargli una collocazione nel cosmo e delle finalità da perseguire, per la scienza quella stesso individuo è solo un generico essere vivente, appartenente ad una specie fra le tante che popolano un habitat qualsiasi, la cui sopravvivenza individuale è totalmente irrilevante. Nulla che possa essere di alcuna utilità al superamento di difficoltà esistenziali oggettive.

Per questo una significativa parte di umanità ha istintivamente rifiutato le conclusioni filosofiche prodotte dalla scienza: finché c’è da approfittare di una nuova macchina o un nuovo strumento sono tutti concordi sulla sua utilità, ma quando si deve affrontare il baratro di un’esistenza finita e priva di significato la mente umana, istintivamente, si tira indietro.

Nel corso del processo mai realmente completato, anch’esso in qualche modo ‘di sostituzione’, del pensiero religioso con quello scientifico, accadono eventi collaterali degni di nota. Il primo è che il pensiero scientifico viene inevitabilmente veicolato per mezzo delle strutture linguistiche preesistenti, intrise di pensiero magico e religioso. Gli scienziati sono obbligati a riutilizzare termini, figure retoriche, esempi e paralleli che rimandano ognuno alle rispettive radici culturali, e risultano per loro natura impropri ed imprecisi.

Il linguaggio della scienza è fatto di formalismi matematici, di relazioni geometriche, di simmetrie, che il linguaggio corrente non è in grado di restituire con efficacia, perché le sue radici affondano nell’esperienza umana e nell’emotività. Nel migliore dei casi si produce una comprensione mediata dall’area linguistica del cervello, e da essa inevitabilmente distorta, nel peggiore dei casi si hanno veri e propri fraintendimenti.

Il secondo effetto, conseguente al primo, è l’originarsi di una serie di ideologie non religiose, che lavorano ad incasellare il pensiero scientifico in una matrice fideistica non esplicita. Tali ideologie rimuovono la figura taumaturgica della divinità sostituendola con ‘ideali’ astratti, un riflesso culturalmente elaborato di alcuni dei nostri istinti primitivi, di fatto mimando le architetture cognitive di tipo religioso non più disponibili a causa della delegittimazione dei Testi Sacri.

Le funzioni delle ideologie, religiose o meno, sono principalmente tre: motivare la nostra esistenza, orientare le nostre azioni e renderci parte di un gruppo sociale solidale. Funzioni essenziali alla nostra sopravvivenza individuale e di conseguenza al nostro successo riproduttivo. Rispetto a ciò, l’aderenza ad una visione oggettiva della realtà appare come una semplice alternativa fra tante, in sé del tutto priva di funzioni sociali e pertanto del tutto accessoria.

Gli ideali di Libertà, Uguaglianza, Fratellanza” (per citare le parole d’ordine della Rivoluzione Francese, solitamente identificata come uno dei principali portati dell’illuminismo), non poggiano su basi scientifiche, ma rappresentano unicamente il riutilizzo di categorie cognitive istintuali, rinforzate’ nelle epoche precedenti dal pensiero religioso. La pretesa di inglobarle in una visione unitaria assieme al pensiero scientifico, tipica dell’ideologia illuminista, è da ritenersi totalmente inconsistente.

Tornando a Darwin, l’interpretazione in chiave ‘evolutiva’ dello sviluppo delle specie animali fu diffusamente accolta perché supportava la descrizione illuminista di un cosmo che muove dal caos all’ordine (mentre non altrettanto funzionale dev’essere apparsa la rappresentazione, formalmente più esatta, di una transizione da un caos più semplice ad un caos di maggiore complessità).

Di fatto la filosofia illuminista si appropriò del concetto di evoluzione per inserirlo, a forza, all’interno di una narrazione della Storia Umana immaginata in un analogo percorso di ‘sviluppo’, dando vita a quella che oggi identifichiamo come ‘ideologia del progresso’. Da questa forzatura nasceranno tutta una serie di interpretazioni distorte, dal darwinismo sociale all’eugenetica, fino ad alcune tesi di sedicente razzismo scientifico che serviranno da fondamenta teoriche del Fascismo prima e del Nazismo in seguito.

Tuttavia, come già accennato, una componente chiave dell’efficacia del pensiero religioso, quella legata al sollievo dalla sofferenza psichica causata dal pensiero della morte, non poté in alcun modo essere soddisfatta dalle ideologie laiche, cosa che impedì loro di soppiantare del tutto le fedi preesistenti. Dovendo scegliere tra una visione laica, priva di una componente umanamente essenziale, e la fede nel sovrannaturale, in molti hanno preferito scegliere di rinunciare all’aderenza alla realtà fattuale professata dal pensiero scientifico.

Non è probabilmente un caso se la corrente religiosa ad aver avuto maggior successo e diffusione, nell’arco temporale seguito alla rivoluzione scientifica, sia stata il cristianesimo protestante, la cui totale decentralizzazione, unita al forte spirito individualista, ha saputo trovare più facilmente un equilibrio con le nuove ideologie filo-scientifiche ed accogliere più facilmente quelle idee ed innovazioni che le grandi religioni organizzate andavano aspramente combattendo.

Dopo questa lunga, ma necessaria, digressione, vale la pena tornare all’inizio, ovvero ai ‘processi di sostituzione’. Rileggere la storia del mondo in chiave di processi di sostituzione ci restituisce uno sguardo più neutrale ed obiettivo rispetto allo stato attuale del pianeta ed a ciò che potremo attenderci in un futuro più o meno lontano, laddove un’analisi basata sulle fantasie di ‘progresso’ ci trarrebbe sicuramente in inganno.

Per mezzo delle rivoluzioni tecnologiche abbiamo sostituito l’esistenza scomoda ed impegnativa dei cacciatori/raccoglitori con una più ‘moderna’ e stanziale, caratterizzata da ridotto lavoro fisico alternato ad agi e svaghi. Tutto questo al prezzo di un significativo danneggiamento di ogni altra forma di vita sul pianeta e del progressivo degrado degli ecosistemi terrestri e marini, un processo, tutt’ora in corso, che può portare unicamente a tre conclusioni.

La prima, la più ottimistica, è che il danneggiamento receda, in seguito a trasformazioni culturali conseguenti al progressivo esaurimento delle riserve energetiche fossili, stabilizzandosi su un modello socioeconomico radicalmente diverso dall’attuale. A sfavore di tale eventualità pesa l’evidenza che nessuna forma di elaborazione culturale umana stia fattivamente lavorando allo sviluppo di un modello di sussistenza alternativo.

In assenza di rivoluzioni culturali, la seconda possibile conclusione, stante l’insostenibilità conclamata dell’attuale processo di esaurimento delle risorse, è il collasso dell’attuale ‘civiltà dei consumi’, seguito da guerre, carestie, pestilenze tali da riequilibrare il peso della popolazione umana nei confronti della componente selvatica della biosfera. Un evento spiacevole ma che ad oggi appare, a chi scrive, altamente probabile.

La terza eventualità, ancor meno desiderabile, è che l’attuale grado di danneggiamento degli ecosistemi risulti, in tempi umani, irreversibile, e conduca ad una estinzione di massa di specie viventi (peraltro già in corso) tale da includere anche la nostra. Il pianeta Terra non rimpiangerà l’homo sapiens, la cui scomparsa lascerà spazio a forme di vita meno distruttive.

Insomma ci fermeremo con le buone, o con le cattive, oppure non ci fermeremo proprio, finché non sarà troppo tardi per tornare indietro. Con buona pace di tutte le teologie e fantasie ideologiche accumulate fin qui, che non sono state capaci di rinforzare il nostro istinto di sopravvivenza abbastanza da aver ragione degli effetti collaterali prodotti dal nostro innato egoismo animale.

P.s.: a distanza di un mese ho trovato un TED-Talk dove viene affrontato lo stesso argomento, giungendo a conclusioni del tutto analoghe, anche se da una prospettiva leggermente diversa.

UNSPECIFIED – CIRCA 1865: Karl Marx (1818-1883), philosopher and German politician. (Photo by Roger Viollet Collection/Getty Images)

P.s.: rileggendo, ex post, quest’analisi, la trovo talmente semplice ed elegante da farmi dubitare delle conclusioni. Davvero la storia dell’umanità, millenni di guerre, arte e passioni può ridursi ad un modello comportamentale tanto semplice? Eppure non riesco a trovarvi incongruità.



Approfondimenti
(ovvero cose che avevo inizialmente scritto, ma poi ho escluso dal testo)

  • Esempi di processi di sostituzione li troviamo nel funzionamento del cervello e nelle modalità in cui esso interagisce con l’ambiente circostante. L’etologo Konrad Lorenz per primo ha individuato il meccanismo definito ‘imprinting’, che fissa la relazione tra i cuccioli e la figura materna. È celebre l’esempio delle anatre che, alla schiusa dell’uovo, identificano la prima creatura che le accudisce come la propria madre. Lorenz si sostituì al genitore biologico e gli anatroccoli lo accettarono come tale, prendendo a seguirlo ovunque.
  • Desmond Morris, nel saggio “La scimmia nuda”, spiega che tutte le forme animali complesse, incluso l’uomo, vivono una perenne tensione tra neofilia e neofobia, ovvero tra la curiosità per il nuovo ed il timore delle novità. Per gestire la neofobia, la paura delle novità, attuiamo comportamenti ripetitivi che ci tranquillizzano.

Cit.: “Come ho già detto, anche gli individui socialmente bene adattati di tanto in tanto presentano questi ‘tic’, che di solito si manifestano in situazioni di stress dove hanno la funzione analoga di tranquillizzanti. Conosciamo bene queste manifestazioni. Il dirigente che aspetta una telefonata di vitale importanza tamburella o picchietta sulla scrivania, la donna che attende nella sala d’aspetto del medico apre e stringe le dita intorno alla borsetta, il bambino imbarazzato fa ondeggiare il proprio corpo a destra e a sinistra, il padre in attesa cammina avanti e indietro, lo studente al momento dell’esame succhia la matita, l’ufficiale preoccupato si liscia i baffi.

  • In questo io leggo un processo di sostituzione: sostituiamo all’inattività, che ci causa ansia, comportamenti ripetitivi che ci tranquillizzano. Anche qui, come nell’imprinting, emerge una capacità di adattamento descrivibile in termini di disponibilità a sperimentare un ventaglio di possibili opzioni comportamentali. Qualcosa di analogo accade nella lotta.

Cit.: “Esiste un’altra fonte importante di segnali particolari che nasce da un tipo di comportamento a cui è stato dato il nome di attività di spostamento. Uno degli effetti collaterali di un intenso conflitto interiore consiste nel fatto che l’animale talvolta presenta forme di comportamento strane e apparentemente non appropriate, come se la creatura, in stato di tensione, incapace di effettuare entrambe le cose che desidera disperatamente di fare, trovasse uno sfogo all’energia contenuta in un’altra attività completamente diversa.

  • La capacità di operare delle sostituzioni, a livello mentale, è da un lato efficace per migliorare la nostra capacità di sopravvivenza, dall’altro il fondamento di quelli che abbiamo imparato ad individuare come bias cognitivi. Sostituiamo l’idea della morte con l’idea di una vita eterna, e questo ci aiuta star meglio. Sostituiamo il benessere del gruppo al nostro benessere individuale, e questo aiuta la sopravvivenza del gruppo, ed in ultima istanza la nostra.
  • Il vantaggio, nell’utilizzare l’idea di ‘sostituzione’ al posto di altre formulazioni come p.e. il concetto di evoluzione, è che ci consente di prendere le distanze da un diffusissimo bias culturale legato all’idea che la natura proceda nella direzione di un continuo miglioramento, ovvero la base su cui poggia l’ideologia del progresso. Bias culturale che discende da un bias cognitivo: la necessità di pensare noi stessi migliori degli altri individui.
  • L’ideologia del progresso si fonda su una serie di assunti, di natura culturale, scientificamente infondati:
    – un processo evolutivo e sociale finalizzato al raggiungimento di un ‘vertice’
    – la specie umana al vertice del processo evolutivo naturale
    – il progresso umano come estensione del processo evolutivo
    Ragionare in termini di ‘processi di sostituzione’, anziché di ‘evoluzione’, ci consente di rimettere in prospettiva questi errori interpretativi.
  • La sequenza di ‘sostituzioni’ che caratterizza il processo evolutivo muove, necessariamente, in direzione di una maggiore complessità, nel momento in cui la complessità consente di ottenere un vantaggio nell’acquisizione di risorse (cibo, energia, materie prime). L’idea che questo sottenda un ‘miglioramento’ è un concetto astratto, un parto della mente umana. La natura non discrimina le specie in termini di migliori e peggiori, solo il pensiero umano è responsabile di una tale strumentalizzazione.
  • A monte di tutto, il pensiero scientifico, per come è stato definito, osserva e descrive, non giudica. Possiamo osservare come nel corso del tempo forme di vita diverse si siano succedute, in risposta a modifiche ambientali o mutazioni casuali, ma non possiamo affermare che alcune siano ‘migliori’ di altre a meno di applicare una scala dei valori frutto di una cultura antropocentrica ed autoreferenziale.
  • Escludendo le implicazioni per la specie umana, è evidente come le specie animali e vegetali ‘ingegnerizzate’, prima attraverso secoli di allevamento selettivo e più recentemente con l’ingegneria genetica, non possano definirsi ‘migliori’ di quelle selvatiche. In molti casi queste specie non sono più in grado né di sopravvivere ‘in natura’, né di riprodursi senza l’intervento dell’uomo. Allo stesso modo i territori sottoposti all’intervento umano, attraverso la deforestazione, le ‘bonifiche’, le pratiche agricole plurimillenarie, le urbanizzazioni, non possono definirsi in condizioni ‘migliori’ rispetto a quelli naturalmente intatti. Da un punto di vista biologico e di efficienza degli ecosistemi risultano infatti in varia misura compromessi, spesso in maniera grave.
  • Il processo di civilizzazione è il prodotto di una sinergia tra dinamiche di sostituzione di natura molto diversa tra loro. Le dinamiche di sostituzione di natura fisica (controllo del fuoco, sviluppo di agricoltura ed allevamento, civiltà tecnologica) hanno richiesto in parallelo l’elaborazione di nuove forme culturali che andassero a sostituire le precedenti idee legate all’equilibrio naturale.
  • Lo sviluppo tecnologico umano nasce da una rottura dell’equilibrio naturale, un processo culturalmente metabolizzato per mezzo di successivi eventi di sostituzione. Popoli antichi hanno trasferito questa consapevolezza nel racconto della Genesi biblica, dove il ‘peccato originale’ dell’uomo è il desiderio di conoscenza, il voler essere simile a Dio nel comprendere il mondo. Per questo l’umanità viene punita dalla divinità e condannata ad una vita di lavoro e tribolazioni.

Un paese mummificato

Ho appena iniziato ai seguire la registrazione del webinar “La progettazione della sicurezza stradale in ambito urbano”, organizzato da Polinomia in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia. È sempre un piacere ascoltare l’architetto Matteo Dondé, anche se questa volta, come mai prima, mi pesa addosso la disperante sensazione di aver buttato via altri anni preziosi.

Gli spunti sono tanti, a cominciare dalla frase “…qui togliere un posto auto può far cadere una giunta…” perché “…i cittadini si percepiscono come automobilisti”. È un concetto che non pare troppo strano. E in fondo non può apparire tale, vivendo da sempre dentro questa cultura. Eppure andrebbe ragionato! Come mai finiamo con l’identificarci, individualmente e collettivamente, con l’oggetto automobile ed il suo utilizzo?

La conclusione a cui sono giunto è che, nel corso degli anni, sia stata operata una sostituzione: alcune cose ci sono state tolte, altre ci sono state lasciate. Col risultato che, possedendo solo queste ultime, solo a queste ci siamo legati affettivamente, solo con queste ci siamo identificati Dal dopoguerra ad oggi ci sono stati chiesti sacrifici, lavoro, fiducia, ci sono stati tolti spazi per camminare, per giocare all’aria aperta, per socializzare, in cambio ci hanno riempito di denaro, di calcio, di automobili, di case perse nel nulla.

Chiaramente qualcuno ci ha guadagnato, altri ci hanno rimesso, noi tutti abbiamo perso moltissimo e siamo rimasti con in mano una manciata di perline colorate: scatole rotolanti a motore da dover cambiare ogni pochi anni (ma che bella l’automobile nuova, ci hanno raccontato), mentre diventavamo sempre più pigri, più sedentari, più tristi, più ignoranti e, inevitabilmente, più stupidi.

Deve essere stato relativamente facile far breccia in una popolazione ingenua e sprovveduta come la nostra, pompare modelli di autoaffermazione rudimentali ed egoistici, inondare il mercato di Fiat, di Ferrari, di Alfa Romeo, di Maserati, mostrarle sui giornali, nei libri, al cinema, in televisione, fino a consolidare una narrazione collettiva basata sull’individualismo ed il possesso di oggetti di status.

Quello che ci ritroviamo ora è un paese mummificato, aggrappato ad un feticcio che ingoia vite, risorse, natura e persone, senza più alcuna capacità di riottenere ciò che gli è stato tolto. Una popolazione che ha subìto una lobotomia frontale, e non ricorda più chi era, cosa aveva, cosa desiderava, ma vede ormai soltanto quello che ha sotto gli occhi uscendo di casa: un deserto di lamiere.

L’altra considerazione, ancora più amara, riguarda me, la mia generazione e tutti quelli che hanno cercato di arginare questa deriva. È evidente che abbiamo fallito, che nulla è cambiato. Comincio a pensare che il nostro errore sia stato un errore di scala. Un madornale errore di scala. Avremmo dovuto comprendere che il poco che riuscivamo ad ottenere, il pochissimo che ci veniva concesso, non solo non avrebbe cambiato la realtà in maniera significativa, ma nel complesso non avrebbe cambiato praticamente nulla.

A un certo punto della conferenza ho avuto un’epifania: mi sono visto di nuovo ai tempi della scuola, quando il maestro si stancava di insegnare e diceva a tutta la classe: “ora prendete l’album e le matite, e ciascuno faccia un disegno a piacere”. E come eravamo bravi a disegnare, quanto ci piaceva!

Da un certo punto di vista, stiamo facendo da anni la stessa cosa: disegnare un mondo di fantasia che non si avvererà mai. Non tanto perché non può avverarsi, quanto perché non deve. Ogni tanto qualcuno riceve un premio dal maestro, un bel voto, una pista ciclabile che fa il giro dell’isolato, destinata a decomporsi e cadere a pezzi insieme alle speranze che aveva suscitato. Ma poi che importanza ha? A quanti, nella vita, servirà saper disegnare?

Tutto il resto rimane immobile, paralizzato, inalterabile. D’altronde non siamo già al top? Siamo un modello per il mercato, abbiamo il massimo numero di automobili acquistate pro-capite. Spremere ancor più denaro dalle nostre tasche non deve sembrare possibile. La priorità, ad oggi, è che questa ‘bonanza’ non smetta. Che nulla cambi e che tutto resti com’è.