"La metrica, in una poesia, è ciò che obbliga le parole a danzare"
Archivio mensile:ottobre 2010
L’estetica della discarica
Dal blog di Luca Sofri prima, e da “Il Post” poco dopo, sono venuto a conoscenza di una malattia mentale nota come disposofobia, o “accaparramento compulsivo“. La pagina di Wikipedia la descrive nei seguenti termini:
“Accaparramento compulsivo (…) è un disturbo mentale caratterizzato dal bisogno ossessivo di acquisire (senza utilizzare né buttare via) una notevole quantità di beni, anche se gli elementi sono inutili, pericolosi, o insalubri. L’accaparramento compulsivo provoca impedimenti e danni significativi ad attività essenziali quali muoversi, cucinare, fare le pulizie, lavarsi e dormire.”
Per comprendere meglio i termini del problema bisogna vedere le foto delle case di persone sofferenti di questa malattia. Queste sono quelle disponibili su Wikipedia.
In pratica vi è un accumulo insensato di oggetti, del tutto indipendente da ogni eventuale futura utilità degli stessi, tale da pregiudicare la vivibilità degli ambienti domestici, oltre a renderne impossibile il mantenimento di adeguate condizioni igieniche.
La prima cosa che mi sono domandato è se io stesso non soffra di qualche forma analoga, sebbene più lieve, di disturbo mentale. Per tradizione familiare tendo a non buttare nulla che possa avere un eventuale futuro utilizzo, ma mi disfo volentieri delle cose palesemente inutili ed inutilizzabili. Quindi, “a spanne” direi di no, anche se temo di esserci andato vicino in passato.
Non disponendo di cantine, soffitte o garage, per anni ho avuto una stanza di casa (…una sola, che affettuosamente chiamavo “la stanza degli orrori“) “temporaneamente” ingombra di oggetti, per lo più di uso sporadico, “appoggiati” in attesa di miglior sistemazione. Ora, grazie soprattutto ad Emanuela, il locale è stato ricondotto alla decenza e ad una piena fruibilità.
Ma, mi sono chiesto poi, compiendo un salto logico: cosa accade se è un’intera popolazione, un’intera cultura, ad essere malata di disposofobia? Semplice, tutti continuerebbero ad ammucchiare roba inutile dappertutto, riducendo e rendendo infruibili gli spazi vitali… il che, a ben pensarci, è esattamente quello che avviene da alcuni decenni nelle nostre città.
Automobili e motorini parcheggiati in ogni dove, marciapiedi risicati e spesso invasi da mezzi in sosta, strade intasate o inutilizzabili perché percorse da veicoli ad alta velocità, cartelloni pubblicitari onnipresenti, una confusione visiva senza precedenti e soprattutto spazi per la vita e la socialità impraticabili o inesistenti.
La nostra avidità di oggetti, la nostra ansia da accumulo, l’esigenza di avere una, due, tre automobili per nucleo familiare ha progressivamente ridotto le nostre strade, i nostri quartieri e le nostre stesse vite esattamente come le case dei malati di disposofobia: ingombre ed impraticabili, senza che la maggior parte di noi se ne rendesse conto.
Vi siete mai domandati cosa penserebbe dei nostri spazi urbani un abitante della Roma di un secolo fa? Rubo ad internet qualche foto per chiarire il concetto. Questa era Roma fino a poco prima degli anni ’60 (i “favolosi anni ’60“…):
(n.b.: tutte le foto, e moltissime altre, sono visibili sul forum “SkyscraperCity”, all’interno di una discussione intitolata “Roma Sparita”)
Quella che segue, invece, è la Roma di oggi, e la situazione continua a peggiorare, nonostante si sia raggiunta in pratica la totale saturazione degli spazi urbani. Sono foto prese dalla rete, ma basta farsi un giro su Google Street View per rendersi conto di quanto il problema sia diffuso.
Largo Spartaco (dintorni di via Tuscolana)
Sotto l’Ara Coeli (Campidoglio)
Corso Trieste (dal Blog RomaCiclista)
Ma non è tutto, l’ansia di possedere si spinge ben oltre, le case stesse non ci bastano più, l’esigenza di metrature cresce a dismisura. Nello stesso spazio che in anni lontani bastava ad una famiglia numerosa ora i “single” si sentono stretti. Abbiamo bisogno di spazio da riempire con i nostri oggetti, e dopo che l’abbiamo riempito non ci basta più e ne vogliamo dell’altro.
Quindi, non paghi di ammucchiare ciarpame nelle città stiamo facendo la stessa cosa con le campagne. La terra coltivabile scompare sotto schiere di seconde case usate se va bene un mese l’anno e capannoni industriali spesso sfitti e già ora in numero sovrabbondante rispetto al necessario, con la prospettiva di una de-industrializzazione a breve conseguente all’esaurirsi progressivo di combustibili fossili e materie prime.
Il responso clinico è semplice quanto inevitabile: disposofobia collettiva. Quella che pare improbabile è la possibilità di una terapia. Servirebbe un team di psicologi a disposizione di ciascuno di noi per avere qualche speranza di guarire… o forse “solo una catastrofe ci salverà”. Auguri!
Peak life
Da troppi anni vivo in assenza di cambiamenti significativi, in me ed intorno a me: stesso lavoro, stessa casa, stessi interessi. È vero, non mi posso lamentare, sto bene. Ma anche lo star bene alla lunga viene a noia. Non mi basta star bene, ho bisogno di sentirmi necessario.
Negli anni anche il mondo intorno a me non è cambiato poi molto, c’è stata sì la "rivoluzione internet", ma nel mondo reale le dinamiche sono rimaste identiche, il paese vivacchia, la mia città, Roma, ha gli stessi problemi di invivibilità di dieci anni fa, semmai aggravati da una corsa al mattone insensata e devastante.
A livello planetario tutto sembra dimostrare le tesi dei "peak oilers", ovvero che il mondo stia andando incontro ad una progressiva penuria di combustibile fossile e materie prime senza essere culturalmente attrezzato a farvi fronte, col necessario corollario di ipotesi apocalittiche.
Di questo tipo di problemi, oltretutto, sembro rendermi conto solo io. Il che è preoccupante. È così perché intorno a me le persone sono interessate ad altro che non sia avere una rappresentazione plausibile del futuro che ci aspetta o perché sto scivolando in una forma di paranoia?
Ogni tanto mi torna in mente un romanzo letto molti anni fa, "Noi, marziani", di Philip K. Dick, ruotante intorno ad un ragazzino autistico. L’idea fantascientifica del romanzo è che il bambino soffra di una percezione alterata dello scorrere del tempo, ovvero sia in grado di vedere il destino finale di ogni cosa o persona guardata, osservandone istantaneamente il progressivo declino e distruzione, e ricavandone un senso di ineluttabilità e la percezione dell’inutilità di ogni azione.
Come il piccolo Manfred Steiner del libro ho la sensazione di guardare un mondo a termine continuare la sua folle corsa verso il nulla. Osservo la civiltà consumista che rifiuta di mettersi in discussione continuando a riempire la vita delle persone di oggetti superflui, rinchiudendoli in un paese dei balocchi astratto ed infantilmente gratificante ma, al tempo stesso, negando loro l’esperienza del mondo reale, della propria stessa umanità.
Per altri versi, parafrasando il concetto di "peak oil" (sul quale ho già speso molte parole in passato) potrei dire di trovarmi in una condizione di "peak life": il raggiungimento dello sfruttamento di metà delle risorse disponibili e la prospettiva di una lunga china in discesa. In passato probabilmente si sarebbe definito "crisi della mezza età".
Provo un senso di scivolamento lento ed irresistibile verso il basso, verso il decadimento delle facoltà fisiche ed intellettuali, la progressiva riduzione dell’autonomia personale e, ancora molto lontana (sperabilmente!) la morte. Nessuno negherebbe che sia una percezione plausibile e realistica, e tuttavia il passaggio dall’età giovanile all’età matura sta probabilmente nell’accettazione di questa realtà.
Passaggio che l’umanità del terzo millennio non vuol fare, anche costo di vendere l’anima al demone del consumo sfrenato, della distruzione di risorse, dell’ipoteca sul futuro del pianeta e della nostra intera specie. A metà della mia vita attiva osservo impotente tutto ciò, incapace di porvi rimedio.