Quando si scrive spinti dall’ispirazione, non si perde tempo a ragionare il processo. Per questo, mentre il mio racconto “La Principessa Scimmia” prendeva corpo, non mi sono messo a sviscerare cosa stessi facendo, né perché. La vicenda si sviluppava e modellava una pagina alla volta, e a me andava bene così. Solo a posteriori ho avuto il tempo di ragionare, a mente fredda e ad opera compiuta, su quello che avevo fatto.
L’esigenza di avere una misura del valore del mio lavoro mi ha portato a confrontarmi con quello degli altri. Nel corso di una passeggiata sono entrato in libreria ed ho iniziato a sfogliare, un po’ a casaccio, volumi di narrativa di autori italiani contemporanei.
Con sommo stupore mi sono ritrovato a pensare, di un autore anche famoso (ma mai letto prima): “ma come scrive questo??”. E, immediatamente dopo: “a che titolo posso permettermi di giudicare gente più affermata di me?”. Da cosa nasceva questa supponenza? Sempre più sconcertato ho quindi messo mano ad un tomo di J. K. Rowling (un volume a caso del ciclo di Harry Potter) che, aperto in un punto qualsiasi, mi ha restituito una prosa ben redatta, efficace, leggibile.
A questo punto mi è tornata in mente una questione emersa più volte nelle discussioni con la mia consorte. Commentando un testo dello scrittore David Foster Wallace (nostra comune passione), Emanuela ha avuto a dire: “Leggendo D.F.W. capisco perché ho lasciato a metà la maggior parte dei libri che ho iniziato a leggere negli ultimi tempi”. “Perché sono scritti male”, ho concluso io al suo posto. “Esatto: perché sono scritti male”, ha confermato lei.
Ragionando su come fosse scritto “La Principessa Scimmia”, la mia prima riflessione ha analizzato la tecnica di scrittura. Come Rowling, sentivo la necessità di realizzare un testo leggibile ad alta voce e facilmente comprensibile anche dai ragazzi, e questo mi/ci ha obbligato a rifinire la prosa in un determinato modo. Ma la risposta, per quanto plausibile, non mi soddisfaceva appieno, mi sembrava incompleta.
Rileggendo il testo per l’ennesima volta (sempre dietro richiesta di mia figlia, che ama sentirselo leggere e partecipa emotivamente delle vicende) mi ha colpito l’efficacia dei dialoghi. Anche i più semplici, come ad esempio quelli che si sviluppano fra e con gli animali (personaggi che nella storia hanno tutti, intenzionalmente, un livello di complessità molto inferiore agli umani), restituiscono una sensazione di verosimiglianza.
Sensazione che, ragionandoci su, discende direttamente dal modo che ho usato per immaginarli, calandomi di volta in volta nel personaggio, pensandomi nei suoi panni all’interno della situazione, dandogli voce. Questa maniera di scrivere le battute mi è parsa, fin da subito l’unica possibile, per cui non sono stato a ragionarci troppo su. Ma poi mi sono dovuto confrontare con l’artificiosità dei dialoghi di altri autori.
Un dialogo appare evidentemente artificioso quando il lettore percepisce che ha l’unica funzione di mandare avanti la vicenda. Come molti ‘spiegoni’, che appaiono nei film per raccontare fatti avvenuti prima di quelli rappresentati, tanti dialoghi scritti finiscono col rappresentare non tanto le necessità dei personaggi, le loro urgenze, ma solo quella dello scrittore di condurre la storia verso la conclusione che ha immaginato.
Non mi è stato semplice ricostruire da chi, e dove, ho appreso il mestiere di scrivere i dialoghi. Sicuramente un grosso imprinting l’ho avuto dal laboratorio di scrittura teatrale cui ho partecipato una decina d’anni fa, condotto da Giampiero Rappa presso il Teatro Piccolo Re di Roma. Lì ci siamo confrontati con l’esigenza di dar voce ad un personaggio, di viverlo, di rappresentarlo in scena.
Il lavoro dell’attore richiede di essere, all’interno della rappresentazione, altro da sé; di provare le emozioni di un altro individuo, di dar loro un corpo, una fisicità, una credibilità. L’attore, il bravo attore, deve ‘indossare’ la vita del proprio personaggio, le sue fatiche, i suoi sogni, le sue ambizioni, e restituirle al pubblico.
Chi scrive per il teatro deve fare un lavoro analogo, ma partendo da zero. Deve immaginare un intero personaggio, con la sua vita, il suo passato, i suoi ricordi, il suo carattere, le sue emozioni, e tradurli in poche battute che siano vere, credibili, efficaci.
La stessa cosa deve fare un bravo scrittore. Con conseguenze analoghe a quelle che coinvolgono l’attore… ovvero che i personaggi, dopo essere stati ‘indossati’, finiscono col rimanerti dentro.