Sui dialoghi

scimmia fumetto

Quando si scrive spinti dall’ispirazione, non si perde tempo a ragionare il processo. Per questo, mentre il mio racconto “La Principessa Scimmia” prendeva corpo, non mi sono messo a sviscerare cosa stessi facendo, né perché. La vicenda si sviluppava e modellava una pagina alla volta, e a me andava bene così. Solo a posteriori ho avuto il tempo di ragionare, a mente fredda e ad opera compiuta, su quello che avevo fatto.

L’esigenza di avere una misura del valore del mio lavoro mi ha portato a confrontarmi con quello degli altri. Nel corso di una passeggiata sono entrato in libreria ed ho iniziato a sfogliare, un po’ a casaccio, volumi di narrativa di autori italiani contemporanei.

Con sommo stupore mi sono ritrovato a pensare, di un autore anche famoso (ma mai letto prima): “ma come scrive questo??”. E, immediatamente dopo: “a che titolo posso permettermi di giudicare gente più affermata di me?”. Da cosa nasceva questa supponenza? Sempre più sconcertato ho quindi messo mano ad un tomo di J. K. Rowling (un volume a caso del ciclo di Harry Potter) che, aperto in un punto qualsiasi, mi ha restituito una prosa ben redatta, efficace, leggibile.

A questo punto mi è tornata in mente una questione emersa più volte nelle discussioni con la mia consorte. Commentando un testo dello scrittore David Foster Wallace (nostra comune passione), Emanuela ha avuto a dire: “Leggendo D.F.W. capisco perché ho lasciato a metà la maggior parte dei libri che ho iniziato a leggere negli ultimi tempi”. “Perché sono scritti male”, ho concluso io al suo posto. “Esatto: perché sono scritti male”, ha confermato lei.

Ragionando su come fosse scritto “La Principessa Scimmia”, la mia prima riflessione ha analizzato la tecnica di scrittura. Come Rowling, sentivo la necessità di realizzare un testo leggibile ad alta voce e facilmente comprensibile anche dai ragazzi, e questo mi/ci ha obbligato a rifinire la prosa in un determinato modo. Ma la risposta, per quanto plausibile, non mi soddisfaceva appieno, mi sembrava incompleta.

Rileggendo il testo per l’ennesima volta (sempre dietro richiesta di mia figlia, che ama sentirselo leggere e partecipa emotivamente delle vicende) mi ha colpito l’efficacia dei dialoghi. Anche i più semplici, come ad esempio quelli che si sviluppano fra e con gli animali (personaggi che nella storia hanno tutti, intenzionalmente, un livello di complessità molto inferiore agli umani), restituiscono una sensazione di verosimiglianza.

Sensazione che, ragionandoci su, discende direttamente dal modo che ho usato per immaginarli, calandomi di volta in volta nel personaggio, pensandomi nei suoi panni all’interno della situazione, dandogli voce. Questa maniera di scrivere le battute mi è parsa, fin da subito l’unica possibile, per cui non sono stato a ragionarci troppo su. Ma poi mi sono dovuto confrontare con l’artificiosità dei dialoghi di altri autori.

Un dialogo appare evidentemente artificioso quando il lettore percepisce che ha l’unica funzione di mandare avanti la vicenda. Come molti ‘spiegoni’, che appaiono nei film per raccontare fatti avvenuti prima di quelli rappresentati, tanti dialoghi scritti finiscono col rappresentare non tanto le necessità dei personaggi, le loro urgenze, ma solo quella dello scrittore di condurre la storia verso la conclusione che ha immaginato.

Non mi è stato semplice ricostruire da chi, e dove, ho appreso il mestiere di scrivere i dialoghi. Sicuramente un grosso imprinting l’ho avuto dal laboratorio di scrittura teatrale cui ho partecipato una decina d’anni fa, condotto da Giampiero Rappa presso il Teatro Piccolo Re di Roma. Lì ci siamo confrontati con l’esigenza di dar voce ad un personaggio, di viverlo, di rappresentarlo in scena.

Il lavoro dell’attore richiede di essere, all’interno della rappresentazione, altro da sé; di provare le emozioni di un altro individuo, di dar loro un corpo, una fisicità, una credibilità. L’attore, il bravo attore, deve ‘indossare’ la vita del proprio personaggio, le sue fatiche, i suoi sogni, le sue ambizioni, e restituirle al pubblico.

Chi scrive per il teatro deve fare un lavoro analogo, ma partendo da zero. Deve immaginare un intero personaggio, con la sua vita, il suo passato, i suoi ricordi, il suo carattere, le sue emozioni, e tradurli in poche battute che siano vere, credibili, efficaci.

La stessa cosa deve fare un bravo scrittore. Con conseguenze analoghe a quelle che coinvolgono l’attore… ovvero che i personaggi, dopo essere stati ‘indossati’, finiscono col rimanerti dentro.

Stanko

Ieri sera ero a teatro, per la prima di un nuovo allestimento dello spettacolo Io sono Stanko di (e con) Giovanni Maria Buzzatti e Giselle Martino. La pièce ripercorre la storia personale di Stanko Lazendić e del movimento di opposizione nonviolenta Otpor, intrecciando a questa temi diversi legati ai Balcani, alla crisi delle dittature comuniste e, più immediatamente vicine a noi, all’immigrazione, alla cultura del popolo Rom ed alla sua difficile convivenza con le popolazioni stanziali.

Gli autori provano ad indossare i panni dell’altro, del “diverso”, proponendo al pubblico un analogo coinvolgimento. Il risultato è spaesante, e mi ha permesso di mettere a fuoco diverse idee. La prima è che dentro di me, nel mio essere ciclista, c’è un pezzetto di anima nomade, zingara, che mi fa preferire gli spazi aperti al chiuso degli edifici, il viaggiare sotto il sole e nel vento, che mi spinge ad esplorare gli anfratti della città, non di rado incontrando sul mio percorso baracche ed accampamenti.

Da questa terra di mezzo in cui vivo, da questa pulsione irrisolta, mi riesce forse più facile comprendere cosa muova queste persone a vivere in baracche e roulotte, a non avere né desiderare una patria, a conservare quest’idea assoluta di libertà, che per la maggior parte di noi gagé si è ridotta alla libertà di spendere danaro, spesso per acquistare giocattoli di nessuna utilità.

Più la nostra vita diventa comoda, chiusa ed artificiosa, più la vita dei Rom finisce con l’apparirci una negazione dei nostri presunti “valori”, una critica permanente all’asservimento ed all’istupidimento cui abbiamo scelto di sottostare accettando la disgregazione sociale dei quartieri dormitorio e delle periferie urbane, il solipsismo degli “appartamenti” in cui viviamo, per l’appunto, appartati da tutto e da tutti, sognando vite irreali per mezzo della tv.

Ma il nocciolo duro dello spettacolo è sulla tragedia della disgregazione della ex-Yugoslavia, che in Italia abbiamo vissuto da spettatori, impotenti e disinformati. Per quanto ci raccontiamo di essere un “popolo di santi e navigatori” quello che di certo non siamo è un popolo di viaggiatori. Gli italiani non sfruttano il periodo delle ferie lavorative per girare il mondo e conoscere altri popoli e culture: nella stragrande maggioranza passano quel tempo al mare, nelle seconde case di proprietà, in villaggi vacanze, ed anche quando vanno all’estero scelgono le strutture ricettive del turismo di massa.

Per questo anche di paesi a pochissima distanza dal nostro finiamo col non avere cognizione alcuna, e a derubricare quello che vi accade come “faccende troppo complicate”. Abituati a vivere in un “tempo immobile”, tutto quello che accade in luoghi dove la Storia sta passando proprio adesso ci spaventa, e spinge a distogliere lo sguardo.

Personalmente non mi considero granché migliore dei miei compatrioti, ma la curiosità mi ha portato, nel 2007, a percorrere in bicicletta le strade dell’Albania, e la scorsa estate, dopo una settimana in Croazia, mi ha spinto fin nel cuore della Bosnia-Erzegovina, a Sarajevo. Sull’Albania ho scritto moltissimo, sulla Bosnia quasi nulla… rimedierò qui.

A tanti anni di distanza, le ferite di una guerra fratricida risultano in gran parte ricomposte, ma le tracce di quel disastro sono state conservate, come monito per le generazioni a venire. La cosa che più colpisce intorno alle grandi città bosniache sono i cimiteri, migliaia di sepolture sulle colline circostanti, visibili da quasi ogni luogo.

Le città, al contrario, sono un calderone di culture e tradizioni diverse che riescono inaspettatamente a convivere. Sarajevo è una città dove puoi uscire da una chiesa cattolica, voltare l’angolo ed entrare in una sinagoga, voltarne un altro e trovarti di fronte una chiesa cristiana di rito greco-ortodosso, o più facilmente una delle onnipresenti moschee…

O la facciata di un palazzo crivellata dai colpi di un fucile automatico…

Un luogo dove tra le stradine pedonalizzate ed affollatissime del centro città puoi vedere due giovani amiche passeggiare chiacchierando animatamente, una col velo e coperta da capo a piedi con gli abiti della tradizione mussulmana, l’altra in short, canottiera ed infradito ai piedi…

Il fatto stesso che popoli e culture tanto differenti potessero (e finalmente possano di nuovo) coesistere pacificamente deve essere apparso come una provocazione inaccettabile ai movimenti nazionalisti, che periodicamente rifanno capolino quando le popolazioni sono strette dalla morsa di crisi finanziarie, economiche o politiche (è recente il caso della Grecia). L’ennesima dimostrazione di quanto sia precario l’equilibrio tra il bisogno di appartenenza ed omologazione da una parte e l’aspirazione alla libertà ed al confronto tra reciproche diversità dall’altra.

O, se vogliamo, di quanto sia critico il mantenimento di un contesto sociale capace di garantire libertà di espressione a differenti idee, culture, punti vista, filosofie, nonostante la storia dell’umanità abbia dimostrato come queste siano le condizioni ideali per il fiorire dell’arte, della cultura e della conoscenza.

E il pensiero vola al futuro prossimo venturo di questo mio disgraziato paese, incapace di comprendere la reale devastante portata dell’appiattimento culturale e della massificazione prodotte negli ultimi decenni da un sistema economico interamente votato all’accumulo di ricchezza ed al consumo sfrenato. Incapace di stabilire se quello che ormai è entrato nell’accezione comune con l’espressione “scenario balcanico” possa materializzarsi presto o tardi anche qui con altrettanta virulenza.

La Macchina dei Desideri

Ho avuto la fortuna, nel corso delle mie fugaci incursioni nel mondo del teatro, di incrociare la strada di Giampiero Rappa: autore, regista ed attore. Sin dal primo spettacolo, “Zenit”, ambientato all’interno di un istituto psichiatrico, mi colpì la sua capacità di narrare le vicende umane, l’asciuttezza ed essenzialità dei dialoghi, la totale assenza di fronzoli ed orpelli. Dopo “Zenit”, i lavori successivi (“Il Riscatto” e “Prenditi cura di me”) non fecero che rafforzare l’intuizione iniziale.

Nel 2009 ho partecipato al suo laboratorio di scrittura teatrale, presso il teatro “Piccolo Re di Roma”, esperienza che mi ha consentito di perfezionare una mediocre arte scrittoria e di portare in scena un testo redatto a quattro mani assieme a Laura Petroni: “Istantanee”. Dopodiché è iniziata la mia prolungata latitanza dai palcoscenici del teatro amatoriale, protrattasi fino ad oggi.

Il lavoro portato in scena nelle scorse settimane al teatro Piccolo Eliseo di Roma dalla compagnia teatrale “Gloriababbi teatro” di Genova, “La Macchina dei Desideri”, rappresenta la naturale evoluzione del percorso drammaturgico di Rappa: una fiaba morale che mescola vizi e virtù dell’animo umano e riecheggia in profondità molte delle dinamiche più deleterie dell’Italia attuale, trasfigurate nella figura di un “Sindaco” avido e narcisista e di una popolazione altrettanto piccola e meschina.

Nella vicenda, l’elemento di straniazione e fascinazione è rappresentato da una macchina in grado di realizzare (a pagamento) i desideri, e nel susseguente avvitarsi delle vicende personali di buona parte dei personaggi in una spirale autodistruttiva. La rivisitazione in chiave metaforica degli ultimi vent’anni di storia di questo paese è solo una delle tante possibili chiavi di lettura.

In realtà i temi affrontati sono ancora più universali e profondi, dal potere corruttore della ricchezza e dell’avidità all’investimento di eccessive aspettative nella soddisfazione dei propri desideri e pulsioni, il tutto in una cornice narrativa profondamente essenziale, con dialoghi serrati e spesso esilaranti ed un ben calibrato gusto del grottesco.

La struttura fiabesca dell’impianto narrativo consente di glissare sui dettagli secondari e sulla stretta verosimiglianza delle situazioni, trasportando lo spettatore in un mondo dove i confini tra giusto e sbagliato, gli effetti delle scelte individuali e la consequenzialità delle diverse situazioni sono più facilmente interpretabili e comprensibili… senza per questo sacrificare nulla del puro piacere di partecipare alla vicenda narrata (e di questo ne è stata testimonianza la reazione fortemente positiva del pubblico in sala).

Da appassionato del genere fantastico e della narrativa metaforica in genere non ho potuto mancare di cogliere affinità con altri lavori. Sul piano dell’uso teatrale del grottesco, e più in generale sulla tematica di un gruppo sociale dominato da una figura dittatoriale, il primo richiamo è a “La resistibile ascesa di Arturo Ui”, di Brecht (anche per averlo recentemente visto in scena al teatro Argentina, nell’allestimento di Umberto Orsini).

La struttura di apologo etico/morale della vicenda mi ha invece rammentato il romanzo “Cose preziose” di Stephen King, ambientato in un villaggio in cui l’apertura di un negozio di rarità ad opera di un essere diabolico e sovrannaturale ha il potere di stimolare il lati peggiori dell’animo umano e distruggere la rete relazionale dell’intera comunità.  Riguardo all’esaudimento dei desideri, la presa di coscienza di uno dei protagonisti riecheggia il finale di “Picnic sul ciglio della strada”, straordinario romanzo russo di fantascienza scritto dai fratelli Strugatzki e dal quale il regista Andrej Tarkovskij ha tratto il film “Stalker”.

Per altri versi la forma fiabesca della vicenda, pur con i suoi risvolti crudeli ed amari, si inserisce nel solco della grande tradizione europea, fondendo elementi di crudeltà tipici dei fratelli Grimm con il gusto per il grottesco che non posso non associare all’epoca d’oro dei cartoon Disney. Non mi stupirebbe affatto ritrovare “La Macchina dei Desideri”, fra non molto, portata sul grande schermo in un film di animazione.

In un periodo storico in cui il mercato dell’intrattenimento è dominato dalla spettacolarità a tutti i costi, dalla cultura dell’eccesso e dalla volontà narcisistica di superare i limiti di quello che si è osato in precedenza, Giampiero Rappa continua a fare con semplicità, rigore ed eleganza il mestiere che si è scelto: quello di raccontare storie, necessarie chiavi di lettura di quello che ci accade intorno quotidianamente. E di questo lo ringraziamo sentitamente.

Mi ha anche fatto molto piacere rivedere in scena un altro dei miei maestri di teatro: Massimiliano Graziuso, in due ruoli comici nei quali dà il meglio di sé. Ma a questo punto non posso non rimarcare l’estremo affiatamento e professionalità di tutto il collettivo di Gloriababbi Teatro, che da anni ci regala lavori coinvolgenti ed emozionanti.

L’uomo della sabbia

Passati gli anni dei laboratori teatrali al Piccolo Re di Roma, quello che mi è rimasto è un gusto difficile da soddisfare. Il teatro, devo dire purtroppo, è ormai una forma di intrattenimento “di nicchia”: pochi gli spazi, pochi i frequentatori abituali, poche le occasioni di lavoro per attori e registi, col risultato di un inevitabile scadimento qualitativo della media dei prodotti. In questo scenario complessivamente poco entusiasmante il regista Luca De Bei rappresenta a mio modesto parere una brillante eccezione.

Pur proponendo lavori molto diversi tra loro, dal biografico “Un cuore semplice” al pasoliniano “Le mattine dieci alle quattro”, la sua capacità di trascinare lo spettatore in un mondo diverso e totalmente altro resta immutata. Stavolta sceglie di misurarsi col racconto gotico ottocentesco, terreno sicuramente non facile.

Il racconto di Hoffman, dal quale De Bei ha tratto un adattamento teatrale, rappresenta un compendio delle paure e delle ansie di due secoli fa, il che lo rende molto difficile da trasferire alla sensibilità contemporanea. Non viviamo più in case isolate, buie e fredde, illuminate da candele, e le cose che ci spaventano sono molto diverse.

La storia ha una forte connotazione legata al genere narrativo cui il racconto appartiene, anche se forse ai giorni nostri la continua rivoluzione dei riferimenti sociali e culturali ne renderà la decifrazione impossibile ai più. Il racconto gotico si colloca infatti sullo spartiacque tra l’immaginario puramente fantastico ereditato dalle epoche precedenti e l’incalzare delle rivoluzioni scientifiche che caratterizzano il periodo storico in cui vede la luce, che culmineranno nell’esaltazione della scienza con Jules Verne per divenire narrativa “di genere” col nome di “fantascienza” nei primi decenni del ventesimo secolo.

Nonostante le difficoltà dovute al salto epocale, grazie ad un allestimento estremamente minimale e puntando tutto sulla bravura di quattro giovani attori la magia si compie ancora una volta, e lo spettatore viene trascinato indietro nel tempo, mentre con la fantasia le ombre che circondano il palcoscenico assumono di volta in volta l’aspetto di case antiche, chiese, manicomi.

“L’uomo della sabbia” è un lavoro in primis sulla follia strisciante, che pian piano si impossessa del protagonista in un processo lento ma inarrestabile, ma anche sulla perdita di controllo, e di sé, sull’ossessione, sul delirio, e sopra tutto sul fallimento dell’amore come forza taumaturgica e salvifica. Nei quattro protagonisti si incarnano gli istinti primordiali dell’essere umano: il terrore, l’affetto, la determinazione, la crudeltà, il cinismo, suscitati dall’emergere dei mostri dell’inconscio.

Stupisce ancora una volta con quanta facilità ed efficacia De Bei riesca a maneggiare gli archetipi culturali per gettare una raggio di luce sull’eterna tragedia umana. Passando, oltretutto, per la strada più difficile.

P.s.: un ringraziamento particolare (ed un abbraccio) a Giselle Martino, amica e compagna di pedalate e battaglie di civiltà nel movimento #salvaiciclisti, che nell’allestimento interpreta il personaggio di Clara.

Le mattine dieci alle quattro



Ho avuto modo di assistere al lavoro teatrale che Luca De Bei propone in questi giorni al Teatro Sala Uno, "Le mattine dieci alle quattro". L’impianto scenico racconta un’anonima fermata d’autobus della periferia romana dove ogni mattina tre ragazzi si incontrano sulla via di lavori in nero e sottopagati. L’insistente (e supponente) pensiero iniziale dello spettatore romano "ok, cosa puoi raccontarmi che non sappia già?" si dissolve dopo pochi minuti.

De Bei, nel raccontare il nostro presente, ci apre gli occhi su un mondo di violenza e quotidiana sopraffazione al quale siamo ormai talmente assuefatti da non riuscire più a coglierne confini e pervasività. Lo fa con una tale semplicità, con una tale sconcertante leggerezza che lo spettatore non può fare a meno di domandarsi come sia stato possibile non rendersi conto, non vedere l’abisso nel quale stavamo precipitando, l’inferno in cui siamo sprofondati.

L’apparato scenico è ridotto all’essenziale: nude pareti grezze coi mattoni in vista, una tettoia scheletrica, nebbia, sonorità stridenti ed un "autobus" che, come mostro emerso dagli incubi, appare periodicamente ad inghiottire i personaggi e le loro povere vite.

I protagonisti sono del tutto identici ai ragazzi che ci camminano accanto sulle via dello struscio domenicale, alle commesse dei negozi, alle "sciampiste" che incontriamo dal parrucchiere. Giovani cresciuti senza istruzione e senza speranze di una vita migliore, disposti ad accettare lavori faticosi ed usuranti pur di conquistare un minimo di riscatto sociale, incastrati senza speranza in un meccanismo collettivo pronto a stritolarli senza pietà al minimo cedimento.

Li seguiamo all’inizio "bulleggiare", esibendo quel carapace di durezza ed aggressività che è la loro unica risorsa di fronte al mondo ostile, poi innamorarsi e sciogliersi, confessarsi i reciproci disagi e sofferenze: famiglie a pezzi, lavori orribili e sottopagati, le notti inutili perse in uno "sballo" scambiato per divertimento, la speranza di una vita migliore impossibile persino da immaginare.

Seguendo la vicenda monta lentamente un senso di ingiustizia per questi nuovi poveri che ci vivono accanto, le giovani vite predate, le moderne forme di schiavitù che, con distacco ed indifferenza, tolleriamo siano imposte ad altri, il brutale cinismo del mondo. Usciamo dalla rappresentazione con addosso una sensazione di sorda rabbia e disperazione.

Mancava, in questi anni di torpore culturale, un regista in grado di recuperare la lezione di Pasolini e riproporla aggiornata ai nostri tempi, in grado di raccontare il vuoto e lo squallore di periferie urbane disperate, dove giovani vite sbocciano ed appassiscono, o muoiono, nell’indifferenza più totale. De Bei prova, a modo suo, senza clamori o prese di posizione ideologiche, a smuovere le nostre coscienze narcotizzate, a restituirci la percezione del dolore e della disperazione che da sempre vivono ai margini estremi delle nostre città.

Una nota di merito va agli attori Federica Bern, Riccardo Bocci e Alessandro Casula, che riescono a dar vita a personaggi veri e perfettamente definiti, senza autocompiacimenti o inutili enfasi, e ad inserirsi alla perfezione nel testo e nella regia di De Bei. Lo spettacolo resterà in scena ancora un po’ di giorni… se potete, cercate di non farvelo scappare.

Tardivi momenti di consapevolezza

Istantanee

Alla fine, il laboratorio settimanale che mi ha tenuto impegnato negli scorsi mesi presso il teatro “Piccolo Re di Roma” ha partorito l’atteso saggio: “Istantanee”. Siamo andati in scena con tre “corti” scritti da noi, come prevedeva il lavoro sulla drammaturgia propostoci all’inizio dell’anno da Giampiero Rappa, tre lavori molto diversi l’uno dall’altro.Nel primo, “Fuori fuoco”, io e Laura abbiamo messo in scena una coppia di amici alle prese con la crisi del matrimonio di lei e con una “resistibile” attrazione reciproca, che non sfocerà in un lieto fine.

Nel secondo, “Zuppa zen”, Sara, Cinzia e Rinalda hanno raccontato un frammento della vita di tre donne, una famiglia tutta al femminile, con due figlie in crisi coi rispettivi uomini e la madre, vedova da lungo tempo, che improvvisamente ritrova l’amore.

L’opera finale, “Soray”, immaginata da Ilaria ed Annalisa, ha affrontato il delicato tema della follia e del doppio, con un uso molto più libero dello spazio e delle forme narrative, abbinando dialoghi e monologhi ad una gestualità fortemente simbolica, condita con momenti di danza.

È stato, a suo modo, un corso atipico rispetto ai precedenti. Il fatto di dividerci per sviluppare temi diversi ha dapprima frammentato il gruppo, ma col passare delle settimane la consapevolezza di stare lavorando ad un unico spettacolo ed il continuo feedback reciproco operato durante le prove ha finito col ricompattarci. Il pubblico ha apprezzato il risultato finale, gratificandoci con applausi e ringraziamenti non di circostanza. Tutto perfetto, quasi “da copione”, se non fosse per un retrogusto amarognolo molto più intenso che negli anni passati, dovuto a diversi fattori.

In primis la sensazione di un ennesimo “capitolo chiuso”, un’altra esperienza dietro le spalle cui non farà seguito nulla se non, forse, un nuovo laboratorio l’anno successivo che si aprirà e richiuderà su se stesso esattamente come i precedenti. D’altronde, che prospettive di crescita può avere un attore dilettante quando non c’è lavoro, o meglio non c’è pubblico, nemmeno per i professionisti? Il teatro è un’esperienza di cui questa società è ormai convinta di poter fare a meno, avendolo sostituito con cinema e dosi ipermassicce di televisione, e i risultati (ahinoi) sono sotto gli occhi di tutti.

Altra constatazione amara è legata a quella che potrei definire “la solitudine dell’artista”. In tre serate, ed escludendo Emanuela, gli amici venuti espressamente a vedere il mio spettacolo sono stati solo quattro: Elena, Gianni, Fabrizio e Viviana che qui ringrazio formalmente. Altri non hanno potuto causa influenza, altri ancora per problemi familiari, ma la maggior parte, che si potrebbe stimare in diverse decine di persone, parecchie decine per la verità, è completamente mancata all’appello, scomparsa.

C’è un fatto, che probabilmente non è tanto chiaro a chi ha col teatro una frequentazione occasionale: uno spettacolo non è fatto solo dagli attori, non vive indipendentemente dal pubblico. La comunicazione che si sviluppa non è unidirezionale come quella del cinema o della televisione ma viaggia avanti e indietro. Lo spettacolo cambia a seconda di come il pubblico reagisce, perfino di come respira. Ho recitato per un pubblico estraneo, a posteriori me ne rendo conto. Un po’ come dev’essere per gli attori professionisti… sensazione strana e non particolarmente piacevole.

C’è, inutile dirlo, una volontà comunicativa frustrata. Mettere in scena una “pièce” è come raccontare una storia, un pezzo di sé, ma con un investimento enormemente maggiore in termini di impegno, energie, organizzazione scenica. Serve un teatro con un palcoscenico, dei costumi, degli oggetti di scena, un tecnico che cambi le luci ed inserisca la musica, un regista… insomma una costruzione che dura settimane per uno spettacolo normale, e addirittura mesi per dei dilettanti come noi. Alla fine di tutto questo percorso chi c’era ad ascoltare la mia “storia”, a viverla? Estranei. Chi ci sarà a discuterne con me? Quasi nessuno/a.

Sia ben chiaro, non voglio “buttare la croce addosso” a chicchessia: penso che di questa situazione la responsabilità sia in gran parte del sottoscritto. Mia la scelta, nel corso degli anni, di diluire le frequentazioni estendendole a gruppi di discussione on line, alle mailing list, ai forum, a decine se non centinaia di “presenze virtuali”… che alla fine virtuali restano. Mia la pretesa che contatti quotidiani via Facebook, o i Blog, o Cicloappuntamenti, potessero efficacemente sostituire una presenza concreta, un contatto interpersonale vero. Sbagliavo.

Mi è tornato in mente un film visto diversi anni fa, “Hello Denise“, nel quale veniva rappresentata la vita quotidiana di un gruppo di amici sparpagliati in una grande città, New York, il loro incessante dialogare via telefono ad ogni ora del giorno e della notte ed il continuo rincorrersi e ripetersi reciproco: “dobbiamo vederci, dobbiamo vederci”. Quando poi, alla fine del film, uno di loro organizza finalmente la cena per incontrarsi, gli altri non ci vanno: uno dopo l’altro arrivano fin sulla soglia della sua abitazione e non trovano il coraggio, o la motivazione, per suonare il campanello ed entrare.

A torto o a ragione mi sento esattamente così. La tentazione, in questa fase, è di azzerare tutto, ma non è così semplice… come pure non può esserlo continuare sulla stessa strada di sempre. Sarà l’ennesimo “momento di riflessione”. Non preoccupatevi troppo se per un po’ la mia “presenza virtuale” diventerà più evanescente, o se lo diventerà in via definitiva. Non è una minaccia, al più è una speranza.

Roadmap

Questo periodo dell’anno è particolarmente denso di attività che mi rendono difficile trovare il tempo di inserire nuovi post nel blog.


Il prossimo fine settimana, con partenza venerdì sera e ritorno lunedì, sarò al paesello nelle Marche per un po’ di pedalate (tornerò sul leggendario monte Catria) e l’appuntamento con la tappa marchigiana del Giro d’Italia. Mi sono sempre chiesto cosa si provi ad aspettare la corsa in cima ad una montagna, ora forse lo scoprirò.


Il weekend successivo si terrà a Roma la quinta edizione della Ciemmona, per chi non sapesse di che si tratta consiglio la lettura di questa "fotocronaca" dell’edizione 2007.


Per chiudere "in bellezza", dal 5 al 7 giugno sarò in scena al teatro Piccolo Re di Roma per il saggio di fine corso. Quest’anno ci siamo cimentati con la scrittura teatrale, per cui metteremo in scena opere prime ed inedite di autori emergenti: noi.

Insomma, se nelle prossime settimane vi sembrerò "poco presente" non preoccupatevi troppo.

Il Pinocchio di Ursula

Chi mi conosce sa che non ci si può mai aspettare esattamente come reagirò ad una determinata situazione. Perfino sul lavoro, dove comunque fra colleghi non ci si prende eccessivamente sul serio, al di là delle battute a volte mi capita di mimare gesti e modi di attori famosi. Ad esempio, giorni fa, la camminata di Alberto Sordi in un film degli anni ’70.

Queste piccole forme di "clownerie" non sono esattamente tipiche del comportamento adulto, dove invece domina l’autocontrollo e si cerca di dare di sé un’immagine seriosa ed artefatta. Al punto che mi è sorta la domanda: "ma perché lo faccio?" Domanda non banale, che ha richiesto una risposta non banale, arrivata d’istinto: "perché sono un attore".

Ed in effetti è una risposta che ha stupito un po’ anche me. Già sentivo una vocina in fondo alla testa obiettare: "ma a chi vuoi darla a bere, tu sei un disegnatore meccanico, un ciclo-escursionista, un fotografo dilettante, un appassionato di astronomia, forse, ma un attore! Dai, solo per aver fatto due o tre laboratori teatrali… ci vuol ben altro. Gli attori veri sono quelli che lo fanno per professione".

Proprio a quel punto mi è tornato in mente Tizzano Val di Parma, il concorso "L’Ermo Colle", il "Giardino dei ciliegi" di Checov, e quella pazza estate di due anni fa. Erano mesi che non ci pensavo più, come capita in genere per tutte le cose troppo incredibili che ci sono accadute, cancellate giorno dopo giorno dai comportamenti ripetitivi ed abituali, dai riti della quotidianità.

"Io sono un attore", ho realizzato a due anni di distanza "perché sono salito su quel palco, di fronte ad un pubblico sconosciuto, ho recitato e mi hanno applaudito". Sono un attore perché lo sono stato, e non si torna indietro. Probabilmente ero troppo esausto per capirlo allora, ma adesso mi è assolutamente evidente, lampante come una consapevolezza tardiva.

Gianluca Bondi, che aveva curato il nostro percorso artistico e ci aveva trascinato nell’impresa, aveva provato a farcelo capire. "Ora non ve ne rendete conto", ci disse, "ma questo per voi è un momento davvero importante". Era vero.

E appunto in questi giorni vanno in scena, al teatro Piccolo Re di Roma, le ultime repliche dello spettacolo "Pinocchio", di Ursula Bachler. È un lavoro bello, straniante e commovente, basato sull’opera di Collodi e sulla rilettura della stessa fatta da Carmelo Bene diversi anni or sono. Lo avevo visto rappresentare un paio d’anni fa, come saggio di fine corso, e mi era talmente piaciuto che, questa volta, oltre ad andarmelo a rivedere ho allargato l’invito ad un bel po’ di amici e conoscenti.

Locandina Pinocchio

Il nuovo allestimento è, ovviamente, migliore. A differenza di un saggio di fine corso, in cui il livello tecnico degli attori è abbastanza variabile, la compagnia messa in piedi dal "Piccolo Re", pur composta da non professionisti, si muove compatta su livelli espressivi molto alti. Uno spettacolo sicuramente faticoso, sia sul piano fisico che su quello emotivo, una lunga sarabanda onirica che trasferisce i terrori infantili al mondo degli adulti, restituendoci una visione grottesca e deformata della fiaba, capace di dialogare direttamente col nostro inconscio.

È stata una curiosa rimpatriata, l’altra sera. Tra il pubblico i compagni "di bicicletta" da me coinvolti accanto ai corsisti del laboratorio del giovedì, ed in scena amici ed amiche con i quali ho calcato le scene negli anni passati. Una bella fetta delle cose migliori che ho vissuto negli ultimi tempi. Un’occasione per tirare un po’ di bilanci.

In primo luogo, perché fare teatro? I motivi possono essere molti e diversi, ma al fondo di tutto c’è la spinta a cercare e scoprire qualcosa di nuovo, che non conosciamo ancora. Qualcosa di diverso, in noi e negli altri. E questa è la prima evidenza che mi ha colto: non c’è niente di più noioso del fare le cose che già sappiamo fare.

Poi ci metterei una componente di sana follia, il desiderio di ritrovare qualcosa che avevamo, e ci rendiamo conto di aver perso per strada. Si entra in questo gioco proprio per riscoprire l’importanza del gioco. E questo è un altro punto essenziale che ho capito. È una cosa che da bambini sappiamo benissimo, ma impieghiamo anni a disimparare: il gioco, nella vita, è l’unica cosa vera ed importante.

La solitudine, o l’essere solo sé stessi

Da quando ho aperto questo blog tutto quello che mi capita di leggere trova qui un suo spazio, in cui cerco di raccontare anche un po’ di quello che le idee dell’autore mi hanno lasciato. Fin qui l’unico romanzo a sfuggire a questa “regola” è stato Sezione Pi-quadro, un racconto di fantascienza ambientato in una Napoli “cyberpunk” che mi è parso un puro esercizio di stile, citazioni di genere e luoghi comuni, e che non mi ha trasmesso nessuna emozione veramente profonda o idea particolarmente innovativa.

Ora la stessa cosa stava per accadere con La solitudine dei numeri primi, premio Strega 2008 dell’esordiente Paolo Giordano. Dopo più di una settimana dal completamento della lettura, non avrei saputo spiegare il fatto che questo libro non mi avesse sostanzialmente lasciato nulla da dire. Il perché mi si è chiarito in parte solo questa mattina.

Il romanzo narra le vite di due giovani, vittime di traumi profondi in tenerissima età, che scorrono parallele, si intersecano, ma non riescono mai a tramutarsi in qualcosa di soddisfacente, né per sé stessi, né per gli altri. Ognuno dei due vive il proprio disagio psichico alienandosi dal mondo emozionale e rifugiandosi in forme più o meno consapevoli di autolesionismo.

Il finale, poi, non risolve nulla della vicenda, limitandosi a riproporre, a ruoli invertiti, le stesse non-scelte che hanno guidato i protagonisti dall’inizio della storia. Un finale aperto, o più probabilmente un non-finale, che solleva l’autore dall’emettere un giudizio morale sull’intera questione.

Non nego di aver provato, nel corso della lettura, momenti di affinità spirituale coi personaggi. Come un guardarmi in uno specchio deformante e riuscire ugualmente a riconoscermi. Ma quello che a mio parere manca all’intera vicenda è un riscatto, una soluzione, qualcosa che consenta di apprezzare e provare empatia per questi personaggi, che al contrario appaiono semplicemente incompleti, freddi, già morti.

La chiave di lettura per comprendere il mio disagio nei confronti di questo libro mi è stata data giovedì scorso, al teatro “Piccolo Re di Roma”. Dopo il mio “anno sabbatico” ho deciso infatti di ributtarmi nell’esperienza teatrale, constatando immediatamente quanto quello spazio di riflessione e confronto mi fosse mancato negli ultimi tempi.

Un esercizio in particolare mi ha messo di fronte alla difficoltà che potremmo definire di “essere altro da sé”: a coppie di due abbiamo scritto un “mini testo” di quattro battute e l’abbiamo messo in scena. Quando il nostro insegnante ci ha proposto una chiave di lettura diversa della situazione che stavamo interpretando, invitandoci a dare ai nostri personaggi delle connotazioni leggermente differenti da quelle in cui li avevamo pensati, sono immediatamente andato in crisi.

In una situazione in cui io avrei reagito evadendo il conflitto mi si chiedeva di cercarlo, in una situazione in cui io avrei voluto allontanarmi per evitare il degenerare di una situazione mi si chiedeva di “sfidare”. Non ero in grado di distinguere il mio personaggio da me, e questo per un attore è un limite grave.

A freddo mi sono reso conto che il problema consisteva nell’essermi calato in una “situazione”, ma non in un personaggio, e quello che stavo facendo era in sostanza mettere in scena me stesso, le mie emozioni e le mie reazioni agli eventi che le battute di testo delineavano. Di fronte ad una identica situazione alcuni reagivano con più flessibilità, dando corpo ad emozioni e stati d’animo molto diversi, mentre altri, come me, rimanevano prigionieri delle reazioni loro proprie.

Stavo ragionando su questo, nell’intenzione di scriverci un post, mentre allo stesso tempo stavo ragionando sullo scrivere qualcosa riguardo al libro di Giordano, finché non mi sono reso conto che si trattava, in sostanza, di un unico argomento: l’incapacità di essere altro da sé, l’incapacità perfino di voler essere altro da sé.

I personaggi di Giordano hanno questa caratteristica: sono riluttanti al cambiamento. Riluttanti in maniera assoluta, patologica, rifiutano ostinatamente qualsiasi possibilità di essere diversi, ivi compresa la possibilità di poter essere felici, o quantomeno di provare ad esserlo.

Riconosco questa cosa perché incapace di cambiare lo sono stato anch’io, a lungo, ma ho anche compreso l’errore. E nonostante la riluttanza (che ancora, come già detto, trova modo di manifestarsi), penso di essere un po’ più duttile alla trasformazione, anche se non mi è un processo troppo congeniale.

Allo stesso tempo mi resta utilissima l’esperienza dei laboratori teatrali, che emula a suo modo il meccanismo cerebrale dei neuroni specchio: ci aiuta a comprendere gli altri mimando le loro azioni e reazioni. Comprensione che, al contrario, i protagonisti de “La solitudine dei numeri primi” pare non ricerchino mai, deliberatamente.

Ecco cosa non sono in grado di perdonare all’autore del libro ed ai personaggi che mette in scena: il fatto che siano sostanzialmente inutili, a sé stessi e agli altri (se non incidentalmente, attraverso una brillante scoperta matematica), scientemente, senza volontà né desiderio di cambiamento, in una fissità congelata che riflette una cupa e passiva attesa degli eventi, vissuti quasi in terza persona.

Questo libro lascia il lettore senza speranze, per i protagonisti come per le persone che orbitano loro intorno. Alla fine non si riesce a provare empatia né umana comprensione per individui che si trovano a proprio agio solo nello star male. Ed è questo, per me, il limite della vicenda: non offre strumenti né speranze di salvezza. Che invece esistono, eccome!

Abbiamo camminato sulla Terra come giganti

A volte torno a visitare il “Mammifero” solo per rendermi conto che sono giorni che non inserisco nulla. Poi faccio mente locale e realizzo il motivo di questa “assenza”: stanno accadendo troppe cose contemporaneamente.

La scorsa settimana è scoppiato il bubbone del “Bicycle Mobility Forum” e la gente che partecipa ed anima la CriticalMass romana è salita sulle barricate ottenendo, mercoledì, un incontro con la Città dell’Altra Economia che ha praticamente rimesso in discussione le date, la natura ed anche la collocazione fisica dell’evento.

Ravvedimento tardivo, ma necessario. Ora seguiranno ulteriori passi a garanzia del massimo allargamento e della massima partecipazione e condivisione con tutta la comunità dei ciclisti romani.

Ieri sera abbiamo raccolto le energie per andare a vedere uno spettacolo teatrale al Piccolo Re di Roma: “L’età dell’ansia”, tratto da W. H. Auden per la regia di Gianluca Bondi. Sarà che è stato nostro insegnante e regista, ma ormai io e Manu ci ritroviamo istintivamente sulla sua stessa lunghezza d’onda, e non possiamo che rimanere affascinati dal suo stile visionario ed onirico, e dall’uso che riesce a fare anche di un piccolo palcoscenico.

Spettacolo straniante ma miracolosamente coinvolgente, con un equilibrio magistrale di testo, gestualità e situazione scenica, racconta una non-storia, attraverso frammenti del romanzo di Auden, restituendo un affresco sulla condizione umana, i suoi drammi e la sua disperata ricerca della felicità. Un lavoro che meriterebbe ben altro successo e ben altra attenzione che la manciata di spettatori di ieri sera… ma purtroppo, come dice Manu, le cose migliori sono per pochi.

Altrettanto pochi erano stamattina all’appuntamento con CicloKidz, nel parco della Caffarella. Nonostante le numerose telefonate, i contatti personali e le assicurazioni di partecipazione, sembra che l’umanità sia stata, in questa settimana, flagellata dalle piaghe bibliche, sicché uno dopo l’altro tutti gli entusiasti sostenitori dell’iniziativa, adducendo motivazioni incontestabili, sono evaporati.

Questo fatto mi ha lasciato un amaro in bocca che invece non voleva proprio “evaporare”. Tra ieri sera e stamattina ho rimuginato sul paradosso in cui tutti mi dicono: “iniziativa geniale, entusiasmante, da portare avanti!”, e nessuno si fa poi carico di essere presente di persona. Un po’ come dire: progetto bellissimo, ma fatelo senza di me.

Poi siamo partiti, e i bambini (tre!) mi hanno ripagato di tutta la fatica nel perorare la causa, hanno esplorato il parco con occhi sgranati, consapevoli dell’avventura cui stavano partecipando, hanno spinto le biciclettine sulle salite e si sono arrampicati sull’antica cisterna, che ho raccontato loro essere un castello.

I loro sorrisi hanno sciolto il mio malumore, ma non la rabbia per tutti quei genitori, zii, parenti ed amici che ad altrettanti bambini hanno negato quest’esperienza. CicloKidz proseguirà, ma per adesso io e Sergio ci prendiamo una pausa di riflessione, e magari i bambini li portiamo a pedalare lo stesso, senza necessariamente perseverare nell’estenuante ed infruttuoso tentativo di coinvolgere altra gente.

Mi sento di condividere con Gianluca Bondi questo destino infausto, spendere sforzi generosi ed inesausti per raccogliere solo le briciole, aggravato nel mio caso dal disastro che a lungo andare produco nel campo dei rapporti umani. Sembrerà paradossale, ma uno dei pensieri fissi della settimana è stato domandarmi come mai dalle persone riesco a tirar fuori il peggio. Un “peggio” che vorrebbe restarsene lì acquattato, nascosto, senza fare troppi danni, e che invece io stano fuori a produrre disastri.

La fotografia del momento attuale si può riassumere nelle due righe di un pensiero che formulai diversi anni fa, di fronte all’ennesimo disarmante sfacelo:

“Abbiamo camminato sulla Terra come Giganti
lasciando dietro di noi solo macerie”