Di base, i meccanismi di inganno esistono in natura poiché generano vantaggi per gli individui che li adottano. Il mantello mimetico di alcuni animali è ingannevole, diversi predatori attraggono le prede esibendo parti del proprio corpo modellate in modo da sembrare altro, alcuni pesci esibiscono una macchia scura in prossimità della coda che induce i predatori a credere che si tratti di un occhio (e ad aspettarsi che il pesce nuoti in quella direzione, mentre fuggirà nella direzione opposta).
L’origine di queste modalità di inganno è però evolutiva, non derivante da una scelta deliberata: gli animali che, in seguito a mutazioni, si mimetizzano meglio, o sono più capaci di attirare le prede, o di sfuggire alla cattura, sopravvivono e si riproducono con maggior facilità rispetto agli altri più facilmente individuabili.
Questo per quanto attiene le caratteristiche morfologiche. Analogo discorso vale per i tratti comportamentali: un predatore che si muova silenziosamente inganna la preda, illudendola di essere al sicuro. Ma è un comportamento che discende dallo stesso motore evolutivo: il predatore più silenzioso caccia con maggior successo, sopravvive e si riproduce meglio di quello più goffo.
Negli esseri umani, dotati di cervelli di maggiore complessità, le strategie di inganno e dissimulazione discendono piuttosto da scelte deliberate, e possono essere mirate ad ottenere vantaggi di diverso ordine. Si possono ingannare le prede nel corso di una battuta di caccia, ma si possono ingannare anche i compagni di caccia, per approfittare di qualche risorsa rara e preziosa.
Idealmente l’inganno tra individui in mutua relazione si colloca a metà strada tra le dinamiche di cooperazione e competizione, risultando in un’asimmetria comportamentale. Nella cooperazione e, analogamente, nella competizione, gli individui coinvolti sono consapevoli di stare attuando un medesimo comportamento: entrambi cooperano, o competono.
Nella dinamica di inganno questa simmetria viene a spezzarsi: il soggetto ingannato è convinto di trovarsi in una dinamica di cooperazione (o al limite di essere quello dei due che ne trarrà il maggior vantaggio) mentre l’altro sta operando unicamente nel proprio personale interesse.
Si torna, in qualche modo, al dualismo cooperazione versus competizione, ma con un ulteriore elemento di complessità: l’intelligenza. In un gruppo, intelligenza e prestanza fisica sono i due fattori desiderabili, e devono essere entrambi oggetto di selezione naturale, pena un declino della specie, che su entrambi basa la propria speranza di successo.
Se l’ordine gerarchico viene stabilito unicamente per mezzo di un confronto fisico, poco spazio resta per la selezione e l’evoluzione degli individui più intelligenti, nel momento in cui questi si dimostrassero fisicamente poco prestanti. L’inganno svolge quindi un ruolo evolutivo, favorendo la sopravvivenza ed il successo riproduttivo degli individui più intelligenti in parallelo a quelli più forti.
Ecco quindi il primo nodo della questione: non possiamo eliminare l’inganno, né tutti i suoi portati deleteri, senza privare la collettività di uno strumento in sé evolutivamente efficace. Analogamente, non possiamo rinunciare del tutto a violenza ed aggressività, pena il rischio di perdere la capacità di fronteggiare aggressioni da parte di altri gruppi.
Potremmo definire sia i duelli per l’ordine gerarchico che l’inganno come comportamenti auto-competitivi della collettività. Chiaramente il loro esercizio non risulta privo di conseguenze. Gli scontri fisici, se eccessivamente violenti, peggiorano la condizione di salute dei singoli individui, esponendoli al rischio di danni permanenti, infezioni e morte. Parimenti un eccesso di inganno nelle relazioni può disgregare il gruppo, diminuendo la fiducia reciproca fra i singoli membri e la capacità di operare in sinergia.
L’equilibrio, perennemente instabile, del gruppo umano dipenderà quindi dalla capacità che esso avrà nel gestire questi comportamenti auto-competitivi, affinché svolgano la loro funzione positiva arrecando, nel contempo, il minor danno possibile. Questa funzione è largamente mediata dall’impianto culturale, dalle tradizioni, dall’osservanza di leggi e regole che il gruppo acquisisce o si dà.
Ma non è possibile azzerare del tutto i comportamenti auto-competitivi, perché il rischio sarebbe di rendersi progressivamente meno capaci di procurarsi cibo e risorse, e più deboli in caso di aggressioni da parte di altri gruppi. È una formulazione diversa, se vogliamo più esatta, di quello che molti anni fa ebbi a definire come “il Paradosso Maori”, sintetizzabile in: ‘non si può pensare di costruire un’utopia localizzata’[1].
Negli approfondimenti a venire proverò ad analizzare come tutto ciò si rifletta sulla vita e le abitudini di una collettività e, soprattutto, i riflessi della pratica dell’inganno sulle dinamiche relazionali fra IdeoCulture [2].
Anni fa mi imbattei , per quanto impropriamente (in un romanzo di fantascienza, “Terra”, di David Brin [1], di cui ho già trattato in passato [2]), nel modello del dualismo tra cooperazione e competizione, due modalità comportamentali contrapposte in grado di plasmare i processi evolutivi. Una descrizione delle dinamiche relazionali che trovai molto semplice ed elegante.
In estrema sintesi, gli esseri capaci di comportamenti sociali tendono a riunirsi in gruppi, al cui interno si sviluppano due dinamiche contrapposte: cooperazione e competizione. Gli individui tendono a cooperare con gli altri per soddisfare le proprie necessità (cibo, sicurezza, difesa dei cuccioli, ecc…), e contemporaneamente a competere per ottenere il massimo di quanto realizzato/raccolto.
L’equilibrio tra queste due pulsioni contrapposte garantisce l’efficacia del gruppo nella sua dimensione sovra-individuale. Un eccesso di competizione tra i membri danneggia la coesione e la capacità di agire in maniera concertata, un eccesso di cooperazione indebolisce fisicamente i singoli individui, ed in prospettiva l’intera comunità. Il dualismo cooperazione/competizione rappresenta modello semplice ed elegante, in grado di descrivere correttamente un ampio ventaglio di situazioni.
Purtroppo, per citare Henry Louis Mencken: “per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice, verosimile e sbagliata”[3]. Ci ho messo parecchio a stabilire che, a differenza di quanto accade nella quasi totalità del regno animale, nelle azioni umane è presente un terzo comportamento, intermedio tra i due indicati, che etichetterò semplicemente come ‘inganno’. È davvero sorprendente constatare che il semplice individuarlo mi abbia richiesto così tanto tempo.
Uno dei motivi capaci di offuscare il giudizio è lo stigma sociale normalmente riservato ai comportamenti ingannevoli, che vengono culturalmente letti come modalità relazionali improprie, devianti ed asociali. Nondimeno l’inganno è praticato presso ogni cultura, in varie forme e modalità, ed è altrettanto universalmente diffuso, al punto da essere coinvolto in una fetta importante dei reati codificati.
Il punto, qui, non è tanto accettare l’esistenza di comportamenti ingannevoli, che sarebbe un po’ la scoperta dell’acqua calda, quanto metterli a sistema in un quadro interpretativo allargato, non più limitato alle modalità di cooperazione e competizione classicamente osservabili nel regno animale, dove le forme di inganno (mimetismo difensivo e di predazione) sono semplicemente effetto dei processi di selezione naturale, non già il prodotto di una volontà esplicita.
Non l’inganno occasionale, furtivo, opportunistico, ma l’inganno come motore sistemico di molte delle dinamiche che normalmente osserviamo svolgersi davanti ai nostri occhi. L’inganno come strumento di manipolazione collettiva operata dalle IdeoCulture nella competizione per l’egemonia precedentemente descritta [4].
L’analisi si preannuncia fin da ora lunga e complessa, e non so prevedere di preciso dove andrà a parare. Ridefinire un modello interpretativo basato su due soli fattori, relativamente semplici e lineari (cooperazione e competizione), in modo da includere una terza modalità comportamentale (l’inganno) capace di rendere sfumati e indefiniti i contorni delle azioni osservate, potrebbe rappresentare una sfida intellettuale superiore alle mie capacità.
Sto seguendo ormai da un po’, compatibilmente con le disponibilità di tempo ed attenzione, le lezioni del corso di di biologia del comportamento umano tenute dal prof. Robert Sapolsky alla Stanford University nel 2011 [1]. Un ciclo dalla mole significativa (25 lezioni, in media di un’ora e mezza l’una), che affronta un ampio ventaglio di aspetti controversi del comportamento umano, tracciandone la verosimile derivazione da soggiacenti dinamiche di natura genetica, neurologica, biochimica, evolutiva ed ambientale.
Nonostante la difficoltà nel seguire una trattazione in lingua inglese, non di rado estremamente tecnica (fondamentale la disponibilità di traduzione automatica dei sottotitoli in italiano), ho iniziato a trovare risposte quantomeno plausibili a diverse domande che mi assillavano da tempo.
Nella 19^ lezione, la terza sull’aggressività (minuto 50:40 [2]), viene descritto il meccanismo di ‘aggressività dislocata’. In sostanza, quando siamo infuriati o frustrati per situazioni che non siamo in grado di gestire o contrastare, sfoghiamo la nostra rabbia su quello che abbiamo a tiro in prossimità. Tipicamente sulle persone che ci vivono accanto.
…abbiamo poi (…) una visione molto, molto diversa (…) costruita attorno all’idea che l’aggressività sia in definitiva tutta una questione di frustrazione (…), dolore, stress, paura, ansia. Un punto di vista fortemente spinto dai ricercatori russi nel periodo dell’Unione Sovietica. Una visione molto marxista perché, essenzialmente, ciò che si conclude alla fine è questo tema, che continuo a sollevare ogni volta, che l’amigdala ha qualcosa a che fare sia con l’aggressività che con la paura. Che in un mondo in cui nessun neurone amigdaloide ha bisogno di avere un potenziale d’azione per paura, non ci sarà aggressività. Questa è la versione estrema del modello di dislocamento della frustrazione (…) Quando i livelli di disoccupazione salgono, anche i livelli di abuso coniugale aumentano, e ugualmente aumentano i livelli di abuso sui minori. Quando l’economia va male avviene la stessa identica cosa. Negli animali da laboratorio: procura uno shock ad un topo e otterrai che morderà l’animale che ha accanto. Tutte queste sono forme di aggressività dislocata. In una tribù di babbuini, ad esempio, quasi il 50% delle aggressioni sono dovute ad aggressività dislocata, ed avvengono dopo che un individuo ha perso un combattimento o l’accesso a una risorsa. Questo meccanismo è in grado di spiegare due aspetti davvero deprimenti sulle società diseguali. Il primo è che più sei povero, più è probabile che tu sia violento, più è probabile che tu commetta atti criminali. E quando l’economia va male il problema si aggrava. Tutto diventa più distorto. L’altro aspetto tragicamente ironico di questo processo è che quando la criminalità sale negli strati socioeconomici più bassi, gli atti criminali sono rivolti in modo schiacciante verso gli altri poveri. Quando il crimine aumenta durante i periodi di frustrazione e maltrattamento delle classi socioeconomiche inferiori, non assume la forma in cui, improvvisamente, tutti decidano di scalare il muro fino al palazzo lì accanto e distruggere alcuni dei vasi Ming. Invece si tende ad aggredire le persone che sono vittime proprio accanto a noi. Durante i periodi di recessione economica, i tassi di criminalità nei quartieri più poveri salgono, ed è quasi sempre violenza rivolta agli abitanti del vicinato.
Mi è stato relativamente immediato collegare questa modalità comportamentale con quanto già esposto in una precedente lezione [3], sempre in relazione all’aggressività, dove veniva illustrato un esperimento effettuato su cinque macachi.
Prendi cinque macachi maschi (questo è stato uno studio classico). Mettili insieme e formeranno una gerarchia di dominanza. Il numero uno picchia da due a cinque, il numero due da tre a cinque, e così via. Prendi il numero tre e pompalo con il testosterone. Pompalo con quantità folli di testosterone. Quello che vedrai è che sarà coinvolto in un maggior numero di combattimenti. Significa che il numero tre ora sta minacciando il numero due e il numero uno? Assolutamente no, quello che sta succedendo è che il numero tre diventa un incubo per i numeri quattro e cinque. Il testosterone sta cambiando la struttura dell’aggressività in questo gruppo? No, sta esagerando la struttura sociale preesistente.
Lo studio evidenzia quindi una propensione a scaricare l’aggressività sui soggetti più deboli. Un simile comportamento ha, molto verosimilmente, radici nei processi evolutivi. La selezione naturale premia gli individui propensi a scaricare l’aggressività sui più deboli, mentre danneggia quelli che tenderebbero ad attaccare avversari più forti di loro, che avranno elevate probabilità di fare precocemente una brutta fine.
Emergerebbe perciò una propensione biologica a prendersela coi più deboli, in comune con tutto il resto del regno animale. Benissimo, anzi, malissimo. L’esistenza stessa di automatismi psichici di questa natura contrasta con buona parte delle architetture morali ed etiche sviluppate nei millenni dal pensiero umano. Nondimeno, in quanto evidenze scientifiche, occorre tenerne conto.
Prima di proseguire oltre devo chiarire un punto: prendere atto di una fenomenologia comportamentale non presuppone alcun tipo di approvazione morale, di accettazione o di giustificazione della stessa. Attiene alla nostra condizione di individui consapevoli, ed al nostro senso di giustizia, cercare e trovare soluzioni ed equilibri migliori.
E tuttavia occorre prendere atto di meccanismi psicologici che in natura esistono, che interessano la gran parte delle specie viventi capaci di comportamenti relazionali e sociali complessi, e che non possono essere semplicemente ignorati, né pretendere che bastino educazione e modellazione sociale delle abitudini a farli sparire.
L’aggressività dislocata, nello specifico, può dar conto dei maltrattamenti che avvengono all’interno della sfera familiare. In una cultura dominata dalla competizione economica è facile che l’ambito lavorativo produca un accumulo di frustrazioni che finiscono con lo scaricarsi al di fuori di esso. E nella società moderna gli individui trascorrono la maggior parte del proprio tempo in due ambiti relazionali ben distinti: l’ambito lavorativo e quello domestico.
Lo stress e le frustrazioni accumulate nell’ambito lavorativo, dal quale dipendono la retribuzione e il sostentamento, possono scaricarsi in parte sui colleghi, in particolare i sottoposti, ma finiscono più facilmente a proiettarsi nell’ambito familiare, dov’è azzerato il rischio di perdita dell’impiego e della retribuzione relativa.
Aggressività che assume forme e modalità diverse, fisiche e/o psicologiche, a seconda delle modalità individuali di gestione delle dinamiche relazionali. Individui anatomicamente più forti tenderanno ad esercitare di preferenza modalità aggressive di tipo fisico, mentre individui fragili, se intellettivamente dotati, tenderanno più facilmente ad esercitare forme di aggressività di natura psicologica.
È facile, già da queste semplici considerazioni, individuare uno schema di massima delle dinamiche distruttive che possono emergere nell’ambito familiare a causa dell’accumulo di insoddisfazioni e frustrazioni. Potremo altresì aspettarci che l’incremento di stress ed incertezze indotti nel corpo sociale dall’attuale pandemia finisca col tradursi in un aumento delle aggressioni e del bullismo, e verificare come sia esattamente quello che avviene [4].
In tutto ciò, il portato di alienazione individuale e collettiva prodotto dall’urbanistica moderna, che ha tradotto una disponibilità globale di risorse in forme di edilizia residenziale classicamente monofamiliari, ha ottenuto di esacerbare i meccanismi di ‘aggressività dislocata’, sequestrandoli in larga misura all’interno dei nuclei familiari.
Un quadro che appare ancor più catastrofico se consideriamo gli effetti a lungo termine prodotti da maltrattamenti e violenze domestiche. Diversi studi mostrano infatti come l’esposizione a forme di violenza, fisica e psicologica, tendano a fissarsi nei circuiti cerebrali, dando luogo ad alterazioni permanenti della personalità. Questo processo di alterazione delle risposte cerebrali [5] è, purtroppo, molto più evidente nelle fasi dello sviluppo, generando scompensi difficili da recuperare negli adulti fatti oggetto di maltrattamenti in età infantile.
Peggio ancora, esistono molteplici evidenze del fatto che queste alterazioni siano in grado di fissarsi nel DNA, attraverso processi epigenetici [6], e di propagarsi alle generazioni successive. Questo è il portato più tragico, perché il male che viene fatto ad un individuo, quando si traduce in esplosioni di violenza all’interno della famiglia, finisce col fissarsi sui suoi stessi figli, moltiplicandone gli effetti distruttivi. Non solo si vive una condizione di sofferenza, calpestati dal contesto sociale, ma nello sfogare la rabbia accumulata sui propri familiari si danneggia la propria stessa discendenza e le generazioni a venire.
Altro ambito in cui possiamo leggere processi di ‘aggressività dislocata’ è quello legato alla sicurezza stradale. È un tema che mi tocca nel vivo come ciclista urbano. Dal mio personale osservatorio registro un diffuso disprezzo, da parte degli automobilisti, per le prescrizioni di sicurezza: limiti di velocità, distanze, spazi di frenata, e una generale assenza di rispetto per gli altri utenti della strada, pedoni e ciclisti in testa.
Numerosi conducenti di autoveicoli appaiono frustrati ed aggressivi, per problemi personali, sociali o per le dinamiche conflittuali proprie della mobilità veicolare. Il loro essere ‘inscatolati’ li rende incapaci di scaricare tale aggressività su qualcuno/a in prossimità, di conseguenza finiscono con l’individuare come ‘valvola di sfogo’ gli altri utenti della strada (ciclisti, pedoni, anziani), percepiti come ‘fisicamente e gerarchicamente inferiori’ (quindi non pericolosi) e con lo scaricare su di essi la propria rabbia repressa.
La recente pandemia ha ulteriormente contribuito ad esasperare gli animi, ed il portato di questa frustrazione diffusa si è tradotto, fra le altre cose, in un aumento (largamente percepito) dell’aggressività sulle strade. Un metodo alternativo è stato il ricorso all’uso di alcol e droghe, il cui utilizzo è pure in crescita [7]. Va da sé che le sostanze psicotrope determinano un abbassamento della soglia di autocontrollo, col risultato che le esplosioni di violenza, quando accadono, ne risultano amplificate.
Dalla lezione di Sapolsky emerge poi un rimando inquietante ai rapporti tra le diverse classi economiche in cui tende a suddividersi qualunque società umana. Se andiamo a proiettare le dinamiche relazionali proprie dei piccoli aggregati su una scala più vasta, osserviamo come i meccanismi della ‘aggressività dislocata’ possono essere sfruttati in chiave di controllo sociale.
Stabilito che la violenza cieca si scarica in prevalenza sugli individui in prossimità, per evitare che raggiunga i soggetti effettivamente responsabili delle condizioni di frustrazione diffusa (quelle che chiameremo le élite economiche) un buon punto di partenza sarà realizzare una separazione fisica tra i luoghi di vita e lavoro di ricchi e poveri, ed è un processo che vediamo già in atto in diverse parti del mondo [8].
In termini di controllo sociale questo significa poter incrementare i fattori di stress su quelle che Sapolsky definisce ‘classi socioeconomiche inferiori’ senza rischiare reazioni indesiderate come forme aggregate di ribellione sociale. La polverizzazione, disgregazione ed il progressivo imborghesimento delle classi economiche meno agiate, la dispersione territoriale e l’isolamento indotto nei nuclei familiari dalla sostituzione dell’ambito relazionale con l’intrattenimento audiovisivo, hanno ottenuto di sequestrare le dinamiche violente in prevalenza all’interno di ambiti privati.
Altro classico esempio di utilizzo sociale dell’aggressività dislocata è il tifo da stadio, caratterizzato da forme di aggressività ritualizzata che esplodono, occasionalmente, in violenza brutale. Attacchi che si consumano in spazi e tempi circoscritti e svolgono una funzione di scaricamento della violenza accumulata in forme atte a non turbare l’ordine costituito, in quanto esercitati di norma tra opposte tifoserie, quindi tra individui degli stessi gruppi sociali (all’interno di un sistema culturale capace di alimentare un meccanismo economico dai bilanci milionari).
Le conclusioni di questa riflessione sono molto amare. Da un lato si evidenzia un meccanismo psicologico innato di scaricamento dell’aggressività e della violenza sui più deboli, che cozza con tutte le elaborazioni etiche e morali sviluppate dalla nostra specie, al punto da far ritenere che lo sviluppo dei costrutti culturali etico/morali sia un adattamento necessario a preservare gli individui più fragili dalla generale innata propensione alla violenza.
Dall’altro emerge la potenzialità per un utilizzo delle nozioni di psicologia comportamentale finalizzato alla stabilizzazione di un modello sociale, basato sullo sfruttamento delle classi economicamente e culturalmente più fragili, che pare tragicamente calzante con quanto ci è dato osservare nelle culture umane antiche e moderne.
Passando ad un ambito strettamente personale, l’approfondimento delle dinamiche legate a violenza ed aggressività confido mi rendano più consapevole riguardo ai processi che coinvolgono le mie stesse reazioni emotive, consentendomi in futuro un miglior autocontrollo nella gestione degli scatti d’ira. Non sarà molto, ma è già qualcosa.
L’associazione Salvaiciclisti-Roma ha deciso di organizzare una serie di seminari per i neoeletti amministratori romani, chiedendo a cicloattivisti con esperienze nella P.A. di tenere dei mini-webinar sulle problematiche dell’amministrare la città.
Il mio ultimo post [1] prende le mosse da una singola idea: considerare i gruppi umani come entità individuali, dotate di propria coscienza ed intenzioni. Da questa singola idea sono discese una valanga di interpretazioni, al punto che per metterle in fila è stato necessario confezionarle nella forma di un saggio di ottomilaseicento e passa parole, suddiviso in diciotto brevi capitoli tematici.
Bello, sì, interessante, potenzialmente disturbante… ma il risultato? Nessuno! Troppo lungo, troppo impegnativo. La maggior parte dei miei già pochi lettori non ha trovato il tempo di leggerlo, e probabilmente non lo troverà mai. Viviamo nell’epoca dell’informazione globale, e paradossalmente ne siamo talmente saturi che ci risulta difficoltoso affrontare un’idea che sia più articolata, più densa, più complessa di quanto ingurgitiamo quotidianamente.
Leggiamo, via social, molte più parole di quanto potessero fare i nostri padri e nonni, ma la qualità di queste letture è precipitata. Ora le informazioni sono ovunque, ci inseguono, ci incalzano ci affaticano. Dobbiamo stare sul pezzo, seguire l’ultima scoperta, l’ultima notizia, l’ultimo gossip. Non c’è tempo per riflettere, per contestualizzare le informazioni che riceviamo, per dar loro un senso, una forma. Tragedie dall’altro capo del pianeta richiedono la nostra attenzione.
“And what have you got, at the end of the day? What have you got, to take away?” cantava Mark Knopfler in ‘Private investigation’. Cosa hai portato a casa, alla fine della giornata? Ho scalato una montagna concettuale, ma accanto a me non c’è nessuno. Non mi resta che tornar giù, col mio inutile successo in tasca, troppo lungo, complicato e difficile da spiegare.
“Blinds at the windows and a pain behind the eyes…”