“I giovani sognano il futuro…
…gli adulti sognano il presente…
…i vecchi sognano il passato!”
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“I giovani sognano il futuro…
…gli adulti sognano il presente…
…i vecchi sognano il passato!”
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Da entusiasta possessore di un telescopio “dobsoniano” da 300mm di diametro mi sono trovato recentemente a riflettere su quanto il mondo dell’astronomia amatoriale sia stato trasformato, se non stravolto, dall’ingresso sul mercato di questi giganti dell’ottica. La mia “nascita” alla passione per l’astronomia data parecchio indietro nel tempo, ormai più di trent’anni fa, quando chiesi ed ottenni come regalo per la promozione un piccolo newton da 114mm di apertura e 900mm di focale.
Di quello strumento, venduto per inutilizzo dopo il passaggio ai 200mm negli anni ’90, serbo ancora un carissimo ricordo: treppiedi di legnaccio facile a scheggiarsi con puntali di gomma esageratamente morbida (questi ultimi prontamente sostituiti), montatura equatoriale “alla tedesca” rudimentale e traballante (per quanto ancora in produzione, dotazione degli attuali strumenti ultraeconomici col nome di EQ1), portaoculari da 1″ secondo lo standard dell’epoca, cercatore 6×30 (diaframmato a 5mm e pressoché inservibile, sostituito anch’esso con parti ottiche cannibalizzate da un binocolo da teatro distrutto), ma nonostante tutto un’ottica di buona qualità, in grado di raggiungere il limite di diffrazione e fornire immagini pari, se non superiori, a quella di analoghi strumenti della produzione attuale.
Erano tempi in cui la percezione di problematiche come l’inquinamento luminoso era ancora rudimentale, si osservava da casa, ovunque essa fosse (la mia era nel centro di Roma, dove il cielo dell’epoca ancora consentiva di individuare piccole nebulose senza l’aiuto di filtri), le ridotte dimensioni degli strumenti rendevano accessibili solo pochi oggetti e, soprattutto, si era di necessità onnivori, osservando un po’ di tutto e sperimentando, sugli stessi strumenti usati per il visuale, le prime timide riprese fotografiche con apparecchi a pellicola.
Parallelamente alla ridotta operatività vi era anche un limitato accesso alle fonti informative: pochi libri (in larghissima parte divulgativi), mappe del cielo rudimentali (commisurate alle ridotte aspettative degli utenti), grande fatica nello scambiarsi informazioni tra i pochi appassionati “dispersi sul territorio”. Internet era ancora là da venire e la mole sterminata di informazioni che abbiamo oggi “a soli pochi click di distanza” allora era del tutto inimmaginabile.
Per gli astrofili dell’epoca era già un piccolo trionfo avere da mostrare foto in bianco e nero dei crateri lunari, le riprese a lunga posa si realizzavano con la macchina fotografica montata in parallelo al telescopio ed inseguendo a mano, l’esperienza osservativa dei più si limitava a Luna, pianeti, una manciata di stelle doppie e qualche oggetto “deep sky” particolarmente brillante, mentre per tutto il resto vi era la diffusa convinzione si trattasse di oggetti “esclusivamente fotografici”, impossibili da osservarsi ad occhio nudo (ché, di fatto, nessuno ci riusciva…).
Quanto sia lontano quel mondo dall’attuale desta stupore. Prima la rapidità di circolazione delle informazioni consentita da internet, poi l’ingresso sul mercato dei telescopi dobsoniani di grande diametro a prezzi abbordabili, ci hanno aperto davanti un universo al di là dei nostri sogni più arditi, provocando una serie di avvenimenti “a cascata”. Da qui in poi le considerazioni generali si intrecciano alla mia storia personale in maniera per me inestricabile, procederò quindi ad analizzare i passi salienti degli ultimi anni da una prospettiva più “soggettiva”.
La catena di eventi prese il via, per me, meno di dieci anni fa, poco dopo il cambio di millennio, con la nascita delle prime “mailing list” (strumenti ora sorpassati ma all’epoca ancora pionieristici). Dalla mailing list di una rivista di astronomia (Coelum) si distaccò il primo nucleo di “visualisti” per dar vita alla mailing list Visualsky. Io disponevo all’epoca di un 20cm, ma i cieli sotto i quali osservavo erano di gran lunga sopravvalutati e mi mancavano le competenze necessarie a rendere sufficientemente appaganti le rare (e faticose) uscite osservative (oltreché la compagnia!). Poter dialogare per mezzo della posta elettronica con altri appassionati del resto d’Italia ci consentì di bypassare i limiti culturali e territoriali.
Dopo un po’, desiderando trasferire “all’esterno” le informazioni e le competenze che stavano emergendo in quel contesto, pervenni all’apertura di tre blog, strumenti forse ancora troppo “nuovi” per suscitare il necessario entusiasmo, e che in una prima fase finirono pressoché accantonati. La ML declinò nel corso degli anni a seguito del ritiro di alcuni dei fondatori e principali animatori, ed anch’io, preso da altre vicende, finii puù tardi col disiscrivermi, restando collegato unicamente al “cordone ombelicale” rappresentato dai Blog dei quali ero ancora amministratore.
Proprio su quei blog cominciò a scrivere all’epoca Mauro Da Lio, analizzando con un approccio finalmente scientifico diversi aspetti legati alla luminanza del cielo, ed in un secondo tempo alla gestione e stabilizzazione termica delle ottiche di grandi dimensioni. Fu proprio grazie a quelle letture che, a distanza di anni, poco dopo il momento in cui i primi dobson commerciali apparvero sul mercato, l’antica passione, mai completamente sopita, si ridestò. Adesso, a distanza di altri anni, posso tirare una linea e giudicare quanto siano cambiate le cose dagli anni lontani in cui la mia passione nacque.
L’avvento dei dobson ha pressoché spaccato in due la comunità astrofila, creando una dicotomia irriducibile tra strumenti per osservazione visuale e strumenti fotografici. Una volta dimostrata la praticabilità (per non dire la praticità) dell’utilizzo in visuale di supporti altazimutali, economicissimi e privi di inseguimento motorizzato, non vi è stato più ragione di sacrificare al diametro dell’ottica il costo ed i limiti intrinseci di una sofisticata montatura equatoriale.
In seconda istanza si è inevitabilmente attestato l’utilizzo di strumenti di grande apertura per osservazione visuale, al punto che anche a chi inizia (disponibilità economiche permettendo) si consiglia di partire con almeno un 25cm, laddove molti prendono come primo strumento addirittura un 30cm.
Ancora: è maturata la consapevolezza della necessità di sfruttare cieli bui, ed è abbastanza facile trovare gruppi e gruppetti che si organizzano per allontanarsi, poco o tanto, dalla città. Da ultimo si è diffuso l’uso di accessori ottici di qualità, come oculari a larghissimo campo e filtri interferenziali, i primi ancora là da venire nei lontani anni ’80, i secondi introvabili ed eventualmente a costi assurdi.
Ma una mutazione ancora più drastica c’è stata tra gli astrofili, che avendo la possibilità di osservare oggetti molto più deboli ed evanescenti sono diventati più esperti e competenti in merito agli oggetti del “cielo profondo” di almeno un paio di ordini di grandezza rispetto alla gran parte dei loro antenati. In una tipica uscita di visualisti odierna è ormai prassi normale sentir nominare, come se fossero dei “classici”, oggetti dei quali, anni addietro, nemmeno si sospettava l’esistenza.
Mi immagino, ora, tornare a quei lontani anni ’80 e provare a raccontare delle osservazioni dell’Elmo di Thor, della Velo, della Rosetta, della Helix, della PacMan… quanti sarebbero stati in grado di collegare questi oggetti ad una qualsivoglia esperienza osservativa? O anche solo ad oggetti mai sentiti menzionare?
La maggior parte di noi aveva a malapena intravisto una manciata degli oggetti del catalogo di Messier (io sono arrivato a buttare l’occhio all’ammasso di galassie della Vergine solo a metà degli anni ’90), ed in condizioni tutt’altro che entusiasmanti, ammassi globulari non risolti in stelle, galassie brillanti al limite dell’avvertibilità, osservando da cieli già rovinati da un inquinamento luminoso del quale non avevamo piena cognizione. Tutto questo è cambiato, per fortuna, e indietro non si torna.
Gli effetti combinati della crisi economica e della costante crescita del prezzo dei carburanti stanno producendo, per la prima volta da decenni, una riduzione del traffico e dell’utilizzo dell’auto privata, mentre all’orizzonte non si individuano fonti alternative capaci di consentire il perpetuarsi dell’orgia consumistica degli ultimi decenni, nell’arco della quale la maggior parte di noi è nata e cresciuta.
Che succederà, quindi, alla nostra pretesa civiltà se e quando le previsioni del “Rapporto sui limiti dello Sviluppo” dovessero, come pare, rivelarsi esatte? Gli scenari possibili che ci si aprono davanti sono diversi, per il momento eviterò quelli che conducono a guerre globali devastanti e mi concentrerò sull’adattamento della nostra società ad una, ad oggi verosimile, riduzione progressiva dei consumi.
Il problema più grave consisterà nel fatto che, da brave cicale, abbiamo modellato le nostre vite, le nostre città, la nostra intera società intorno ad un paradigma, quello della mobilità privata basata sull’automobile, destinato ad andare in crisi, e presumibilmente a collassare, nel volgere di pochi anni.
Il processo a cui assisteremo, ma dovrei dire a cui stiamo già assistendo dato che la tendenza appare ormai ben definita, consisterà in un progressivo aumento dei prezzi dei beni materiali, speculare ad una perdita complessiva del potere d’acquisto che obbligherà ad una significativa riduzione dei consumi.
Il primo bene di lusso a farne le spese sarà probabilmente l’automobile, cominceremo ad usarle sempre meno fino al punto in cui risulterà evidente l’antieconomicità del possederne una. Questo significherà che, volenti o nolenti, finiremo col riscoprire modi di vita più parsimoniosi, faremo meno acquisti e li faremo prossimità di casa, ci sposteremo coi mezzi pubblici (che finalmente potranno tornare a funzionare, non più paralizzati dal traffico veicolare), riscopriremo i tram, riconsidereremo tante scelte, che in passato ci erano parse inevitabili, alla luce delle nuove necessità.
Man mano che verrà meno l’uso delle automobili arriveremo a ripensare la manutenzione delle strade, attività i cui costi sono già ora insostenibili. Concentreremo le nostre risorse sulle infrastrutture più essenziali, mentre la viabilità minore verrà via via abbandonata a sé stessa. Anche le strade urbane cambieranno aspetto man mano che le vecchie automobili inutilizzate finiranno progressivamente al riciclaggio, perdendo l’attuale connotazione di parcheggi a cielo aperto.
In questo processo chi soffrirà di più saranno gli abitanti dei sobborghi, che scopriranno l’insostenibilità (per non dire l’indifendibilità) di case costruite al di fuori di un qualsivoglia contesto urbano. La logica dei piccoli agglomerati autonomi, dei piccoli borghi, delle piccole comunità, tornerà a prevalere sulla follia dell’urban sprawl, ed a quel punto non ci resterà che versare calde lacrime sulle terre un tempo fertili annientate dalla cementificazione selvaggia degli ultimi decenni.
L’aumento del costo dell’energia si sommerà all’esaurimento delle risorse minerali e ci obbligherà ad una riduzione dei consumi, che potrà essere compensata in parte producendo oggetti più robusti e durevoli, in parte dedicandoci alla manutenzione, alla riparazione ed al recupero.
Il mondo senz’auto sarà un mondo diverso dall’attuale, non necessariamente peggiore se sapremo prepararci ad esso. Avremo più trasporto pubblico e più efficiente, meno inquinamento, spazi urbani più vivibili, riscopriremo mestieri antichi, e se saremo abbastanza lungimiranti da evitare che l’insoddisfazione diffusa esploda in forme violente e distruttive, non escludo che finirà col piacerci.
Temo molto di più, a dir la verità, l’esaurimento di altre risorse fossili, ad esempio il gas. Abbiamo avuto l’occasione di costruire case coibentate e termicamente efficienti, e l’abbiamo sprecata. La mia grossa preoccupazione è che penseremo di poter continuare a scaldarci come facciamo ora usando la legna… cosa che produrrà la totale distruzione di boschi e foreste.
Sabato pomeriggio, in sostituzione del weekend astronomico in Toscana saltato causa meteo incerto, siamo partiti in cinque per rubare una serata osservativa a questa lunazione invernale sfortunata (è stato sereno finché c’era la Luna a dar fastidio, arrivata la luna nuova è tornato pure il maltempo…). Purtroppo la fortuna non ci ha particolarmente arriso.
Méta dell’uscita un nuovo sito da esplorare in Sabina, in prossimità del lago del Turano. Andrea, andato in avanscoperta, ci ha guidati ad un comodissimo slargo adiacente ad una strada che abbiamo subito ritenuto (ovviamente a torto) a basso traffico veicolare.
Montati gli strumenti all’imbrunire abbiamo da subito constatato l’addensarsi di velature in quota che facevano mal presagire. Di fatto l’intera serata è stata funestata da un continuo velarsi e svelarsi di zone di cielo, che ci hanno costretto ad un estenuante zig-zag osservativo alla ricerca degli oggetti potenzialmente osservabili, con conseguenti continui cambiamenti di mappe senza avere il tempo di orientarsi a dovere.
A questo si aggiunga il continuo viavai di automobili, col relativo abbagliamento (o quantomeno il dover sospendere l’osservazione e chiudere gli occhi per non farsi abbagliare) e la qualità del cielo che, seppur non pessimo, non ha mai raggiunto valori di scurimento decenti (per chi sa cos’è un SQM le letture hanno raggiunto un massimo di 20,7~20,8), al punto da rendermi difficile il puntamento col Red-dot per carenza di stelle di campo.
Col procedere della serata, l’elevata umidità associata alle basse temperature ha prodotto i soliti inconvenienti, con appannamento di lenti e specchi, formazione di ghiaccio su tutte le superfici esposte e finanche sulle carte stellari appoggiate sul tavolino (errore mio a non usarle infilate nelle buste trasparenti, ma con la necessità di passare in continuazione da una zona di cielo all’altra non avevo molta scelta).
Il colmo è stato quando andando a prendere un oculare poggiato sul tavolino l’ho trovato semi-incollato a causa del ghiaccio. Dovendo anche fare i conti con l’appannamento degli oculari ho scelto di limitarmi ad alternarne solo tre, tenendo nelle tasche i due di volta in volta non in uso per mantenerli tiepidi e ridurre il problema della condensa. Con tutti questi inconvenienti, inutile dirlo, la serata non ha potuto essere particolarmente fruttuosa.
Al mio attivo di “nuovi” (oltre ai soliti oggetti visti e stravisti e ad un po’ di prove di strumentazione altrui) ho una manciata di piccoli ammassi aperti in prossimità del “riccio” di Perseo (NGC1513, NGC1528, NGC1545), con accanto l’interessante nebulosa diffusa NGC1491 (!), le planetarie NGC1501 nella Giraffa ed NGC1514 nel Toro, le nebulose diffuse NGC1893 in Auriga, la coppia M78 + NGC2071 e la NGC1788 in Orione, la minuscola galassia NGC1762 e la planetaria NGC2022, sempre in Orione, l’ammasso globulare M79 nella Lepre e per finire l’ammasso aperto NGC2420 nei Gemelli (trovato per sbaglio mentre cercavo la Eskimo… appena prima che il cielo rannuvolasse di nuovo)
Verso le 22.00, consensualmente, abbiamo deciso di gettare la spugna, smontare tutto e tornarcene a casa, dove l’attrezzatura umida è stata nuovamente tirata fuori e rimessa all’aria ad asciugare l’umidità invadendo, per quanto mi riguarda, metà soggiorno. Postumi della serata un discreto torcicollo ed un lieve mal di gola.
A salvare la serata sono stati il “sense of humor” dei partecipanti e la piacevolezza della compagnia, anche nell’impossibilità di osservare con continuità ci siamo scambiati aneddoti e racconti sulle mille disavventure che una passione del genere comporta, e alla faccia delle nuvole, dell’umidità e del ghiaccio ci siamo ugualmente divertiti.
P.s.: un altro racconto (con più foto) sul blog di Stefano.
Dopo più di dieci anni passati a seguire le vicende della ciclabilità romana penso di essere prossimo al totale esaurimento delle energie e della fiducia. Tutte le amministrazioni che si sono susseguite fin qui, quali più quali meno, hanno perseguito la strategia di fare il meno possibile, rivenderselo per oro colato e dilazionare all’infinito la risoluzione dei problemi. L’attuale non fa eccezione, e a questo punto l’esasperazione è già a livelli di “fuori scala”.
In buona sostanza quello che ci si preannuncia di qui a breve è l’ennesima “mega-conferenza”, una sorta di “parata di gala” di pezzi grossi dell’amministrazione e rappresentanze dei ciclisti in cui ci si confronterà, rigorosamente a parole, in un serratissimo dibattito in cui voleranno chiacchiere per l’aere finché tutti i presenti non ne saranno esausti ed avranno maturato la sensazione che “tutto il possibile è stato fatto (a parole)”.
Personalmente sono convinto che il tempo delle discussioni sia passato da un pezzo e sia ora di rimboccarsi le maniche e cominciare a realizzare qualcosa di concreto, bello o brutto, giusto o sbagliato che sia, purché tangibile. Tutti i discorsi possibili sono già stati affrontati, le differenti posizioni definite, i limiti all’azione sviscerati, mentre nel frattempo intorno a noi le poche (e scadenti) realizzazioni delle passate amministrazioni venivano abbandonate a sé stesse ed al degrado.
Pur continuando a collaborare con diverse realtà di base della ciclabilità romana, proseguendo un cammino iniziato ormai troppi anni addietro, a questo giro ho deciso di tirare i remi in barca e non partecipare, non già per una questione di merito quanto di metodo.
Non ritengo accettabile che ancora adesso l’amministrazione capitolina, a tre anni di distanza dal suo insediamento, dopo innumerevoli incontri con le rappresentanze dei ciclisti romani, venga a chiedere a noi ciclisti quali siano gli indirizzi da prendere. Non è accettabile che un’amministrazione con al suo interno di fior di risorse, competenze e professionalità si riduca a chiedere cosa fare alle vittime della propria stessa inettitudine.
Nel mio lavoro il cliente si limita a sottoporre la problematica da risolvere, che può essere, poniamo il caso, movimentare dei contenitori di materiale da un locale all’altro, salendo e/o scendendo di livello, distribuirli presso differenti operatori e, se è il caso, riportandoli indietro. Definito il risultato da ottenere si fa un’analisi sulla realizzabilità, si calcolano i costi, si fa un’offerta ed a quel punto il cliente decide se assegnarci l’appalto o ridiscutere l’offerta, modificando le specifiche per ottenere una riduzione dei costi ovvero richiedendo ulteriori funzionalità.
In prima istanza al cliente non interessa, e non deve interessare, in quale maniera io fornitore decido di movimentare i contenitori, se per mezzo di trasportatori a rulli, o a nastri, o a catene. Quello è un problema che gestiamo noi in base alla tipologia, alla forma ed al peso dei contenitori. Non sono problemi del cliente costi e tempi di approvvigionamento dei materiali, modalità della lavorazione, subappalti. Al cliente interessano due cose: costi e tempi di consegna.
Ora la situazione che abbiamo con l’amministrazione capitolina è almeno in teoria analoga. Noi ciclisti siamo alla stregua di un “cliente” che sottopone la problematica da risolvere (che potremmo riassumere in “migliorare le condizioni di sicurezza di chi va in bici a Roma”), dall’altra parte, però, il potenziale “fornitore” non è in grado di definire una proposta ragionevole: temporeggia, cincischia, accampa scuse, dilaziona, mischia le carte in taviola e da ultimo rigira su di noi la “frittata” chiedendoci di proporre noi le soluzioni.
Ma se io andassi dal mio potenziale cliente chiedendogli di progettare lui l’impianto perché io non ne sono capace, cosa pensate che mi risponderebbe?
Purtroppo per quanto riguarda le realizzazioni per la ciclabilità siamo rimasti indietro di decenni rispetto al resto dell’Europa, con l’aggravante dell’incancrenirsi di situazioni di degrado, legate all’invadenza ed alla sostanziale impunità concesse da sempre agli automobilisti, che ci hanno relegato a livelli di qualità della vita più prossimi a quelli del Nordafrica che non alle capitali europee.
A questo punto le cose da fare non sono più poche, sono diventate innumerevoli, e l’inerzia programmatica del nostro ceto politico, bravo solo a razzolare consensi in campagna elettorale, non fa che aggravare un quadro desolante. Le soluzioni non devono “proporle i ciclisti”, esistono studi, esperienze di decine di città grandi e piccole, innumerevoli possibili soluzioni delle quali si conosce già il grado di efficacia, competenze in materia maturate da chi si è mosso prima di noi.
“Cosa fare” lo si sa già, quello che però che continua a mancare è la volontà di prendere decisioni, di iniziare ad affrontare davvero i problemi per cominciare una volta per tutte a risolverli. È l’unica cosa che nel corso degli anni non ho visto fare se non raramente, da poche persone, spesso ostacolate dai propri stessi collaboratori.
Ed è anche l’unica cosa che temo non vedrò mai. Ma se proprio così dev’essere posso perlomeno risparmiarmi l’ennesimo “parlatoio allargato”. Di parole ne ho sentite fin troppe e “caramelle, non ne voglio più”.
Uno dei ricordi più netti degli anni lontani della mia fanciullezza riguarda il camminare. Dal momento che i miei avevano scelto di non possedere un’automobile, si cominciava la giornata con una passeggiata di un chilometro fino alla scuola, ripercorso all’indietro al termine delle lezioni, poi nel pomeriggio, pioggia permettendo, ci si incamminava nella direzione opposta fino ai giardini di Colle Oppio.
Crescendo mi appassionai alla fotografia. Cominciarono quindi, nella tarda adolescenza, le mie peregrinazioni nei quartieri storici di Roma, armato di una fotocamera ed un minimo parco di obiettivi. Non ho idea di quanti chilometri percorsi ma arrivai a conoscere i vicoli del centro storico come le mie tasche.
A porre un termine a tutto questo camminare arrivò poi la bicicletta, che estese i miei orizzonti al di fuori della città. Pur finendo con l’occupare la quasi totalità del mio tempo libero, non riuscì tuttavia a cancellare completamente la mia consuetudine con l’andare a piedi.
Pochi giorni fa, volendo chiudere in bellezza il periodo natalizio, ho coinvolto Manu ed una coppia di amici in una “scappata” estemporanea al paesello nelle Marche. Disponendo di poco tempo, e non volendoci sobbarcare il facchinaggio del trasporto delle biciclette di tutti e quattro, ho proposto una passeggiata tra i monti.
L’itinerario proposto era già stato da me percorso a piedi in solitaria un paio di anni addietro, e da me e Manu in bicicletta in un indimenticabile inverno di parecchi anni prima, quando partimmo a pedalare sotto una leggera nevicata e trascorremmo la giornata in un’atmosfera del tutto irreale.
Estesa la proposta anche a mia sorella, in vacanza lassù coi “pargoli”, eccoci partire sabato mattina sotto un sole quasi primaverile con aggregati lei, Lucrezia ed Emanuele, mentre il piccolo Leonardo sceglieva (saggiamente) di restarsene a casa con la nonna.
La prima metà del percorso si sviluppa su una strada asfaltata e pressoché deserta che, risalendo una valle interna al massiccio del Nerone, raggiunge il microscopico paesino di Pieia ed il prospiciente arco naturale di roccia di Fondarca.
Al piccolo Emanuele, che giustamente si domandava perché avessimo deciso di fare tutta quella strada a piedi, ho spiegato che in tempi lontani, quando non c’erano ancora le automobili, tutti si spostavano camminando, e quindi stavamo facendo una cosa perfettamente normale.
A Pieia ci siamo fermati a consumare un po’ di pizza portata da casa, bere l’acqua sorgiva della montagna e riposare un po’. A malincuore ho rinunciato a prolungare l’escursione salendo all’arco di roccia, da cui si gode un colpo d’occhio incredibile sul paesino e sulla vallata da noi appena percorsa, qui immortalato in uno scatto dell’estate 2008.
Rifocillati abbiamo proseguito attraversando la valle di Pieia e passando accanto allo sperone roccioso denominato “Dente del Diavolo”.
Quindi, dopo un breve tratto ancora a risalire, abbiamo superato il valico detto “il Traforato” affacciandoci all’esterno del massiccio del Nerone, dal lato sud.
Da qui in poi la strada è una sterrata in discesa che nel volgere di un paio di tornanti ci ha riportato al borgo di Massa, ed a seguire, per la poco nota via dei “Gengaioli”, di nuovo a Pianello nel primo pomeriggio.
È stato molto bello poter condividere questa passeggiata coi miei nipoti. Certo, scommettere sul fatto che potessero reggere tanta strada non è stata una scelta banale, ma alla fine la giovane età e la curiosità di scoprire posti inesplorati ha vinto sulla fatica. Solo Lucrezia ha accusato un po’ gli ultimi chilometri, ma più che altro perché non si vedeva la fine… una volta in vista del paesello anche il leggero malumore è svanito.
Ed in realtà neppure io mi rendevo conto con esattezza di quanta strada fosse. A memoria avrei detto sette o otto chilometri in tutto… ma mia madre al ritorno ne proclamava con convinzione una dozzina, e GoogleMaps conferma. Chissà cosa ricorderanno i miei nipotini, a distanza di anni, di questa piccola “avventura” in cui li abbiamo trascinati…
Per il capodanno abbiamo accettato l’invito di una coppia di amici di vecchia data (ormai trasferitisi in pianta stabile in Svizzera) e ci siamo spostati a Bari. Abbiamo caricato sul Frecciazzurra le Brompton ma le abbiamo usate relativamente poco perché ci hanno pensato loro a scarrozzarci di qua e di là. Abbiamo visitato Bari, Alberobello coi suoi trulli ed il 1° gennaio i celebri Sassi di Matera (che ancora non avevo mai visto).
Ciliegina sulla torta è stato il concerto di capodanno di Elio e le Storie Tese. La mattina del 2 gennaio, prima di riprendere il treno, c’è stato il tempo per un giro nella Bari Vecchia in sella alle fedeli pieghevoli. Qui le foto.
Di diversi libri letti nei mesi scorsi non ho ancora scritto, dato che non ho trovato nulla di assolutamente fondamentale e/o imperdibile in essi al di là di una generica “distrazione”. Lo farò sicuramente più in là. Di quello che sto leggendo adesso sento, al contrario, l’esigenza di scrivere subito.
“Romanzi”, di Paul Auster, raccoglie tre lavori dello scrittore statunitense. Il primo, “Trilogia di New York”, è a sua volta composto da tre romanzi brevi, slegati tra loro ma uniti da un filo comune. Il secondo, “Nel paese delle ultime cose”, è invece un romanzo distopico della cui lettura sono a metà. Del terzo, “Moon Palace”, in attesa di leggerlo non so ancora nulla.
In tutti e tre i romanzi brevi della “Trilogia” Auster muove da una situazione di partenza ai confini del romanzo giallo per scivolare inesorabilmente sui temi del doppio, della malattia mentale, della compulsione ossessiva per la scrittura e per le parole, riuscendo ad essere affascinante e disturbante al tempo stesso.
I personaggi di Auster elaborano, nel procedere delle vicende, forme di ossessione per la parola scritta, utilizzata all’inizio per descrivere la realtà per giungere poi, progressivamente, a sostituirla. La parola scritta, quindi, come estremo rifugio dal mondo, baluardo nei confronti di verità spiacevoli come l’accettazione della propria follia.
Nell’immedesimarmi in questi protagonisti ho riletto, specularmente, la mia personale fissazione per le parole, vissuta attraverso l’incessante dialogo quotidiano che la rete consente. Diverso, ma in qualche misura analogo, è il continuo transitare da un forum all’altro, da un blog all’altro, in un flusso di informazione di tale portata da rompere spesso gli argini e lasciarci stremati, con una perenne sensazione di irresolutezza, di incompletezza.
Analogamente alla scrittura compulsiva su taccuini e quaderni dei personaggi che affollano la “Trilogia di New York” c’è la quotidiana scrittura compulsiva in rete di ognuno di noi, il nostro continuo relazionarci a persone in principio reali che, trasfigurate dallo strumento informatico, assumono via via col passare del tempo la consistenza di fantasmi.
La necessità di relazionamento interpersonale è una esigenza umana, ma quella veicolata dalle sole parole scritte non ne è che un pallido simulacro. Come conseguenza non ci nutre emotivamente a sufficienza e siamo obbligati ad assumerne dosi massicce, sfiorando ed a volte superando il confine dell’ossessione.
Così, lentamente, impercettibilmente, come nei romanzi di Auster, si opera lo scivolamento verso la sostituzione della realtà con le parole. Parole che diventano fiumi, che diventano muri, che diventano fortezze sconfinate, in grado di difenderci dal mondo ma dentro le quali perdiamo noi stessi.
Bizzarro trovarmi a fare queste considerazioni per iscritto, usando lo stesso mezzo che stigmatizzo. Questo significa che sono in parte consapevole dei rischi che corro, che forse corriamo un po’ tutti. Magari sto provando anch’io, nel mio piccolo, come Auster, a metterci in guardia, senza riuscire davvero a rinunciare ad uno strumento ormai plurimillenario che ha accompagnato l’uomo fin dall’inizio del suo cammino. La parola, appunto.