Intelligenza esplorativa

Da almeno un paio di settimane sto combattendo con un’idea relativa all’intelligenza umana. L’idea è che al di là delle differenze quantitative, che pure esistono e sono misurabili, siano presenti differenze qualitative. Non sto parlando delle diverse forme di intelligenza (logico/razionale, linguistica, psicomotoria, sociale e chi più ne ha, più ne metta…) sto parlando proprio di un differente approccio alla realtà ed alla complessità.

Il ‘fattore scatenante’ che ha rimesso in gioco tutto quello che pensavo di sapere sull’argomento è stato un articolo della psicologa Ana Maria Sepe [1] che, in buona sostanza, illustra il mio personale modo di ragionare. Il fatto spiazzante è che lo descrive, per così dire, ‘dall’esterno’, come se fosse chissà quale bizzarro modo di processare le informazioni. Partiamo dal seguente passaggio:

Prima di tutto che le persone intelligenti NON memorizzano le cose. Chi ha un QI alto è bravo a connettere tra loro idee e creare costruzioni mentali tra informazioni che magari potrebbero sembrare irrilevanti o appartenenti ad altri contesti. Quindi questi “geni” trovano con facilità schemi tra dati grezzi e li collegano tra di loro. In parole povere: riconoscono e connettono pattern.

Questo sono esattamente io (al di là dell’appellativo “genio”, nel quale non mi riconosco e che giustamente sta tra virgolette a significare un eufemismo). O, ad essere precisi, è la descrizione del mio personale modo di organizzare le informazioni che raccolgo in strutture relazionali e rapporti di causa/effetto. Mai, fin qui, mi è venuto da pensare che potessero esisterne altre.

È un modo di ragionare che presenta ovvi vantaggi. Consente di applicare schemi interpretativi generali a discipline diverse da quelle per le quali sono stati pensati, consente una comprensione più immediata delle potenziali conseguenze derivanti da una determinata azione. Consente, in ultima istanza, quel ‘pensare fuori dagli schemi’ di cui tanto si parla, perché un modo di elaborare le informazioni che padroneggia gli schemi sa anche riconoscerli e manipolarli con facilità.

Il modo di pensare, di organizzare l’esistente, rappresenta l’essenza di un individuo. Ma, aggiungerei, ogni individuo tende a ritenere se stesso simile agli altri. Questa attitudine, derivante evidentemente da dinamiche evolutive, prende il nome di ‘bias di proiezione’, rientrando nella categoria dei bias cognitivi [2]:

Il bias di proiezione è una tendenza cognitiva che porta le persone a pensare che gli altri la pensino come noi, o che abbiano le nostre stesse caratteristiche. Si tratta di una forma di auto-percezione, in cui le persone proiettano le proprie preoccupazioni, aspettative e opinioni sugli altri. In altre parole, questo bias può spingere le persone a vedere negli altri le caratteristiche che vedono in se stesse o che temono di possedere. Ad esempio, un individuo potrebbe essere incline a sospettare che gli altri siano bugiardi (o generosi) solo perché è consapevole del fatto che mente spesso (o che lui stesso è una persona generosa). Questo tipo di tendenza alla proiezione può influire su come ciascuno percepisce la realtà e interagisce con gli altri.

L’articolo della d.ssa Sepe, in ultima istanza, mi suggerisce un’eventualità mai presa seriamente in considerazione, quella di essere una bizzarra eccezione. Ora, a nessuno piace essere un’eccezione, fosse anche positiva. Gli individui eccezionali ingenerano aspettative, sono loro richieste prestazioni eccezionali. Preferiamo, tutti, sentirci ‘uguali agli altri’, questo ci suggerisce il bias di proiezione.

Intere ideologie e fedi religiose sono state costruite per soddisfare questa aspettativa. Ma è realmente così? Se guardiamo alle dinamiche evolutive dei gruppi umani realizziamo che questa condizione non soddisfa un criterio di massima efficienza per la collettività (sto saltando di palo in frasca, è evidente e ne sono consapevole, ma questo, come già detto, è il mio modo di ragionare). L’intelligenza umana è il prodotto di processi evolutivi, e se vogliamo comprendere come sia distribuita dobbiamo usare questa specifica chiave interpretativa.

Come già spiegato nel post precedente [3], gli studi evolutivi effettuati sulle specie sociali evidenziano una tendenza a disperdere le caratteristiche individuali su uno spettro più ampio rispetto a quanto si osserva nelle specie prive di comportamenti sociali. Questo significa che all’interno delle specie che vivono in gruppi, branchi, stormi, colonie, le diversità tra singoli individui sono maggiori rispetto alle specie i cui componenti praticano esistenze solitarie.

Il tasso di diversità aumenta ancora nelle specie, come la nostra, capaci di comportamenti altruistici, dove cioè i diversi componenti del gruppo possono prendersi cura gli uni degli altri. Questo comportamento può emergere grazie al vantaggio conseguente alla possibilità, per un individuo ferito, di guarire, in modo che il gruppo non abbia a perdere uno dei suoi elementi di forza.

È facile, a questo punto, immaginare come il comportamento altruistico, stante una disponibilità sufficiente di risorse, possa essere esteso a membri anziani e/o ad individui portatori di disabilità fisiche o psichiche. Comportamenti di questo tipo sembrano emergere fin dalla preistoria dell’umanità, e si riflettono nella gran parte delle fedi ed ideologie che attraversano la storia dell’uomo.

Il processo di diversificazione consente al singolo gruppo, e di conseguenza all’intera specie, di sviluppare caratteristiche peculiari ed eccezionali, non strettamente legate alle esigenze di sopravvivenza ma fondamentali per la resilienza del gruppo stesso. Data una sufficiente disponibilità extra di risorse, alcuni individui potranno specializzarsi in attività non strettamente legate alla caccia, alla raccolta ed alla fabbricazione di utensili, esplorando la cura delle malattie, o forme di sollievo psichico come le fedi religiose, e praticare forme di pensiero speculativo che vadano oltre le esigenze immediate.

È in questo contesto sociale che individui portatori di intelligenze atipiche possono prosperare e dar vita a forme artistiche, materiali o immateriali, a filosofie, a narrazioni del mondo, a speculazioni, e risultare motivanti e trainanti per l’intera collettività. Le stesse dinamiche evolutive indicano che queste intelligenze atipiche tendono a rimanere eccezioni alla norma, al pari del mancinismo, della propensione al rischio e di altre caratteristiche relativamente rare, perché la funzionalità del gruppo dipende dalla loro essere poco frequenti.

Torno per l’ennesima volta all’esempio di D. Goleman sullo stormo di uccelli che trae vantaggio dal conservare il tratto genetico della propensione al rischio, perché il fatto che alcuni individui si allontanino dalla massa consente di individuare più facilmente i predatori [4]. Se da un lato questo comportamento è funzionale quando si presenta occasionalmente, dall’altro sarebbe catastrofico se fosse proprio di tutti gli individui.

Allo stesso modo un gruppo umano è avvantaggiato dalla propensione di alcuni individui ad attività rischiose, ma sarebbe sfavorito se tutti i suoi componenti fossero propensi a correre più rischi del necessario. Questo mi porta a ritenere che anche per l’intelligenza valga un discorso analogo: il gruppo è funzionale quando le intelligenze peculiari sono una eccezione, e non la norma. Un gruppo sociale composto unicamente da artisti, musicisti, filosofi, matematici e pensatori inquieti se la caverebbe molto male nel far fonte ad una quotidianità fatta di occupazioni spesso ripetitive e poco intellettualmente stimolanti.

Quindi abbiamo ribadito un primo punto: la presenza di intelligenze diversificate è funzionale all’efficacia del gruppo. Come si arriva, da qui, a definire l’esistenza di differenze di natura qualitativa? Da quello che sono riuscito a ragionare, una differenza di tipo quantitativo si traduce da sé in una differenza di tipo qualitativo. Il semplice poter elaborare più elementi contemporaneamente richiede l’utilizzo di schemi interpretativi, pena il ritrovarsi in un caos ingestibile.

A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro per sviluppare il concetto di intelligenza e darne una definizione meno generica. L’intelligenza è la capacità di far fronte a situazioni complesse. Il grado di complessità dell’operazione da svolgere determina il livello di intelligenza richiesta.

Partiamo da un livello ‘zero’ (arbitrario) con gli organismi filtranti. Molte delle forme di vita sulla Terra sono di questo tipo: spugne, molluschi, meduse, coralli, ecc… L’organismo filtrante vive in un habitat liquido ed estrae i nutrienti dal liquido stesso. Nessuna intelligenza è richiesta per questa modalità di sussistenza. Il risultato è che questi organismi non possiedono una rete neurale.

Non è ancora ben chiaro come le reti neurali si siano evolute, tuttavia osserviamo che la capacità di operare decisioni, unita alla mobilità, renda la predazione più efficiente. Data questa possibilità, milioni di anni di evoluzione e milioni di miliardi di individui consumati nel processo, arriviamo allo stadio successivo, che osserviamo ben conservato negli insetti.

Gli insetti possiedono un addensamento di cellule neurali, il cervello, dal quale si diparte una rete di comunicazione degli impulsi generati a raggiungere il resto del corpo. Il cervello acquisisce informazioni sensoriali dal mondo esterno e le traduce in azioni che impartisce ai diversi organi per mezzo della rete neurale. Le dimensioni degli insetti limitano la dimensione del cervello ai minimi termini.

Questo li rende in grado di esprimere un ventaglio di comportamenti limitato ed estremamente ripetitivo, come se il loro spettro di azioni e reazioni fosse interamente programmato già in partenza durante lo sviluppo cellulare, copiato e incollato direttamente dal DNA. Ovviamente questa modalità risulta efficace per svolgere funzioni ripetitive, ed il suo successo lo misuriamo dall’adattamento degli insetti ad ogni forma di habitat e dal loro coesistere come parassiti degli organismi più grandi e complessi.

Dimensioni corporee maggiori consentono di sostenere cervelli più grandi e l’avvento della ‘plasticità’, ovvero della capacità di apprendere comportamenti non codificati. Questa abilità porta con sé una serie di vantaggi, non ultima la possibilità di trasmettere alla discendenza saperi specifici e locali, oltre ad una maggior adattabilità rispetto a situazioni inattese.

Una specie di erbivori in costante migrazione può trovarsi di fronte a forme di vegetazione sconosciute e potenzialmente letali. Solo l’esperienza, e l’eventuale sacrificio di un individuo particolarmente debilitato, possono informare gli altri della effettiva sicurezza di consumare la nuova risorsa, e generare una specifica cultura che viene poi conservata all’interno del gruppo.

Un comportamento di questo tipo si osserva in alcuni topi (rattus norvegicus), che sono un po’ la ‘forma base’ di tutti i mammiferi sopravvissuti all’estinzione dei dinosauri. È stato osservato che in presenza di un’esca avvelenata il gruppo resta ad aspettare finché uno dei membri più deboli (un anziano, probabilmente affamato) non va a morderla. Quando il topo anziano muore avvelenato, gli altri membri del gruppo ci urinano sopra per marcare olfattivamente la pericolosità di quel tipo di esca, col risultato che da lì in poi tutti gli altri topi della comunità eviteranno di nutrirsene. Questa rappresenta una modalità molto basilare di apprendimento e generazione di una nuova cultura.

Grazie alla plasticità viene a determinarsi una dinamica predatore/preda dove comportamenti troppo prevedibili possono esporre gli individui al rischio di non sopravvivere, mentre la capacità di reagire in maniere inattese diventa un vantaggio immediato nella competizione per la sopravvivenza. Le culture acquisite dei predatori e delle prede si modellano reciprocamente e si trasmettono alle rispettive discendenze.

La nostra specie opera un salto ulteriore liberando gli arti superiori, che possono così essere impiegati per modellare utensili ed utilizzarli, inventando l’evoluzione tecnologica e le forme avanzate di linguaggio, necessarie a trasmettere interi bagagli di competenze da una generazione alle successive, e sviluppando forme di cultura precedentemente inimmaginabili.

Possiamo distinguere tuttavia tra una attitudine di tipo ‘applicativo’ ed una di tipo ‘esplorativo’. La prima è equivalente alla massa dello stormo di uccelli, la seconda ai singoli elementi dotati di maggior propensione al rischio. La massa si limita ad apprendere le conoscenze consolidate, mentre un ristretto numero di individui risulta in grado di forzarne i limiti, ovviamente rischiando in proprio.

In sintesi, mentre per la maggior parte degli individui è sufficiente apprendere ed applicare un bagaglio di competenze consolidato, senza metterlo in discussione, il comportamento ‘estremista’ relativo all’intelligenza consiste nel mettere in discussione il sapere consolidato per estenderlo oltre i confini precedentemente accettati, rischiando evidentemente di fallire nel tentativo.

Questo dilemma è rappresentato in molte delle narrazioni che ci sono giunte dall’antichità, che peraltro continuano a modellare la nostra cultura e le sue espressioni più recenti. Il racconto mitologico di Icaro che vola, con le sue ali, troppo in alto, fino a farle sciogliere dal calore del sole e a morire, rappresenta in forma simbolica l’aspirazione dell’umanità a nuove forme di conoscenza, ed i rischi che ne conseguono per chi provi ad esplorarle.

La conclusione di questo ragionamento rafforza la tesi che le società umane si strutturino ed organizzino per la massima efficienza, e che questo produca una dispersione delle forme di intelligenza e delle attitudini individuali. In più aggiunge una considerazione ulteriore, ovvero che per la maggior parte delle persone sia difficile ragionare per schemi e desumere un quadro coerente della realtà semplicemente dalle evidenze. Di conseguenza il loro approccio alla realtà dipenderà da un sapere acquisito, senza peraltro poter disporre degli strumenti indispensabili a rimetterlo in discussione.

Nel prosieguo conto di sviluppare una riflessione sul Principio di Autorità [5], quindi di esplorare le conseguenze delle presenti conclusioni sulle forme assunte dalle organizzazioni umane per comprendere meglio la loro influenza nei processi di auto-domesticazione [6].


1 – Da cosa si capisce se una persona è molto intelligente (PsicoAdvisor)

2 – Bias Cognitivo (Chiara Venturi)

3 – Evoluzione dell’intelligenza umana

4 – Darwin, Goleman e l’intelligenza diffusa

5 – Principio di Autorità

6 – Domesticazione umana

2 – Evoluzione dei Bias cognitivi

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

La Volontà può scegliere di applicare la Razionalità, oppure di ingannarsi
La Volontà inganna se stessa producendo razionalizzazioni e finendo col crederci
L’esercizio di Volontà è inscindibile da meccanismi di auto-inganno

La razionalità, come abbiamo visto, si è rivelata un potente strumento di manipolazione del mondo e della realtà fattuale. Una sua applicazione indiscriminata può, tuttavia, risultare controproducente, minando l’efficienza delle funzioni biologiche primarie degli individui: sopravvivenza e successo riproduttivo.

Un primo problema discende dai tempi e dall’attenzione richiesti per elaborare le informazioni ricavate dal mondo esterno, informazioni poi non sempre disponibili in quantità sufficienti ed in forme adeguate.

Dover gestire una mole incongrua di fatti, oltretutto potenzialmente ambigui, può causare il blocco dei processi razionali e l’emergere di processi mentali ripetitivi ed inconcludenti, capaci di generare stress e dar luogo a comportamenti svantaggiosi sotto diversi profili.

Allo stesso modo un eccesso di consapevolezza, in particolare quando si affrontino situazioni emotivamente difficili o impossibili da gestire, come una malattia, la stessa vecchiaia o l’idea della morte, risulta potenzialmente disfunzionale, generando una mole soverchiante di pensieri negativi, dannosi per il benessere individuale.

In individui particolarmente sensibili ciò può condurre, non di rado, a comportamenti autodistruttivi. In questo scenario si inquadrano diverse delle derive comportamentali legate allo stordimento (alcol, droghe) ed in ultima istanza al suicidio.

Non è un caso che molte delle filosofie orientali siano focalizzate su tecniche di gestione della mente (meditazione) atte a svuotare la coscienza dall’accumulo di pensieri e preoccupazioni, portato negativo dell’eccesso di consapevolezza.

Per far fronte a questi potenziali guasti il cervello attua spontaneamente specifiche modalità di auto-inganno, i Bias Cognitivi [1], ovvero razionalizzazioni sbrigative, spesso prive di fondamento, che consentono alla sfera emozionale di riprendere il controllo nei momenti di impasse e contenere il rischio di collasso dei processi razionali.

L’acquisizione di capacità di auto-inganno appare pertanto come un necessario ed inevitabile corollario allo sviluppo del pensiero razionale, atta ad impedire che le funzioni cognitive superiori interferiscano con gli imperativi biologici. Un’articolazione obbligata degli strumenti a disposizione della nostra sfera emotiva che si sviluppa in parallelo all’aumento dell’intelligenza e delle abilità di analisi logica.

In sintesi: l’abilità di comprendere la realtà in maniera obiettiva e spassionata porta con sé tutta una serie di complicazioni, che richiedono di essere gestite per non finire col compromettere la nostra capacità di sopravvivenza e riproduzione.

Gli strumenti cognitivi di auto-inganno emergono nel corso dello sviluppo della razionalità proprio per consentire alla sfera emozionale di bypassare, ove necessario, i processi razionali, senza minare la fiducia in essi. Una soluzione che può apparire poco soddisfacente ma che, in termini evolutivi, è risultata premiante.

Conseguenza interessante dell’esistenza dei meccanismi di auto-inganno è che non possiamo mai aver certezza di stare sviluppando un’analisi razionale o, al contrario, di appoggiare le nostre convinzioni su una razionalizzazione priva di reale fondamento. È questo uno dei principali motivi per cui risulta difficile sviluppare un confronto costruttivo su convinzioni non condivise.

La capacità di analisi razionale risulta pertanto limitata all’ambito conoscitivo, mentre qualsiasi applicazione pratica delle nozioni apprese è mediata dalla sfera decisionale, agita dagli ‘imperativi biologici’ e capace di sovvertire senza difficoltà qualsiasi evidenza entri in contrasto con essi.

I meccanismi di auto-inganno vengono rafforzati ed amplificati dalla condivisione sociale, fissandosi in Bias Culturali che tendono a strutturarsi in Processi di Inganno i quali, col tempo, si formalizzano in Ideologie [2].

(continua)


1 – Bias Cognitivi

2 – Ideologie

1 – Razionalità vs Volontà

(comincia la serie di approfondimenti dei punti elencati sinteticamente nel post precedente, intitolato ‘Sui processi di Inganno’)

Le azioni umane sono il prodotto di una Volontà
La Volontà è, per forza di cose, irrazionale
La Razionalità è uno strumento cognitivo al servizio della Volontà

Per far luce su questi due punti occorre risalire alle origini dei processi vitali, intesi come sviluppo di forme biochimiche complesse in grado di autoreplicarsi..

I processi vitali non emergono da una ‘necessità’, si sviluppano unicamente a partire da potenzialità. Date le necessarie condizioni di contorno, implicanti la possibilità di alimentare a tempo indeterminato una chimica organica complessa, è sufficiente la comparsa di molecole auto-replicanti a dare l’avvio ai processi evolutivi.

Da quel punto in poi i comportamenti utili alla sopravvivenza ed alla riproduzione diventano oggetto di auto-selezione: chi ne dispone si riproduce, chi ne è privo, o carente, si estingue, senza alcuna necessità di operare decisioni razionali.

Col passare del tempo i processi vitali tendono spontaneamente ad un aumento della complessità che coinvolge sia le dinamiche di cooperazione che quelle di competizione. In quest’ottica forme di vita più semplici entrano in sinergia per dar vita ad esseri più articolati, come gli organismi unicellulari, i quali, a loro volta, evolvono in organismi multicellulari.

Nella competizione che si sviluppa spontaneamente per la sopravvivenza, la possibilità di esercitare scelte può rappresentare un vantaggio. Per questo motivo osserviamo che gli esseri più complessi sviluppano organi di senso ed una rete di cellule nervose che fa capo ad un cervello, la cui funzione è decidere quali comportamenti mettere in atto.

Cervelli molto semplici, come quelli degli insetti, possiedono solo un ventaglio ristretto di opzioni geneticamente programmate. Cervelli più complessi, come quelli di mammiferi ed uccelli, possiedono una plasticità che li rende in grado di imparare dall’esperienza e dalla trasmissione di informazioni, modellando comportamenti molto più complessi ed efficaci.

La sfera cognitiva, tuttavia, si sviluppa all’esterno delle aree del cervello, più antiche, che coinvolgono le funzioni emotive. Il motivo di ciò è evidente: la razionalità può tornare utile a dirimere situazioni complesse, ma sono le nostre emozioni, la sfera irrazionale, a farci desiderare di sopravvivere e riprodurci.

Senza il desiderio di vivere non c’è sopravvivenza, senza il desiderio sessuale non c’è riproduzione della specie. La razionalità, di fronte a questi ‘imperativi biologici’, è ricondotta alla sua funzione di strumento: utile alla sopravvivenza, ma sottomessa ad altre priorità, necessariamente irrazionali.

L’irrazionalità della Volontà appare evidente dall’egoismo di fondo che regola i processi biologici: si uccide per vivere, si tolgono spazi e risorse ad altri esseri per riservarne di più a se stessi. Questo avviene a monte di tutto, prima dell’evoluzione di organismi complessi, prima dell’emergere degli esseri unicellulari: la molecola organica in grado di cannibalizzare un’altra molecola organica e fare una copia di se stessa già attua, inconsapevolmente, questa modalità relazionale.

Ho usato il termine egoismo, ma è un uso improprio. Solo esseri evoluti, capaci di operare scelte consapevoli, possono descrivere i propri comportamenti in termini di ‘egoismo’. Per organismi più semplici è solo l’unica maniera di continuare ad esistere e non estinguersi. Approfittare delle opportunità è una sorta di ‘dettato universale dei processi biologici’.

In questo scenario, in tempi recenti, appare la Razionalità, che potremmo descrivere come ‘la capacità di prevedere l’esito di diverse azioni potenziali’. I processi razionali consistono nel ricondurre quanto sperimentabile attraverso i sensi ad una concatenazione di fenomeni di causa-effetto, generando un’architettura logica in grado di rendere anticipabili le conseguenze di determinate azioni e situazioni.

La Razionalità è ciò che ha consentito lo sviluppo scientifico ed il raggiungimento di un livello di ‘benessere’ impensabile per le generazioni precedenti, finendo con l’assurgere a specificità unica e peculiare dell’essere umano e a dar vita a nuove mitologie ed ideologie.

Di fatto, però, l’esistenza di un singolo individuo, o di una specie, o dell’intero ambito dei processi viventi non può essere ricondotto ad alcunché di razionale. Ogni tentativo di far ciò è un esercizio puramente ideologico. La vita emerge, dove può, da una potenzialità, non da una necessità e men che meno da una scelta, perlomeno stando a quello che possiamo verificare e validare coi nostri strumenti e coi nostri sensi per mezzo del processo denominato ‘metodo scientifico’ (per quanto anch’esso una ideologia).

Stando a ciò, la decisione se vivere o morire, o quella se riprodursi o meno, o quella di attuare un qualsiasi comportamento o nessuno, non può essere desunta da analisi razionali. A muoverci, a spingerci a vivere, è unicamente l’ambito emozionale: un nucleo di pulsioni ereditate geneticamente che domina l’ambito decisionale e tutte le nostre scelte.

Una volta deciso che vogliamo vivere, la razionalità può aiutarci a scegliere come vivere. La razionalità funge pertanto da strumento per la volontà, consentendo di perseguire i risultati desiderati. Ma la volontà è una pulsione irrazionale, votata alla sopravvivenza ed ai comportamenti connessi. Una pulsione che trae origine e legittimazione dal suo stesso esistere.

(continua)

La solitudine dei filosofi

Nell’arco dei quasi sedici anni di vita di questo blog ho finito col maturare una inevitabile stanchezza. La voglia di scrivere non è scomparsa, a frenarmi non è un esaurimento della motivazione. È, piuttosto, la consapevolezza delle conseguenze di ciò che vado elaborando ultimamente.

La scoperta del meccanismo che origina i bias cognitivi ha rappresentato per me un punto di non ritorno, consentendomi di inquadrare la fragilità umana in tutta la sua varietà e complessità. La natura ci ha donato una straordinaria capacità di comprensione che risulta, al tempo stesso, uno strumento formidabile per comprendere la Realtà ed un costante attentato alla nostra stessa capacità di sopravvivenza.

L’estrema lucidità, l’estrema comprensione della natura del mondo, ci lasciano basiti ed inermi, soli al cospetto dell’inumana indifferenza del Cosmo. Solo i bias cognitivi ci aiutano a sopportare la ‘cruda realtà’, restituendoci consolanti fantasie esistenziali. Forme di auto-inganno di cui l’evoluzione ci ha forniti come aiuto per sopportare le avversità.

Da un po’ di tempo, probabilmente da sempre, la mia curiosità si è data a smontare questi costrutti. Il metodo scientifico, il continuo rimettere in discussione quello che pensiamo di conoscere, è un potente grimaldello in quest’opera di demolizione, il cui fine ultimo dovrebbe essere il raggiungimento di una comprensione chiara e lucida della realtà, non offuscata da millenni di inquinamenti culturali.

Tuttavia, più avanzo in questo percorso, più strada percorro sulla via della conoscenza, e più ottengo di allontanarmi dai miei stessi simili. Le verità che raccolgo sono spiacevoli, scomode da accettare, a tratti disperanti. L’Universo è senza senso, la civiltà umana è senza senso, le nostre vite sono senza senso. È possibile accettare questa realtà?

Personalmente, in qualche modo ci sto riuscendo, ma quel che vale per me non è detto che valga per tutti. Ho imparato in giovane età a fare a meno del conforto della fede, e più avanti ho finito col disfarmi di altre narrazioni confortanti, legate alla scienza ed alla politica. Realizzo tardivamente che potrei essere un’eccezione.

Nella vita non sono mai stato attratto dalla ricerca dello stordimento, ottenuto da molti con l’alcol e le droghe. Non mi sono mai ubriacato, mai sballato. Oggi posso leggere con lucidità queste forme di ricerca dello stordimento come segnali di fragilità, tentativi disperati di alleviare il ‘peso della vita’. La vita non mi è mai pesata, e in questo mi ritengo fortunato.

Nondimeno la vita è un peso per molti, soprattutto con l’avanzare dell’età, con la rinuncia ai sogni della gioventù, con la realtà di un corpo che perde colpi, con la scomparsa di persone care. Più si diventa fragili, più ci si aggrappa alle illusioni. È una reazione umana che non è possibile biasimare.

La mia ricerca intellettuale va in direzione opposta rispetto a questa necessità. Le persone hanno bisogno di illudersi per tirare avanti, io invece procedo a macinare queste illusioni, riducendole in polvere. E qui veniamo al punto: quale può essere il senso di condividere le mie conclusioni? Che utilità possono avere, non già per me, ma per chi le legge?

Se le persone hanno bisogno di credere, nell’essere umano, nella cultura, nella politica, nell’aldilà, nella scienza, negli ideali, che senso ha distruggere queste illusioni? Solo perché personalmente sono in grado di sopportare una tale consapevolezza, cosa mi fa ritenere di poterla infliggere con leggerezza a chicchessia?

Questo è il motivo per cui, ormai da settimane, sto girando a vuoto. Scrivo, pagine su pagine, inanello evidenze e relazioni, rapporti di causa-effetto, ma alla fine arrivo sempre al punto di domanda: a che serve, a chi serve, quello che sto scrivendo? Non trovo risposta, e le pagine restano ammucchiate nei files dove le ho stipate.

L’ultima domanda rimane, a questo punto, a cosa serva ancora questo blog. Al momento non ho una risposta. Non sono più la persona che lo avviò, quasi sedici anni fa. La mia vita è diversa, la mia consapevolezza è diversa, nemmeno il mondo è più lo stesso di prima.

Se smetterò di scrivere, come sembra probabile, lo lascerò aperto per i visitatori occasionali, come una stele assira in caratteri cuneiformi, a coprirsi di polvere digitale. Lo slancio che mi animava anche solo tre lustri fa si è col tempo esaurito, le aspettative rispetto alla rilevanza di questo strumento si sono pian piano prosciugate, ed al momento ho dubbi anche sulla sua reale utilità.

Senza voler essere pessimisti, non mi sembra verosimile un ritorno di fiamma, perlomeno in tempi brevi. Questo potrebbe essere l’ultimo post a tempo indefinito. Un saluto a chi mi ha seguito fin qui.

Bias culturali – l’idea di normalità

Credit: image from Pedro Szekely on Flickr

Comincerò con un aneddoto. Anni fa mi accingevo a tornare a casa dall’ufficio, in bicicletta. Un collega di lavoro, il tipo di persona che si identifica in un’automobile sportiva, uscendo dallo stesso edificio mi apostrofò con disprezzo: “Tu non sei normale!”. Per nulla turbato da tale considerazione gli risposi serafico: “Io non voglio essere normale”. Non ci furono repliche.

Un’analoga idea di normalità è recentemente riemersa nel corso della campagna elettorale. La destra ha suggerito l’idea di intervenire per correggere le ‘devianze’, intendendo con questo termine una serie di ‘derive comportamentali’, contrapposte ad una presunta ‘normalità’. Il punto è che discriminare la popolazione tra ‘normali’ da un lato e ‘devianti’ dall’altro è totalmente sbagliato.

In natura non esiste la normalità, semmai esiste una ‘prevalenza’ di alcuni caratteri su altri. Le caratteristiche prevalenti, in una specie, sono quelle che meglio si adattano alla situazione contingente, consentendo ai singoli individui, ai gruppi ed all’intera specie di prosperare. Tuttavia la natura, per mezzo della riproduzione sessuata e delle mutazioni casuali, si riserva margini di errore, producendo ad ogni generazione individui significativamente diversi dalla versione standard. Sono proprio questi individui che, al mutare delle situazioni contingenti, possono consentire ai gruppi cui appartengono di adattarsi e continuare a prosperare.

Per chiarire meglio il concetto citerò un esempio tratto da “L’Origine delle Specie” di Charles Darwin [1]. La lunghezza del pelo, in una qualunque specie animale, discende in linea diretta dalle condizioni climatiche standard in cui la specie vive e prospera. Un individuo che nasca col pelo più folto soffrirà il caldo, risultando svantaggiato nella competizione per la sopravvivenza e la riproduzione. Analogamente, un individuo dal pelo più corto soffrirà il freddo, con conseguenze simili. Questa forma di svantaggio fa sì che gli individui con caratteristiche difformi dai valori ottimali non abbiano la possibilità di alterare lo standard dell’intera specie.

Tuttavia, nel momento in cui le condizioni climatiche si trovino a variare, come ad esempio all’inizio di una glaciazione, saranno gli individui dal pelo più folto ad essere avvantaggiati, a sopravvivere e a riprodursi con maggior facilità. La loro esistenza rappresenta un margine di adattabilità fondamentale per preservare la specie dal rischio di estinzione. Inoltre, specie che si ritrovino, per un qualunque motivo, a popolare habitat diversi da quello originario, superato un primo periodo di difficoltà finiscono con lo sviluppare adattamenti specifici, locali, che risultano vantaggiosi nel nuovo habitat, diversificandosi dalla linea genetica di partenza.

La diversità fra singoli individui rappresenta pertanto una necessità nei processi evolutivi, e non solo non può essere eliminata, ma è al contrario fondamentale per garantire alle specie la necessaria capacità di adattamento alle eventuali trasformazioni degli habitat ed alla competizione con specie differenti. Basterebbe già questo per bollare determinate ideologie suprematiste, basate su idee come la ‘purezza della razza’, come Bias Culturali, ma c’è dell’altro.

Quando spostiamo l’attenzione dai singoli individui alle specie sociali osserviamo che non è tanto l’efficacia individuale a rappresentare la carta vincente, dato che il gruppo (mandria, stormo, banda, tribù, piccola comunità) agisce come un sovra-individuo, integrando le capacità dei singoli membri. In natura disporre di un ventaglio differenziato di abilità rappresenta un vantaggio. Un gruppo dotato di individui con abilità diverse riesce ad essere più versatile, e meglio adattabile, di un gruppo in cui tutti sanno fare più o meno le stesse cose.

Il vantaggio di mettere a sistema le singole abilità travalica l’appartenenza di specie. Come ho osservato personalmente in Sud Africa, branchi di erbivori di specie diverse pascolano abitualmente insieme, spontaneamente integrando i differenti acumi sensoriali per meglio individuare la presenza di predatori. Animali che hanno una vista scadente (i rinoceronti) possiedono per contro un ottimo olfatto, animali che hanno un olfatto scadente possono avere un ottimo udito, animali che hanno un udito scadente possono avere una vista più acuta. All’avvicinarsi dei predatori, la prima specie ad accorgersene fugge, e in questo modo allerta tutte le altre.

Analogamente, in un gruppo di umani è vantaggioso avere un ampio ventaglio di caratteristiche individuali, con alcuni più alti della media, altri più bassi, alcuni più forti e massicci, altri più veloci, come pure avere individui che metabolizzano meglio alcuni cibi, altri con una vista superiore alla media, o con un ottimo udito, o con un olfatto sensibile. Lo stesso vale per le caratteristiche psicologiche: alcuni individui possono essere più irruenti, altri violenti, altri emotivi, altri calmi, altri razionali. Non esiste una risposta unica ed ottimale a tutti i problemi, per questo è necessario generare e conservare un ventaglio di capacità e propensioni diverse.

Se le abilità di un singolo individuo sono definite dal suo personale patrimonio genetico, le abilità complessive del gruppo sono espressione del pool genetico collettivo. Quelle abilità particolari che nel gruppo risultino carenti, diventano oggetto di attrazione e desiderio sessuale nei confronti di membri di altri gruppi, portando di norma alla formazione di coppie fra individui appartenenti a diverse comunità.

Questo discorso vale anche per condizioni particolari, estreme e fortemente svantaggiose per i singoli individui, come possono essere i disturbi mentali, caratteriali o, limitatamente alla sfera riproduttiva, l’omosessualità. Nel momento in cui queste caratteristiche risultano in grado di procurare un vantaggio al gruppo, nonostante gli svantaggi derivanti ai singoli individui, esse vengono preservate all’interno del pool genetico (con una prevalenza ad esprimersi raramente).

In molti popolazioni native del Nord America, ad esempio, veniva riconosciuta una ‘doppia natura’ di alcuni individui, ossia il non essere così nettamente maschi o femmine (corrispondente a ciò che viene attualmente identificato con le etichette di omosessualità e transgender). Questi individui, anziché essere stigmatizzati o emarginati, come nelle culture coeve del Vecchio Mondo, venivano ritenuti più vicini alla realtà immateriale, al mondo degli spiriti, e finivano solitamente a svolgere la funzione di sciamani.

Nel ruolo di sciamani, sacerdoti o profeti potevano trovare spazi, status ed accettazione sociale perfino individui con disturbi mentali. Esistono condizioni fisiologiche, come l’epilessia del lobo frontale, che causano a chi ne soffre visioni mistiche perfettamente convincenti. Considerata l’importanza per una piccola comunità, in termini di collante sociale e capacità di resilienza, di convinzioni religiose riguardanti una realtà immateriale (comuni a tutte le comunità umane note, dalla preistoria ad oggi), risulta evidente come condizioni semi-patologiche possano essere state in grado, dato un particolare contesto, di generare vantaggi per le antiche comunità, ed essere perciò state preservate nel genoma attuale.

In linea di massima, una collettività comprendente individui con caratteristiche fisiche e mentali disperse su un ampio ventaglio di variabilità risulta più efficiente, compatta e capace di affrontare le difficoltà rispetto ad una composta da individui simili o del tutto identici. Questo discorso vale per tutte le forme viventi.

Un ambito dove risultano evidenti le conseguenze di una ridotta variabilità genetica sono le produzioni agricole industriali, dove la disponibilità di sementi più produttive di altre ha portato all’avvento delle monocolture. La coltivazione su più ettari di terreno di piante geneticamente identiche fa sì che le piante stesse siano tutte identicamente attaccabili da un medesimo parassita, portando alla perdita di interi raccolti laddove la variabilità naturale ne avrebbe salvato una parte, quella diversamente in grado di resistere ai predatori.

Tornando al discorso iniziale, da dove nasce l’idea che la ‘normalità’ sia una condizione talmente desiderabile da renderla un totem, al punto da volerla forzatamente estendere all’intera popolazione? Da quale bias cognitivo emerge il Bias Culturale, promosso da partiti di destra e da molti integralismi religiosi (entrambi IdeoCulture), che bolla tali ‘devianze’ come difetti da dover ricondurre nell’alveo di una non meglio definita ‘normalità’? Nel mio modello interpretativo, nel momento in cui vengono diffuse idee in contrasto con le evidenze fattuali è chiaramente in atto un ‘processo di inganno’ [2].

Una buona parte dei processi di inganno si fonda su paure irrazionali. Una paura profonda è quella di essere noi stessi dei ‘devianti’, o di poterlo diventare, o che possano diventarlo persone a noi care, che dipendono da noi, o dalle quali noi stessi dipendiamo. Questo è conseguenza del fatto che le ‘atipicità’ comportano un bagaglio di difficoltà per gli individui che ne sono portatori, e nessuno desidera aggiungere ulteriori problemi a quella che è già la normale fatica di vivere. Il fatto stesso che i caratteri ‘atipici’ vengano espressi nel pool genetico in percentuali ridotte evidenzia la difficoltà che essi generano agli individui che ne sono portatori, riducendone l’aspettativa di vita ed il successo riproduttivo.

La normalità, ossia l’assenza di una qualsiasi eccezionalità, rappresenta quindi una ‘comfort-zone’ all’interno della quale le persone trovano rifugio da un’esistenza che non manca di produrre fatica e stress. L’idea di perdere tale condizione privilegiata, o che ciò accada ad una persona cara (trascinando con sé, nel disagio, l’intero nucleo familiare), è una preoccupazione diffusa. Oltre al fatto che forme estreme di scostamento dallo standard possono ben rientrare nella casistica delle patologie.

Se la comparsa di individui portatori di caratteristiche atipiche e svantaggiose ci pare ingiusta, va considerato che i processi di selezione naturale non sono modellati da esigenze etiche. In natura si producono spontaneamente individui con caratteristiche differenti, ed è solo la maniera in cui queste specificità riescono ad adattarsi alla situazione contingente a dettare la sopravvivenza o meno, ed il successo riproduttivo, del singolo individuo. Questo processo, come abbiamo visto utile e necessario a livello di gruppi e specie, comporta che molte delle ‘eccezionalità’ che si generano spontaneamente finiscano col tradursi in insuccessi, non di rado con conseguenze tragiche per i singoli individui.

Ad aggiungere ulteriore complicazione c’è l’impossibilità di tracciare un confine netto tra le ‘eccezionalità’ destinate al successo e quelle che conducono a forme di autodistruzione. A seconda del contesto sociale, o culturale, in cui vengano a manifestarsi, determinate caratteristiche fisiche e/o mentali possono condurre all’ascesa sociale o alla prematura scomparsa. Forme di irrequietezza intellettuale possono sbocciare in un talento artistico apprezzato da molti, o in una leadership carismatica, con conseguente successo sociale o, per ragioni totalmente fuori dal nostro controllo, deviare verso l’abuso di sostanze psicotrope (alcol e droghe) e addirittura condurre al suicidio.

In conseguenza di ciò, oltre alla naturale fascinazione, esiste un istintivo ed irrazionale ‘fastidio’ nei confronti degli individui con caratteristiche di eccezionalità. Fastidio che si aggrava nel caso di tratti platealmente svantaggiosi, come le disabilità fisiche o mentali, stante il riflesso istintivo ed irrazionale a temere di perdere ciò che riteniamo parte integrante del nostro essere individui, ovvero la salute fisica e mentale. Su queste preoccupazioni ed insicurezze è relativamente facile modellare ed alimentare narrazioni collettive consolatorie (Bias Culturali), finalizzate ad guadagnare consenso popolare e ad ottenere potere decisionale.

Va poi considerato un ulteriore fattore di scala, generato dai processi di massificazione che hanno operato negli ultimi secoli. In una piccola comunità, il cui obiettivo è la sopravvivenza spicciola, ogni individuo trova il modo di rendersi utile, anche nella sua diversità. Per contro, in una comunità allargata e scarsamente differenziata le caratteristiche ‘eccezionali’ finiscono col generare più problemi che vantaggi, ai singoli ed alla collettività. Da ultimo, i processi industriali hanno contribuito a mettere in buona luce l’uniformità, in contrasto con l’eterogeneità.

A partire dalla rivoluzione industriale si è compreso come solo i processi ‘normalizzati’ consentano di generare i massimi livelli di produzione, attraverso le economie di scala. Costruire un singolo componente ha un costo che può essere quasi totalmente ammortizzato nel caso se ne producano migliaia, attraverso la realizzazione di processi standardizzati. Una singola vite può essere realizzata al tornio, da un operaio specializzato, e costerà in proporzione al tempo/persona richiesto. Una vite identica può essere prodotta in migliaia di copie da un macchinario (il cui costo finirà spalmato su un numero estremamente alto di esemplari, pressoché azzerandosi) ad un costo infimo, pari a poco più del valore del metallo di cui è composta.

Questi processi hanno inevitabilmente influito sulla nostra percezione del valore delle cose, che viene correlato ai metodi produttivi: ciò che viene fabbricato in serie, in copie tutte identiche, è ritenuto affidabile anche se offerto a prezzi molto bassi, perché questo è lo standard al quale l’industria ci ha abituati. Da qui a trasferire questo giudizio sulle persone il passo è breve: tutto quello che si discosti più di tanto dalla ‘norma’ viene considerato semplicemente ‘difettoso’, come se la natura (o Dio, per chi ci crede) commettesse errori nel tentativo di produrre, con uno stampino, individui tutti perfettamente identici.

Da notare che, in campagna elettorale, alle parole della destra contro le ‘devianze’, da parte opposta si è contrapposto uno slogan parimenti privo di senso, “viva le devianze”, anch’esso frutto di una visione totalmente ideologica delle relazioni umane, ma di segno contrario. Le caratteristiche ‘eccezionali’ devono trovare accoglienza nella collettività, ma tale accoglienza non può ignorare le difficoltà ad esse connesse che ricadono, spesso con conseguenze negative, sui singoli individui e sulla loro cerchia relazionale.

Il linguaggio della politica, inevitabilmente, tende a rispecchiare il generale livello di consapevolezza collettiva. In questo caso risulta sconfortante il grado di semplificazione veicolato nella narrazione pubblica rispetto a tematiche sociali gravi e persistenti, se non addirittura in via di aggravamento. Un ulteriore riflesso di quanto lontano sia il sentire comune rispetto alle evidenze fattuali da tempo acquisite nella letteratura scientifica.

Nello specifico, il disagio di vivere, che in ogni individuo si declina diversamente, è la causa prima su cui intervenire. Depressione, alcolismo, violenza, stili di vita autodistruttivi, ne sono gli effetti, descritti come ‘devianze’. Il disagio di vivere discende a sua volta dall’interazione tra la nostra natura individuale, biologica, genetica, ed il contesto in cui questa natura si esprime. Se la natura individuale, nel suo ventaglio di espressioni, risulta immodificabile, stanti i tempi lunghissimi dell’evoluzione biologica, è invece il contesto in cui ci troviamo a vivere ad essersi radicalmente alterato nel volgere di pochi secoli, in una progressione inarrestabile.

La sensazione è che esista una volontà collettiva, inespressa e probabilmente almeno in parte inconsapevole, di applicare alla nostra specie gli stessi criteri di produttività mutuati dallo sviluppo industriale. Persa la necessità, propria dei piccoli gruppi umani del lontano passato, di difendere ed integrare gli individui portatori di ‘diversità’, si procede a rimuovere le ‘devianze’ dal corpus sociale, attraverso lo stigma, la repressione o il carcere, in un processo del tutto analogo all’eliminazione degli scarti di produzione all’interno di un processo industriale.

Veicolare, nella comunicazione collettiva, l’idea che occorra intervenire unicamente sugli effetti, le cosiddette ‘devianze’, scegliendo bellamente di ignorare le cause a monte, appare come un’operazione puramente demagogica: l’alimentazione di un Bias Culturale in chiave di puro opportunismo.

Esistono al contrario cause prime passibili di intervento, come l’organizzazione abitativa e sociale, le modalità relazionali e l’influenza dei vettori culturali, sempre più nelle mani dei grandi potentati economici, a differenza delle cause nel complesso ineliminabili, perché scritte nel nostro DNA collettivo, nel nostro bagaglio di biodiversità.

Questa consapevolezza dovrebbe portarci a ripensare l’intera organizzazione sociale e collettiva, a rimettere al primo posto i bisogni umani, schiacciati da un processo che ci sta progressivamente trasformando in automi. Un processo di massificazione e livellamento che, nel generare profitti astronomici, procede ad alimentare una narrazione collettiva mendace ed ottundente, tesa a sopraffare le nostre individuali, limitate, capacità intellettive.


1 – Meu amigo Charlie Darwin

2 – Competizione, cooperazione e inganno

La funzione ecosistemica dell’idealismo

Mi sono trovato a riflettere, recentemente, su quelli che nel modello darwiniano dell’evoluzione vengono definiti come ‘tratti giovanili’. In sostanza lo sviluppo degli individui segue una serie di passaggi, a cui corrispondono determinate caratteristiche fisiche. Alcune delle caratteristiche tipiche della fase giovanile vengono spesso perse nelle fasi successive.

L’esempio più eclatante ci viene dal mondo degli insetti. In queste forme di vita la fase giovanile (o larvale) è caratterizzata da individui profondamente diversi da quelli che emergono nella fase adulta. Le farfalle, ad esempio, escono dalle uova sotto forma di bruchi. Questa forma iniziale ha l’unica funzione di incamerare abbastanza cibo e materia organica per poter affrontare la metamorfosi che produrrà l’individuo adulto.

L’insetto adulto è una creatura sostanzialmente diversa dalla larva da cui ha avuto origine, dispone di arti ed organi che le consentono di volare, dell’apparato riproduttivo e di un sistema sensoriale differente. Alcune specie di farfalle non possiedono più nemmeno l’apparato digerente. La loro unica funzione, come forma adulta, è quella di accoppiarsi, deporre le uova nel volgere di poche ore, riprodurre la specie e quindi morire.

Il fatto che una specie trascorra, nella fase larvale, un arco di tempo molto più lungo di quello successivamente vissuto, in una forma sostanzialmente diversa, dall’individuo adulto, ci obbliga a riconsiderare l’idea antropocentrica di cosa sia un individuo, la nostra stessa funzione ecosistemica e l’importanza delle priorità dettate dalle esigenze di sopravvivenza.

Nel caso delle farfalle non possiamo limitarci a ritenere che la forma larvale sia unicamente funzionale allo sviluppo di un individuo adulto, e che necessariamente sia questo individuo a rappresentare “la specie”. Potremmo altrettanto correttamente affermare che l’individuo adulto rappresenti solo la fase terminale della vita dell’individuo, caratterizzata unicamente dalla funzione riproduttiva.

La conclusione probabilmente più estrema di questo approccio è probabilmente la definizione di una gallina come “lo strumento utilizzato da un uovo per produrre un altro uovo”. Da una prospettiva cellulare, il fatto di moltiplicarsi fino a produrre un individuo che risulta in grado di generare una copia, o meglio una nuova versione, della cellula originaria, è funzionale alla sopravvivenza della cellula stessa.

Un altro esempio inizialmente spiazzante, appreso grazie ad una discussione sui social, riguarda una particolare branca del regno animale che prende il nome scientifico di Tunicata. I tunicati sono forme di vita marine molto primitive, che passano la loro esistenza adulta in maniera non diversa dalle meduse o dai molluschi, vivendo come organismi filtranti, ovvero creature che estraggono dall’acqua che li attraversa i nutrimenti necessari alla sopravvivenza.

La caratteristica apparentemente bizzarra di queste creature è la presenza, nella forma larvale, di un organo detto notocorda, che è l’antenato della colonna vertebrale. La presenza della colonna vertebrale ha rappresentato un enorme successo evolutivo, consentendo di bypassare i limiti dell’esoscheletro sviluppato dagli artropodi producendo uno scheletro interno. La presenza di questo organo ha consentito lo sviluppo di creature di grandi dimensioni che hanno successivamente occupato buona parte delle nicchie ecologiche. I vertebrati, di cui anche noi facciamo parte.

Ma nei Tunicati la notocorda sparisce passando dalla fase larvale all’individuo adulto, lasciando un grosso interrogativo: come mai una caratteristica che si è dimostrata tanto vantaggiosa da consentire all’ordine dei vertebrati l’occupazione di una enorme varietà di nicchie ecologiche viene in questa specie abbandonata, lasciando l’individuo adulto privo della mobilità che essa garantisce? Per l’approccio classico appare come un controsenso evolutivo.

Una delle ipotesi che è stata formulata per spiegare questo apparente controsenso è che la notocorda si sia originariamente sviluppata per migliorare la mobilità delle larve, ed in seguito, attraverso meccanismi di conservazione delle caratteristiche giovanili ben descritti dai modelli evoluzionistici, abbia finito col mantenersi in una parte degli individui adulti, dando origine ad una prima speciazione che in seguito ha portato allo sviluppo delle migliaia di forme di vertebrati, dai pesci agli anfibi, che hanno a loro volta prodotto rettili, dinosauri e mammiferi, fino ad arrivare agli uccelli, diretti discendenti dei dinosauri.

Questa spiegazione obbliga, perlomeno me, ad un radicale cambiamento di prospettiva, perché distingue nettamente fase giovanile e fase adulta in termini di funzioni ecosistemiche svolte. La fase giovanile ha l’unica finalità di generare l’individuo adulto, al quale è demandata la funzione riproduttiva, a cui fa seguito l’eventuale accudimento della prole, fino alla senilità ed al declino.

Considerata l’estrema e radicale diversificazione di queste fasi nel mondo animale, mi pare difficile da sostenere la tesi che non avvengano trasformazioni analoghe nella nostra specie. In particolare, data l’importanza svolta dal nostro enormemente complesso cervello, per quel che riguarda l’evoluzione cognitiva. Appare per contro molto verosimile che il cervello, nella sua fase giovanile, possa essere fisiologicamente differente da quello incaricato di gestire la maturità.

Se osserviamo lo sviluppo umano, possiamo distinguere facilmente i vari momenti che lo contraddistinguono. La prima fase, l’infanzia, richiede anni per far sì che gli individui sviluppino la padronanza del proprio corpo ed apprendano le basi culturali che legano insieme il gruppo di cui fanno parte. La seconda, l’adolescenza, è la fase in cui ci si comincia a misurare con potenzialità e risultati, ci si sfida, si affronta la maturazione sessuale e ci si prepara al momento riproduttivo, in genere stabilendo un legame di coppia.

È interessante notare come lo sviluppo cerebrale acceleri nel corso di questa seconda fase, con l’avvento della ‘materia bianca’ che, diffondendosi nelle diverse aree del cervello, velocizza la trasmissione di dati nella rete neuronale. È altrettanto interessante notare come questa diffusione non sia uniforme, ma proceda partendo dalle aree interessate all’elaborazione delle emozioni, raggiungendo per ultime le aree cognitive.

Questo significa che un adolescente, fino al raggiungimento della maturità, è preda di forti emozioni sulle quali ha uno scarso controllo. È possibile che questa ‘diffusione asimmetrica’ non sia un processo legato a vincoli fisiologici, ma risponda a logiche di ‘vantaggio riproduttivo’? Di fatto adolescenti e giovani devono in qualche modo superare di slancio la consapevolezza del carico di dolore e fatica che produrrà l’accudimento della prole, quindi il fatto che la sfera emotiva risulti potenziata rispetto alla sfera cognitiva si dimostra funzionale.

Per contro, superata la fase riproduttiva, avere il pieno controllo delle capacità cognitive rappresenta un vantaggio per poter affrontare, senza tanti ‘grilli per la testa’, le incombenze legate alla sopravvivenza ed all’accudimento di una famiglia, dal momento che lo sviluppo cerebrale della nostra specie ha tempi significativamente più lunghi di quello degli altri mammiferi. La nostra prole impiega archi temporali molto lunghi per raggiungere il momento in cui è in grado di provvedere autonomamente a se stessa, il che implica una fase prolungata di cure parentali.

Il cervello umano deve perciò adattarsi a condizioni diverse, in diversi momenti della sua esistenza, e questo è un’evidenza. Il passaggio ulteriore che vorrei proporre qui è considerare queste trasformazioni da un punto di vista fisiologico, ovvero ipotizzare che l’evoluzione delle nostre risposte emotive e cognitive non sia unicamente il portato di situazioni contingenti, o un dato meramente culturale, ma sia in qualche modo ‘scritta’ nei processi metabolici che sperimentiamo nel corso della crescita.

In questo senso l’iperattività infantile ed adolescenziale, l’emotività, l’ansia di sperimentare cose nuove, gli slanci ideali, possono essere descritti come ‘tratti giovanili’ delle funzioni cognitive. Caratteristiche che si rivelano funzionali nelle fasi iniziali della vita, ma destinate a perdersi, o quantomeno a ridimensionarsi, col procedere della maturazione fisiologica degli individui.

Questo spiegherebbe la percezione diffusa che le convinzioni politiche cambino col passare degli anni, che i ‘giovani rivoluzionari’ finiscano col trasformarsi in adulti moderati e, più in là con gli anni, in anziani conservatori. Siamo abituati a pensare che ciò sia dovuto ad un non meglio definito ‘processo di maturazione’, ma è verosimile la tesi che si tratti di un processo guidato da dinamiche evolutive, scandito dai processi di duplicazione cellulare e con componenti importanti di natura fisiologica.

Ad esempio, l’idea che le istanze solidaristiche e ‘di sinistra’ siano in prevalenza appannaggio delle giovani generazioni potrebbe discendere da un processo di ‘selezione sessuale’: le giovani femmine sarebbero maggiormente attratte da maschi che propugnano idee egualitarie e ideali di solidarietà perché li riterrebbero più idonei a prendersi cura della prole dopo il concepimento.

Parimenti i maschi che, sempre dopo il concepimento (e quindi avendo ormai completato la fase riproduttiva), risultino capaci di ridurre o perdere i propri slanci ideali, per spendere risorse ed attenzioni in cure parentali, sarebbero avvantaggiati sotto il profilo del successo riproduttivo, perché la loro prole crescerebbe sana, equilibrata e capace di portare a sua volta a compimento quello stesso processo (sempre evolutivamente parlando).

Ovviamente questa generalizzazione non si può facilmente ricondurre a singoli casi, per diversi motivi. In primis lo spettro di variabilità comportamentale espresso dal genoma di specie fa sì che, ad ogni generazione, emergano caratteri estremisti, quindi individui che non presentano i suddetti ‘tratti giovanili’, o per contro altri che li conservano fino all’età adulta o addirittura alla senilità.

In secondo luogo perché lo stravolgimento culturale operato dalla modernità fa sì che il contesto cui gli individui devono adattarsi sia diventato enormemente fluido, consentendo a diversi di quelli che abbiamo definito ‘tratti giovanili’ di favorire il successo dei singoli individui anche in età più avanzate, rallentandone così il naturale declino.

La tesi, fin qui descritta, che gli slanci ideali siano, nella nostra specie, un ‘tratto giovanile’ di natura psichica, destinato a scomparire col raggiungimento della maturità per lasciare il posto a quello che potremmo definire come ‘istinto alla conservazione’, rappresenta una ulteriore pietra tombale sui ‘valori’ e sulle ideologie in generale, e in qualche modo giustifica l’incapacità dei movimenti politici sviluppatisi da due secoli a questa parte nel costruire forme di società più eque e più giuste.

Tali forme di organizzazione ‘felici’, che in gioventù crediamo possano funzionare e rappresentare una futura evoluzione sociale della nostra specie, potrebbero essere null’altro che un’ennesima forma di bias cognitivi: auto-illusioni alimentate dal nostro cervello per aiutarci a svolgere le finalità biologiche individuali legate alla riproduzione della specie.

È una conclusione molto amara, e nonostante ciò l’unica calzante con la mia personale esperienza di vita. D’altronde, il percorso culturale che ho deciso di affrontare consiste nello scremare quanto di ideologico c’è nelle mie convinzioni, passando queste ultime al vaglio del confronto impietoso con la realtà fattuale.

La realtà fattuale, per quanto possiamo sforzarci di ammorbidirla, si contrappone alle semplificazioni ideologiche, presentando un quadro di eventi sistematicamente difforme dalle aspettative. Le ideologie, quando siamo in grado di alimentarle, e massimamente nelle fasi giovanili, rappresentano un buon anestetico all’inaccettabile brutalità del mondo reale. Anche per questo facciamo tanta fatica ad abbandonarle.

Razionalità ed emozioni

Da convinto razionalista, com’ero in gioventù, negli ultimi tempi mi sono ritrovato spesso a ragionare sulle emozioni. Il motivo di questo slittamento d’interesse risiede nella sopravvenuta consapevolezza della sostanziale irrazionalità delle scelte umane, e nella conseguente esigenza di comprendere l’origine di tale irrazionalità. Svilupperò quindi un’analisi dell’emergere dei processi cognitivi, razionali ed irrazionali, e di come si sono venuti strutturando, nella nostra specie, nella forma di un dipolo emozioni/razionalità.

La base di partenza è sempre Darwin: se una caratteristica esiste, nei viventi, è per soddisfare una necessità. Le emozioni svolgono la funzione di spingerci ad agire, a fare scelte, a correre rischi. Senza questa molla, senza amore, senza paura, senza rabbia, diventiamo esseri inerti e ci lasciamo morire. Le emozioni sono quindi estensioni, o parti funzionali, di quell’attitudine, comune a tutte le forme di vita, che prende il nome di ‘istinto di sopravvivenza’.

L’istinto di sopravvivenza è una caratteristica essenziale dei processi vitali. Il motivo è presto detto: per vivere, per riprodursi, occorre una spinta a farlo. Chi la possiede, vive e si riproduce, chi non ce l’ha, si limita a scomparire dalla scena, senza produrre discendenti. Non è un’esigenza consapevole e non ha nessuna origine razionale, è semplicemente un tratto autoselettivo: possederlo conduce alla sopravvivenza ed alla sua trasmissione, non possederlo conduce all’estinzione. Non si fatica a comprendere come, dall’avvento delle prime forme viventi, il mondo si sia popolato unicamente di specie portatrici di questa caratteristica innata.

Nelle creature più semplici l’istinto di sopravvivenza si esplicita in assenza di funzioni cognitive. Batteri ed organismi unicellulari funzionano come complesse macchine organiche le cui uniche funzioni sono sopravvivenza e riproduzione. La riproduzione sessuata rimescola le carte ad ogni nuova generazione e può dar luogo ad individui che difettano di questa funzionalità. Tali individui, soccombendo, si rimuovono automaticamente dal genoma della specie, lasciando riprodursi solo quelli portatori di una sua versione funzionale.

Il processo spontaneo di aumento della complessità ha successivamente portato allo sviluppo di organismi multicellulari, creature via via più capaci di mobilità e di comportamenti complessi. Attraverso il processo di differenziazione cellulare degli organismi, le singole cellule si sono evolute per svolgere compiti diversi. Una parte di queste cellule ha sviluppato capacità sensoriali, rappresentando un primo canale comunicativo tra il mondo esterno e l’organismo, altre sono diventate neuroni, formando la struttura responsabile dei processi decisionali.

L’apparato cognitivo-sensoriale ha rappresentato un grosso vantaggio evolutivo per la specie, ormai irrintracciabile, che per prima è riuscita a disporne. Conoscere la localizzazione del nutrimento e poter decidere di muoversi nella sua direzione rappresenta un vantaggio importante rispetto agli organismi banalmente filtranti, che si limitano a fissarsi in un punto ed attendere che le correnti gli portino i nutrienti. Questo vantaggio ha dato luogo allo sviluppo ed all’evoluzione del cervello.

Nei cervelli più semplici, come quelli degli invertebrati, pochi neuroni controllano un ventaglio di comportamenti ristretto ed efficace. Esperimenti sulle vespe hanno dimostrato l’assenza di plasticità di queste reazioni, ovvero l’incapacità di adeguare il comportamento al mutare delle situazioni. Potremmo rappresentarci gli insetti come minuscoli robot organici, capaci di un limitato set di reazioni agli stimoli, fisso ed immodificabile, relativo ai comportamenti in grado di garantire la continuità della specie.

Con lo sviluppo dei vertebrati le dimensioni corporee hanno potuto crescere in maniera significativa. Questo ha comportato una ulteriore diversificazione degli organi, lo sviluppo di strumenti sensoriali più potenti ed in ultima istanza di un cervello più grosso e complesso, capace di gestire una più ampia varietà di situazioni. È in questa fase che si sviluppa il cervello plastico, capace di adattarsi a condizioni di volta in volta differenti adeguando di conseguenza le proprie reazioni. A differenza delle architetture minimali degli invertebrati, limitate dalle dimensioni corporee, i vertebrati sono in grado di analizzare il contesto, effettuare scelte e prendere decisioni arbitrarie.

Questo sposta il focus della sopravvivenza sul ventaglio comportamentale disponibile per il singolo individuo, e sulle reti relazionali del gruppo di cui fa parte. A titolo di esempio, la reazione di paura nei confronti dei predatori, che indurrebbe il singolo individuo alla fuga, deve trovare un equilibrio con la necessità del gruppo di difendere gli elementi più deboli, i cuccioli e gli individui feriti.

Nei primati, Homo Sapiens compresi, questo processo raggiunge vertici mai sperimentati prima. Complessità del cervello, capacità sensoriali, comunicative e manipolative sono ai massimi livelli, e le abilità cognitive risultano disperse su un ventaglio notevolmente vasto. Questo si riflette da un lato in una estrema adattabilità a differenti contesti, situazioni, disponibilità di risorse, dall’altro in un parimenti vasto ventaglio di potenziali reazioni ad uno stesso identico stimolo o evento.

Semplificando molto, la personalità di ogni singolo individuo risulta dall’equilibrio tra due componenti: quella istintiva, rappresentata dalle emozioni, e quella cognitivo/razionale. L’illustrazione qui sotto rappresenta questo schema di polarizzazione.

Le emozioni rappresentano la componente istintiva dei processi cognitivi. Come già detto e come afferma il termine stesso [1], sono la pulsione che ci ‘muove’ ad agire. Le emozioni determinano la spinta, alla quale la componente razionale è destinata a dare forma e concretezza. L’emozione ‘vuole’, mentre la parte razionale si occupa di realizzare ciò che l’emozione vuole, quindi procede ad organizzare azioni, gesti, parole, comunicazione, affinché tale desiderio sia esaudito.

Tutto questo processo, per se stesso inevitabile, presta tuttavia il fianco ad ampi margini di disfunzionalità. Su questa pagina si è molto discusso di bias cognitivi, definiti come errori intrinseci nei processi di razionalizzazione, forme di auto-inganno derivanti, apparentemente, da un miglior successo evolutivo/riproduttivo ottenuto dagli individui portatori di questi ‘difetti’ rispetto a quelli che ne sono esenti.

La simmetricità del grafico sembra suggerire l’esistenza di equivalenti ‘bias emotivi’, e l’osservazione del reale consente di assegnare questa definizione a determinati specifici comportamenti. I bias emotivi possono essere descritti nei termini di errori intrinseci nei processi emotivi venuti a generarsi, in determinati individui, sulla spinta dei processi evolutivi/riproduttivi.

Nei bias emotivi rientrano le attivazioni di intense reazioni emotive a stimoli incongrui o inadeguati. Le fobie possono essere descritte come l’attivazione di una reazione di paura incontrollata a fronte di una minaccia irrilevante o del tutto assente. Analogamente si registrano reazioni di rabbia ingiustificata a fronte di stimoli lievi, o di reazioni sproporzionate ad eventi di scarsa importanza. Anche l’innamoramento sviluppato per una persona che non ci ricambia può essere descritto in termini di bias emotivo.

Azzardando paralleli con un’esperienza diffusa, possiamo descrivere le emozioni come il motore di un veicolo, e la razionalità come il suo conducente. Nella condizione ideale, il motore funziona ed il conducente è in grado di gestirlo. In condizioni critiche (o, al limite, patologiche), il motore può essere troppo potente per le capacità del conducente, ed il veicolo finire a schiantarsi da qualche parte. In alternativa un motore difettoso o guasto (una sfera emozionale malfunzionante) può impedire al conducente il raggiungimento delle mete attese, o un completo blocco ed incapacità di muoversi.

In questo parallelo, i bias cognitivi equivalgono ad un conducente distratto, o smemorato, o privo di concentrazione, che anche con un motore efficiente non sarà in grado di arrivare a destinazione. I bias emotivi equivalgono a comportamenti imprevedibili del motore, che magari andrà alla massima potenza solo nelle direzioni ‘sbagliate’, e perderà spinta nelle direzioni ‘giuste’, obbligando il conducente ad una esasperante ed infruttuosa serie di deviazioni.

Se il quadro generale appare sufficientemente lineare, la complessità dei processi coinvolti rende l’analisi di dettaglio delle situazioni individuali estremamente ardua. Usando un’altra analogia: le regole degli scacchi sono perfettamente definite, l’ambito è delimitato (una scacchiera 8×8 e 16 pezzi a disposizione di ogni giocatore) e rimane tuttavia impossibile prevedere in anticipo chi vincerà.

Allo stesso modo si possono analizzare le capacità emotive e razionali di un singolo individuo, comprenderne i bias cognitivi ed emotivi, ma solo in rarissimi casi il quadro finale potrà essere ricondotto ad una forma realmente patologica, o suggerire indicazioni terapeutiche, perché è impossibile predire il tipo di esperienza di vita che potrà prodursi a partire dalle specifiche inclinazioni del suddetto individuo. Perfino una sfera emotiva fortemente distorta può essere razionalmente ben gestita, al punto da consentire al suo portatore una vita serena e soddisfacente.

L’equilibrio tra la sfera emotiva e quella razionale si viene a strutturare nel corso della crescita. È essenziale, in questa fase, che ad ogni pulsione emotiva si acquisisca la capacità di associare un adeguato atto razionale. Gli squilibri prodotti da una cattiva gestione delle prime fasi di crescita, e le conseguenti errate associazioni tra pulsioni emotive ed azioni conseguenti, possono condurre ad uno sviluppo disfunzionale della sfera sociale ed affettiva, con esiti potenzialmente disastrosi.

Problemi di equilibrio tra emozioni e razionalità hanno modo di svilupparsi a diversi livelli ed in diversi momenti dello sviluppo personale. Possono emergere nella dimensione che la persona sperimenta con se stessa, in quella che sviluppa con un partner e, da ultimo, in quella che realizza con il proprio gruppo sociale.

Una relazione disfunzionale con se stessi può portare a conseguenze tragiche: apatia, depressione, autolesionismo, può sfociare in forme di dipendenza, di anoressia o bulimia, in disturbi legati all’assunzione di cibo. Tipicamente le esperienze traumatiche causano lo sviluppo di risposte cognitive inadeguate agli eventi emozionali, che finiscono col danneggiare sia l’esperienza di vita individuale che le aree relazionali.

Anche qualora si riesca a stabilire una relazione equilibrata con se stessi, nel momento in cui si prova a strutturare un legame relazionale ed affettivo con un altro individuo possono generarsi dinamiche distruttive. L’interazione tra due diverse individualità, ognuna con le proprie specificità, rende più complesso trovare un assestamento che sia soddisfacente per entrambe. Per questo motivo mi sento di avallare l’opinione diffusa che non sia affatto facile trovare l’anima gemella. In questo caso, più risulta precario l’equilibrio individuale, del singolo o dei singoli, più è probabile che sia messo in crisi dalle mutate esigenze di un rapporto di coppia.

In ultima istanza, gli equilibri individuali e di coppia possono essere messi a dura prova dall’interazione col contesto sociale e relazionale nel quale si è inseriti. Personalità critiche sotto il profilo dell’equilibrio emotivo/razionale finiranno col trovarsi a proprio agio, inevitabilmente, all’interno di gruppi di individui affini, col risultato di esasperare l’originale squilibrio. Questo è uno dei motivi del sostanziale fallimento della funzione riabilitativa delle istituzioni carcerarie, dove gli squilibri individuali trovano facilmente un rinforzo collettivo, ottenendo di fissarsi in strutture mentali patologiche ancor più difficili da recuperare.

Da ultimo, più potente dell’influenza prodotta dal gruppo sociale col quale ci si relaziona direttamente, pesa il condizionamento culturale collettivo operato dalla società nel suo complesso. Per le dinamiche già esaminate [2], il contributo del comparto culturale appare più orientato al consumo e allo sfruttamento, in casi limite limite alla distruzione dei singoli individui, che non al conseguimento della loro felicità. E questo purtroppo è un fattore altamente distruttivo, che si ripercuote su tutti gli altri livelli.

[1] Etimologia del termine ‘emozione’

[2] Economia, domesticazione e dipendenze

Domesticazione umana ed evoluzione dell’aggressività

Lo scenario che mi si è aperto davanti in seguito alla riflessione sui sui Disturbi da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) mi ha spinto a ragionare, attraverso la lente dei processi evolutivi, il ventaglio di variabilità dei comportamenti umani e le espressioni patologiche ad essi correlate. L’intenzione è di provare a delineare quanta parte delle attuali dinamiche psichiche discenda dall’inurbamento e dagli adattamenti mentali imposti dal processo di auto-domesticazione intrapreso dalla nostra specie.

È indubbio che l’abbandono della vita nomade, basata su caccia e raccolta, in favore di un’esistenza stanziale fondata su agricoltura, allevamento ed artigianato, abbia richiesto una importante rimodulazione nelle reazioni istintive dove, al pari dell’ADHD, risultano fortemente coinvolti i meccanismi di autocontrollo e gestione e dell’aggressività.

I nostri lontani antenati, adattati alla vita selvatica, avevano necessità di sviluppare abilità diverse dagli individui attuali. La vita all’aria aperta basata su caccia e raccolta, legata al nomadismo che portava ad esplorare luoghi sempre diversi, traeva vantaggio dalla capacità di processare numerosi stimoli contemporaneamente (caratteristica propria di alcune forme lievi di ADHD). Parimenti utile doveva essere l’attitudine a reagire istintivamente, ed in fretta, ad un pericolo imprevisto.

Un diverso equilibrio tra reazioni istintive e azioni ponderate (ovvero mediate dal pensiero analitico e dai meccanismi di autocontrollo) potrebbe di fatto aver rappresentato la normalità nelle popolazioni del passato. È quindi verosimile che alcune di quelle che oggi classifichiamo come forme (lievi) di ADHD fossero all’epoca maggiormente diffuse nella popolazione, per non dire rappresentare la normalità. Una condizione destinata a cambiare con lo sviluppo delle pratiche agricole e dell’allevamento, che ha finito col determinare la transizione dallo stile di vita nomade alla stanzialità.

L’adattamento a svolgere mestieri monotoni e ripetitivi ha facilitato l’avvento di individui con tipicità caratteriali completamente diverse da quelle richieste, ad esempio, in una battuta di caccia. Il percorso umano e culturale che ha portato i nostri antenati dal nomadismo delle piccole tribù di cacciatori/raccoglitori alle megalopoli attuali ha obbligato lo sviluppo dei processi mentali legati all’autocontrollo, sia dei pensieri che degli istinti.

In natura, l’occasionale prossimità fra individui sconosciuti della stessa specie è fonte di stress e frequente causa di reazioni aggressive. Con la crescita della popolazione e l’evoluzione dei villaggi in città, il processo di inurbamento ha imposto condizioni di stretta contiguità con una moltitudine di altri individui, richiedendo lo sviluppo di modalità di contenimento delle reazioni più immediate e brutali in favore di interazioni più controllate sotto il profilo emozionale.

La trasformazione delle società umane ha reso la coesistenza fra sconosciuti un fatto frequente, cosa che ha richiesto la compensazione dei preesistenti meccanismi di stress mediante articolazioni mentali in grado di sopprimerli. La transizione, dai rapporti di tipo familiare tipici di una piccola tribù, ad un contesto relazionale esteso, ha richiesto un potenziamento delle capacità individuali di autocontrollo.

Le moderne neuroscienze sono oggi in grado di individuare le strutture cerebrali responsabili del nostro autocontrollo, e quantificarne l’attività ed il livello di funzionalità. Possiamo immaginare come, nell’arco di millenni, queste strutture possano essersi evolute per consentirci di prosperare nel mutato scenario prodotto dall’ascesa delle città e del ruolo da esse svolto nel governo del mondo.

Tuttavia, dati i tempi molto rapidi richiesti da questi adattamenti, nell’ordine di pochi millenni, non si può attribuire tale trasformazione ad una effettiva evoluzione della specie Homo Sapiens, quanto ad un adattamento per accumulo di fattori di natura epigenetica. I tempi necessari alla propagazione di una modifica di natura genetica sono infatti lunghissimi, ma i geni sono solo una piccola parte del nostro DNA. Una parte ben più consistente è demandata a controllarne l’espressione. L’epigenetica studia le trasformazioni in queste porzioni di DNA.

Rispetto alle mutazioni genetiche, i meccanismi epigenetici consentono, ad individui e popolazioni, di rispondere con prontezza a mutamenti consistenti nell’ambiente, garantendo la sopravvivenza in situazioni in rapida trasformazione. I caratteri acquisiti possono poi, col tempo, fissarsi in una nuova specie, o regredire, nel caso in cui dovessero ripristinarsi le condizioni originarie.

Questo significa che il contesto ambientale può influenzare l’insorgere o meno di determinate caratteristiche negli individui, che queste caratteristiche possono fissarsi ed essere conservate ed è documentato come queste modifiche adattive possono essere trasmesse alla discendenza. È un po’ un rientrare dalla finestra delle idee di Lamarck, dopo che il criterio evolutivo suggerito da Darwin, basato sulla selezione naturale, le aveva buttate fuori dalla porta.

Queste considerazioni consentono di correggere un po’ il tiro rispetto alla mia prima interpretazione dell’ADHD, descritto nei termini di una occasionale sopravvivenza di caratteri infantili negli individui adulti. In un lontano passato questi caratteri di curiosità ed irruenza, attualmente tipici dell’età giovanile, venivano preservati negli individui adulti perché funzionali ad una vita nomade basata su caccia e raccolta.

Il progressivo inurbamento ha favorito un contenimento generalizzato delle reazioni più istintive e brutali, ma la rapidità richiesta ha attivato processi epigenetici, che non sono né infallibili né irreversibili. L’occasionale riemergere di tali caratteri arcaici non deve sorprendere in assoluto, e ancor meno deve stupire che ciò avvenga contesti sociali degradati, caratterizzati da modalità relazionali basate sulla sopraffazione e sull’uso diffuso della violenza.

Negli individui cresciuti in condizioni di precarietà affettiva e sociale, elevato stress emotivo, difficoltà economiche e relazionali, i meccanismi di autocontrollo faticano a svilupparsi e fissarsi, e questo è un dato che ci viene confermato dagli studi sui maltrattamenti infantili. Una volta che tali circuiti mentali disfunzionali finiscono col fissarsi nell’individuo adulto, risulta per quest’ultimo più complicato riuscire a sviluppare un soddisfacente equilibrio relazionale.

Tornando ancora una volta a quanto affermato da Daniel Goleman nel suo saggio sull’intelligenza emotiva (cito a memoria):

‘le abilità che non vengono apprese nei primi anni di vita possono essere perse per sempre, o il loro recupero risultare in seguito molto faticoso e nel complesso solo parziale’.

Un individuo penalizzato in gioventù nello sviluppo delle funzioni di autocontrollo avrà una elevata probabilità di diventare un adulto fortemente incline alle reazioni violente ed al rischio di dipendenza da sostanze psicotrope.

Questo vale sia per le forme di ADHD non diagnosticate, sia per le situazioni in cui lo sviluppo dell’individuo non avviene in un contesto culturalmente e affettivamente sano. Sempre Goleman, in Intelligenza sociale, afferma che le esperienze traumatiche sperimentate nelle prime fasi della crescita non si limitano a formare un bagaglio culturale, potenzialmente reversibile, ma alterano in permanenza le strutture cerebrali, tanto da rendere ogni successivo tentativo di recupero difficoltoso ed a rischio di insuccessi.

Quindi, non solo dovremmo rivolgere maggior attenzione agli anni dello sviluppo, per evitare che situazioni traumatiche fissino nei giovani modalità relazionali disfunzionali, potenzialmente nocive per sé e per gli altri, ma dovremmo ampliare gli sforzi per consentire ad individui già ‘danneggiati’ un inserimento sociale adeguato, tenendo conto delle limitazioni loro derivanti da meccanismi mentali, di autocontrollo e non solo, potenzialmente compromessi.

In primo luogo andrebbe estesa la consapevolezza delle problematiche legate ad attenzione ed autocontrollo, affinché i portatori possano esserne pienamente consapevoli ed indirizzare al meglio le proprie scelte di vita lavorative e relazionali. Tale consapevolezza andrebbe quindi integrata nel percorso formativo, dalle famiglie alle istituzioni scolastiche, In modo da poter intervenire tempestivamente ove necessario. Da ultimo dovrebbe obbligarci a ripensare la funzione dell’istituzione carceraria.

Perché se quest’ultima deve essere mirata, come nelle formali intenzioni, al recupero e reinserimento nella società civile degli individui che ‘hanno sbagliato’, gli sforzi da impiegare non potranno limitarsi alla detenzione, ma muovere dall’assunto che molte delle persone responsabili di atti incontrollati e violenti risultano già in partenza ‘danneggiate’, ed hanno necessità di terapie sociali, culturali ed emotive, mirate e profonde.

Uno degli assunti fondamentali delle società umane è l’idea che la collettività possa funzionare grazie ad un unico set di regole, valide per tutti, ma ciò ha senso solo se assumiamo che i diversi individui condividano una uniformità caratteriale e relazionale. Le neuroscienze ci raccontano di differenze che possono insorgere a livello fisiologico, tali da obbligarci a rimettere in discussione questo assunto.

Più è ampio il ventaglio di diversità tra gli individui, più il sistema di regole condivise deve prevedere bilanciamenti e contrappesi perché l’equilibrio ottenuto sia funzionale. L’evidenza che, nel momento attuale, un intero ventaglio di diversità caratteriali legate alla gestione dell’autocontrollo non appaia pienamente riconosciuto, suggerisce l’evidenza di un limite strutturale all’efficacia del sistema di regole che ci governa.

Foto di Małgorzata Tomczak da Pixabay

Una vacanza bici+mare

Quest’estate, tra covid ed altre beghe, io e mia moglie abbiamo optato per una vacanza in relativo relax, riuscendo a conciliare la sua passione per il mare con la mia per la bicicletta. Non potendo spostarci all’estero, dove questa forma di turismo è ben più sviluppata, e soprattutto non volendo imbarcarci in un viaggio itinerante in un paese, il nostro, che non ha attenzione per la sicurezza dei viaggiatori su due ruote, abbiamo cercato una destinazione ‘bike-friendly’. La scelta è infine caduta sulla Via Verde della Costa dei Trabocchi. Non essendo la ciclovia ancora completata, ragionando sui segmenti già operativi abbiamo stabilito di cercare alloggio in un punto intermedio del tratto fruibile più a nord, quello tra Ortona e Fossacesia, in modo da sfruttare il tracciato ciclabile per spostarci ogni giorno in una spiaggia diversa. La scelta è caduta su Marina di San Vito Chietino, dove abbiamo affittato un appartamento con affaccio sul mare a breve distanza dalla ciclovia.

La ciclovia
Il percorso si snoda sul sedime dismesso della ferrovia Ortona-Vasto, il cui tracciato, a causa della continua erosione operata dal mare, è stato spostato più nell’entroterra. Dopo la rimozione dei binari si è scelto di destinare il sedime dismesso a pista ciclabile, realizzando un tappeto di asfalto e ristrutturando le gallerie. Sebbene il lavoro sia ancora incompleto e la ciclovia non interamente percorribile, allo stato attuale il tracciato risulta ugualmente molto fruibile, consentendo uno sfruttamento ottimale di un lungo tratto di costa prima reso difficilmente raggiungibile proprio dalla presenza della linea ferroviaria. Dal punto di vista ciclistico, pedalare in sicurezza a pochi metri dal mare, con gli affacci sulle spiaggette e sui trabocchi che si susseguono senza soluzione di continuità, rappresenta un’immersione nella bellezza difficilmente descrivibile. L’estrema regolarità del percorso, unita all’assenza di dislivelli tipica dei tracciati ferroviari, consente di chiacchierare amabilmente mentre si percorre la pista alla ricerca della spiaggia ideale. Unica nota dolente l’assenza di illuminazione delle gallerie, prevedibile considerando il fatto che non fossero ancora aperte al pubblico transito.

Situazioni problematiche
A questo riguardo va detto che nei primi giorni della nostra vacanza abbiamo trovato diverse gallerie sbarrate da recinzioni… ostacoli che sono stati poi rimossi, apparentemente, ‘a furor di popolo’. Fatto prevedibile, dato che la domanda di mobilità ciclistica e pedonale, sulla tratta, si è dimostrata estremamente consistente. Gallerie che, nei primi giorni, risultavano sbarrate o di difficile accesso, a fine settimana venivano serenamente percorse da decine di bagnanti che non hanno ritenuto di dover attendere il collaudo di agibilità. Il tratto più affollato, e di gente a piedi più che di biciclette, è risultato proprio quello in prossimità del paese dove alloggiavamo. Mentre a Fossacesia la pista passa più lontano dal mare, ed il transito dei villeggianti si svolge sulle strade a ridosso della spiaggia, a Marina di San Vito i bagnanti provenienti dal borgo affollano il tracciato percorrendo a piedi la ciclovia anche per lunghi tratti. In prossimità di Ortona il rifacimento del fondo asfaltato non era ancora stato completato. Oltre a questo, la galleria detta dell’Acquabella, molto più lunga delle altre e con una curva a metà che impedisce di sfruttare la luce in entrata dal lato opposto, ha richiesto l’impiego di lampade per il transito (cosa che non ha ostacolato più di tanto il significativo viavai di ciclisti e pedoni in ogni occasione in cui l’abbiamo percorsa). Ad Ortona il sedime si riduce ad una pietraia e termina sotto uno svincolo stradale. Ho scoperto solo in seguito che il tracciato, ben sistemato, prosegue ancora oltre, ma le due tratte non sono al momento collegate. Dal lato opposto, oltre Fossacesia la ciclovia prosegue asfaltata ma in mezzo al verde, lontano dalla riva, fino a Torino di Sangro, poi per alcune centinaia di metri il sedime è di nuovo una pietraia sconnessa, fino al punto in cui è totalmente assente, franato a causa dell’aggressione dei marosi. Più oltre la ciclovia prosegue ancora fino a Vasto, ma la distanza da San Vito e l’impossibilità di riallacciarsi al tracciato senza percorrere tratti di strada fortemente trafficati ci hanno dissuaso dall’esplorazione.

Il mare
La costa abruzzese, almeno nel tratto da noi esplorato, è risultata estremamente bella e pulita, oltreché ricca di pesci a farci compagnia nelle sessioni di snorkeling. Le spiagge sono quasi tutte a ciottoli, problema aggirabile con le apposite calzature ‘da scoglio’. Le uniche spiagge sabbiose le abbiamo trovate ad Ortona e Fossacesia. In alcuni punti, sugli scogli e nel fondale, abbiamo riscontrato la presenza di anemoni, che abbiamo avuto cura di evitare di toccare. In una singola nuotata ci ha fatto compagnia una medusa solitaria, che è stata molto bella da vedere… a debita distanza.

Dotazione logistica
Sulle biciclette avevamo una coppia di borse da viaggio per trasportare il necessario: asciugamani, pranzo al sacco, maschere da sub ed una tendina aperta che ha degnamente sostituito il tradizionale ombrellone (potendo oltretutto richiudersi in un sacchetto di dimensioni poco superiori a quelle di un avambraccio), oltre alle suddette calzature da scoglio e ad una piccola telecamera con custodia impermeabile per le riprese subacquee.

Conclusioni
Sicuramente una proposta di vacanza adatta alle esigenze di coppie e famiglie cui piaccia muoversi in bicicletta, senza doversi sobbarcare l’impegno di un vero cicloviaggio. La presenza di una abbondante offerta ristorativa in loco, di ottima qualità ed a prezzi contenuti, ci ha consentito di fare (quasi) del tutto a meno dell’automobile, la cui unica funzione è stata di portarci a destinazione e riportarci a casa, restando poi parcheggiata ed inutilizzata per l’intera settimana.

Di cosa parla ‘La Principessa Scimmia’

Sto ragionando, in questi giorni, su quanto sia difficile raccontare di un libro di narrativa senza svelarne i dettagli della trama. Quando poi la trama è caratterizzata da un susseguirsi di situazioni del tutto inattese, risulta quasi impossibile spiegare i motivi di interesse senza finire con l’accennare a vicende che è importante non conoscere a priori. Il libro in questione è ‘La Principessa Scimmia’, da poco disponibile su Amazon.

Di cosa parla il mio racconto? Di molte cose. La protagonista è inizialmente una scimmia, che attraverso il coraggio e la determinazione riesce a riacquistare la propria umanità, solo per trovarsi ad affrontare il mistero della propria esistenza, della quale non ricorda nulla. La giovane donna inizia quindi un lungo viaggio alla scoperta di se stessa e del mondo, ed attraverso una serie di prove dimostrerà le proprie capacità, e saprà farsi accettare per i propri pregi ed abilità. C’è quindi una componente che attiene ai racconti di viaggio, un’altra alle avventure fiabesche, un’altra ancora è rappresentata dalla ricerca e scoperta della propria identità, che nella storia si viene costruendo un pezzo alla volta.

Il racconto è diviso in tre parti nettamente definite, ognuna delle quali rappresenta il riappropriarsi di una porzione necessaria ed importante dell’identità della protagonista. Nella terza parte si lascia spazio a personaggi apparentemente secondari, che si mettono in moto per soccorrere la protagonista e devono perciò attraversare, ognuno nella sua specificità, un percorso di confronto e cambiamento, una messa in discussione delle proprie identità, dal quale escono tutti trasformati e più maturi.

L’universo fantastico che fa da cornice al racconto ha le proprie regole. Gli animali parlano tra loro, e si comprendono tutti, anche fra specie diverse, solo gli umani non parlano più la lingua degli animali, e non la comprendono più da millenni. La civiltà è di tipo pre-industriale. Esistono i maghi, ma sono pochi, e passano più tempo a studiare la magia che non ad esercitarla. I personaggi stessi, per quanto di fantasia ed, in qualche misura, improbabili (i moltissimi animali parlanti su tutti), vivono con estrema coerenza ed umanità la propria condizione, e si finisce con l’accettarli come persone reali.

La magia viene usata come escamotage narrativo, ma in chiave fortemente metaforica. Le trasformazioni che i protagonisti subiscono sono trasfigurazioni di situazioni reali, nelle quale ognuno di noi può trovarsi, o essersi trovato in passato. Umanità ed animalità diventano due facce della stessa medaglia, complementari e non auto-escludenti, trasposizioni di modi diversi di pensare e relazionarsi all’esistenza.

Il Bene ed il Male non sono entità astratte in contrapposizione, emergono semplicemente da diversi approcci alla vita. I ‘buoni’ sono personaggi semplici, attenti a quello che hanno intorno, empatici e rispettosi degli altri. I ‘cattivi’ sono individui vuoti, che non riescono a costruirsi motivi d’interesse all’esistenza non dipendenti dall’opinione altrui, che sono quindi obbligati ad assoggettare.

La scrittura si sforza di essere sempre presente alle vicende narrate. La prosa asciutta ed essenziale mira a fornire le informazioni necessarie e sufficienti a dare corpo e tridimensionalità ai personaggi ed alle situazioni descritte, senza appesantire inutilmente lo svolgersi degli eventi con dettagli sovrabbondanti e superflui, piuttosto lasciando all’immaginazione del lettore la costruzione degli scenari all’interno dei quali i personaggi agiscono.

Rispetto a ciò che accade è meglio non sapere nulla in anticipo. Essendo un viaggio di scoperta, di pagina in pagina ogni nuova rivelazione apre scenari prima inaspettati. Svelare troppo di quello che accadrà significherebbe togliere magia e mistero ad una storia che merita di essere assaporata un passaggio alla volta.

A questo punto non mi resta che augurarvi buona lettura.

PS quadrato