Tre libri di bici

Recentemente mi sono letto un po’ di “libri di bici” che nell’arco di alcuni mesi si erano accumulati nello scaffale delle cose da leggere. I primi due sono una diretta filiazione del mio impegno nella campagna #salvaiciclisti e delle nuove amicizie nate nell’ultimo periodo, il terzo invece è un discorso completamente a sé stante.

Cominciamo da “no bici” di Alberto Fiorillo, il cui titolo echeggia l’ormai abusato “No Logo” di Naomi Klein. Il volume è un saggio leggero e condito di grande ironia sul colorito mondo del ciclismo urbano e su tutto quello che gli fa da contorno. L’aspirazione proclamata dall’autore è di arrivare ad un utilizzo talmente diffuso della bicicletta da cancellarne i connotati ribelli, modaioli ed individualistici che ha assunto negli ultimi anni (il libro apre con uno spiazzante “elogio dell’ascensore” per tessere le lodi di un mezzo di trasporto umile ed efficace, e tuttavia ignorato da qualsivoglia corrente culturale). Tra ritratti affettuosi ed esilaranti delle varie tipologie di appassionati della bicicletta e dei loro contraltari automobilisti, passando per un’analisi obiettiva e disperante dello stato di totale anarchia che regna sulle strade italiane (arricchita da un excursus storico sulla protostoria dell’organizzazione stradale nel nostro paese) il libro risulta di agile e piacevole lettura anche per chi, come me, sulla bicicletta, nel corso degli anni (tra libri e scritti on-line) ha letto forse fin troppo.

“Salva i ciclisti”, di Pietro Pani (pseudonimo di Paolo Pinzuti, primo ideatore della campagna), è un istant-book pubblicato da Chiarelettere e rappresenta secondo me una sorta di ideale complemento al precedente, giustapponendo all’idea che “la bicicletta non è moda” quella che “la bicicletta è politica”. Nella prima parte il libro racconta, con l’asciuttezza e la precisione di chi ha vissuto gli eventi dall’interno, i primi mesi di vita della campagna #salvaiciclisti” e come abbia potuto diventare, quasi dal nulla, un soggetto di riferimento per amministratori di ogni livello sul necessario cambiamento di rotta da dare all’organizzazione della mobilità stradale nel nostro paese. Segue un breve sunto della storia della bicicletta nell’ultimo secolo e mezzo: dalla sua diffusione come mezzo di trasporto di massa alla sua emarginazione dalle strade del mondo occidentale causata dalla pericolosità (criminalmente tollerata) dei mezzi di trasporto a motore, fino ai primi segnali di rinascita e riappropriazione di diritti troppo a lungo negati. Completano il libro scritti di autori di diverse epoche, da De Amicis a Camilleri passando per Buzzati e Malaparte che, se anche poco hanno a che vedere coi contenuti principali, non fanno rimpiangere il tempo speso a leggerli, regalando immagini letterarie di rara bellezza.

Il terzo libro è completamente diverso dagli altri, non si parla di ciclisti e biciclette ma di quello che l’autore (David Byrne, se il nome vi dice qualcosa) osserva spostandosi in bicicletta all’interno di diverse città, cercando di leggere nell’architettura, nell’urbanistica e nell’organizzazione sociale sottese una traccia dello spirito e delle idee delle comunità e delle culture che vi abitano. Questo volume lo sto ancora leggendo ma vi anticipo che ci tornerò su più avanti, anche perché su Byrne ho diversi altri ragionamenti da sviluppare.

Protociclisti

La definizione “protociclisti” mi è venuta in mente mentre rispondevo ad un commento in coda ad un recente post, in cui si chiedeva ai ciclisti un maggior rispetto delle norme minime di sicurezza. Il fatto è che l’autore del commento ha accomunato (secondo me impropriamente) due tipologie di utenti della bicicletta: i veterani scafati e i neofiti improvvisati. Se i “veterani scafati” possono essere consapevoli del proprio essere ciclisti ed eventualmente rispondere su tecniche di guida poco ortodosse, i “neofiti improvvisati” (che da qui in poi etichetterò col termine “protociclisti”) non hanno cognizione del proprio essere ciclisti, né si considerano tali.

Protociclista è chi, un bel dì, decide di cominciare ad usare una bicicletta, ci sale sopra e comincia ad andare… di norma senza possedere quel bagaglio di nozioni che qualunque ciclista esperto riterrebbe essenziali. I motivi di questa “ignoranza” sono sostanzialmente due: da un lato la scarsa diffusione dell’uso della bicicletta, che fa sì che in pochi abbiano almeno un amico in grado di aiutarli ed indirizzarli nel muovere le prime pedalate, dall’altro l’atavica abitudine, tutta italiana, di partire allo sbaraglio affrontando i problemi man mano che questi si presentano.

Un tale mix di ignoranza ed inconsapevolezza ha in genere esiti disastrosi. Queste persone si avventurano su biciclette spesso al di sotto degli standard minimi di decenza, con ruote sgonfie, freni malfunzionanti, sellini in posizioni scomodissime o quantomeno inefficienti sul piano ergonomico, rapporti sbagliati… e scelgono inevitabilmente le uniche strade che conoscono bene: quelle che percorrono solitamente in automobile, risultando di fatto le più trafficate in assoluto.

Il tasso di “estinzione” (non tanto fisica, quanto culturale) dei protociclisti è perciò elevatissimo. Privi di qualsivoglia formazione culturale e di veicoli adatti alla bisogna essi giungono ben presto ad una tipica conclusione: “la bicicletta non fa per me”. L’improvvido veicolo torna quindi nello scantinato dal quale è inopinatamente sortito, o viene abbandonato alle intemperie al primo problema meccanico non ignorabile o immediatamente risolvibile.

Solo i più motivati, o disperati, fra loro perseverano fino al punto di trovare un “trainer” capace di metter mano all’infinita catena di complicazioni che li hanno afflitti fin lì e cominciare a far loro vedere uno spiraglio di luce. Le selle vengono alzate, le inclinazioni regolate, i freni cominciano a frenare, il cambio a cambiare le marce, le ruote gonfiate cominciano a scorrere, ed il sorriso torna sul volto del protociclista salvato, pronto a diventare un vero ciclista. Completata l’ottimizzazione del veicolo inizia la formazione culturale riguardo ai percorsi meno trafficati, le scorciatoie nei parchi, i marciapiedi “salvavita” e tutti quei trucchi e piccole astuzie che soli possono salvare la vita ed il buonumore di noi ciclisti urbani.

Detto ciò, la prossima volta che incontrerete un/a ciclista evidentemente impacciato/a, che compie manovre improprie e spesso pericolose per sé e per gli altri, pensatelo come una crisalide che, più in là, potrebbe schiudersi e dare alla luce un viaggiatore forte e leggero, su un luccicante veicolo a propulsione muscolare… ma molto più probabilmente state osservando una creatura che perderà le sue ali, schiacciata dalla propria inesperienza e da un’ignoranza collettiva di proporzioni devastanti. E non domandatevi più perché in Italia ci siano così pochi ciclisti.