Stamattina, del tutto inaspettatamente, mi si è “accesa la lampadina” su un problema su cui arrancavo da tempo e riguardante la visione evoluzionistico/darwiniana dell’Universo che sto faticosamente mettendo insieme. Darwin ci insegna che gli organismi competono per la sopravvivenza, organismi più semplici diventano via via più complessi a causa di mutazioni che li rendono avvantaggiati nella lotta per la sopravvivenza.
Tuttavia, riavvolgendo il film all’indietro fino a che punto si può andare? Prima degli organismi multicellulari c’erano quelli unicellulari, prima degli organismi unicellulari semplicemente macromolecole complesse. La questione, per come me la ero posta fin qui, si riduce ad una domanda: come fa una molecola a sapere che deve competere per la sopravvivenza e per riprodursi?
La molecola non è ancora “vita” in senso stretto, è qualcosa a metà tra il mondo organico e quello inorganico, tra il vivente ed il non vivente, è un mattone potenziale di qualcosa che potrà svilupparsi e diventare, ma ancora non è. Come fa a sapere verso quale fine tendere? Come fa, tecnicamente, ad innescare il processo evolutivo?
Si tratta, ovviamente, solo di un madornale errore prospettico, determinato da una visione strettamente antropocentrica dell’idea di “competizione”, e dall’accezione di intenzionalità che gli si attribuisce. Dato un contenitore sufficientemente vasto (il “brodo primordiale”) ed un numero enorme di molecole in grado di riprodursi, quelle che si duplicheranno con maggior efficienza tenderanno spontaneamente a diffondersi, a scapito di quelle meno efficienti.
Il processo è perciò non solamente del tutto inconscio, ma connaturato al contesto in cui si svolge, quindi inevitabile. La “competizione” darwiniana non ha nulla a che vedere con la declinazione antropica (o animale) del termine, è semplicemente una descrizione che diamo al risultato finale: la sopravvivenza o non sopravvivenza di alcuni individui.
Se ciò può sembrare un distinguo da poco, sul piano concettuale risulta per me poco meno di una rivoluzione copernicana: quello che prima consideravo al centro dell’Universo (la Terra, o nel caso in questione il meccanismo che definiamo “competizione”), improvvisamente non lo è più. La “competizione” per le risorse cessa semplicemente di esistere: le forme viventi “devono” cercare di sopravvivere e riprodursi, ma evidentemente non tutte possono farlo, quindi noi, osservando a posteriori questa serie di eventi, la etichettiamo con la definizione di “selezione naturale”.
Dobbiamo sopravvivere non perché non abbiamo scelta, ma in quanto discendenti di creature che anch’esse “dovevano” sopravvivere. Creature prive di quest’imperativo biologico si sono semplicemente e serenamente estinte lasciando campo libero a noi.
E tuttavia la perdita del concetto di competizione, la sua inclusione in un quadro degli eventi più ampio che la rende un processo non opzionale, mi priva di uno dei termini di un dualismo sul quale a lungo ha poggiato la mia visione del mondo, quello tra competizione e cooperazione. A questo punto che fine fa la cooperazione?
Altra lampadina che si accende (stamattina ero in stato di grazia): la cooperazione altro non è che una evoluzione del comportamento competitivo, che però si applica al gruppo anziché al singolo individuo. La competizione migliora direttamente le possibilità di sopravvivenza del singolo individuo, mentre la cooperazione ottiene lo stesso risultato, però agendo sulle dinamiche di gruppo, rendendo più competitivo il gruppo stesso.
A questo punto mi è sovvenuto un passaggio del film “A beautiful mind”, quello in cui Russel Crowe/John Nash illustra il comportamento ottimale da seguire in una situazione in cui la semplice competizione non funziona adeguatamente.
Cit.: “Adam Smith ha detto che il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo fa quello che è meglio per sé. Incompleto. Il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo farà ciò che è meglio per sé e per il gruppo. Adam Smith si sbagliava.”
Spazzate via le distinzioni tra competizione e cooperazione, cosa resta del dualismo tra le visioni politiche di Destra e Sinistra che ad esse si ispirano? Semplicemente una dimensione di scala, una differente percezione del contesto di applicazione di principi sostanzialmente simili.
La Destra si riconosce in un contesto molto ridotto, applica princìpi di solidarietà a gruppi umani ristretti in competizione con gruppi umani più estesi (cit. “molti nemici, molto onore”). La Sinistra, dal canto suo, propugna la fratellanza dell’intero genere umano, l’internazionalismo, applicando quegli stessi princìpi senza distinguo etnici, linguistici o di genere (cit. “nostra patria è il mondo intero”).
Ma resta ancora un salto da fare, ormai necessario, quello di inglobare all’interno del nostro “gruppo d’interesse”, rispetto al quale attivare forme di solidarietà, l’intera biosfera e le altre forme di vita. La diffusione della specie umana ha progressivamente spazzato via ogni possibile antagonista biologico senza che l’evoluzione ci abbia posto in essere inibizioni in tal senso.
Portata su una scala globale, la cooperazione/competizione ci ha proiettati in conflitto, per spazi e risorse, con ogni altra forma di vita. La necessità di “solidarizzare” con sette miliardi di altri esseri umani, instancabili divoratori di spazio e risorse, ha posto in secondo piano le esigenze e la necessità di sopravvivenza delle altre specie viventi, producendo la distruzione degli habitat naturali, l’estinzione massiva di specie viventi e la desertificazione su larga scala.
Se non saremo in grado di identificare come nostri gli interessi dell’intera biosfera terrestre commetteremo un errore drammatico, condannando i nostri discendenti a vivere in un mondo saccheggiato, impoverito e danneggiato. Cosa che non augureremmo certo a noi stessi.