Darwin, la selezione e la solidarietà

Stamattina, del tutto inaspettatamente, mi si è “accesa la lampadina” su un problema su cui arrancavo da tempo e riguardante la visione evoluzionistico/darwiniana dell’Universo che sto faticosamente mettendo insieme. Darwin ci insegna che gli organismi competono per la sopravvivenza, organismi più semplici diventano via via più complessi a causa di mutazioni che li rendono avvantaggiati nella lotta per la sopravvivenza.

Tuttavia, riavvolgendo il film all’indietro fino a che punto si può andare? Prima degli organismi multicellulari c’erano quelli unicellulari, prima degli organismi unicellulari semplicemente macromolecole complesse. La questione, per come me la ero posta fin qui, si riduce ad una domanda: come fa una molecola a sapere che deve competere per la sopravvivenza e per riprodursi?

La molecola non è ancora “vita” in senso stretto, è qualcosa a metà tra il mondo organico e quello inorganico, tra il vivente ed il non vivente, è un mattone potenziale di qualcosa che potrà svilupparsi e diventare, ma ancora non è. Come fa a sapere verso quale fine tendere? Come fa, tecnicamente, ad innescare il processo evolutivo?

Si tratta, ovviamente, solo di un madornale errore prospettico, determinato da una visione strettamente antropocentrica dell’idea di “competizione”, e dall’accezione di intenzionalità che gli si attribuisce. Dato un contenitore sufficientemente vasto (il “brodo primordiale”) ed un numero enorme di molecole in grado di riprodursi, quelle che si duplicheranno con maggior efficienza tenderanno spontaneamente a diffondersi, a scapito di quelle meno efficienti.

Il processo è perciò non solamente del tutto inconscio, ma connaturato al contesto in cui si svolge, quindi inevitabile. La “competizione” darwiniana non ha nulla a che vedere con la declinazione antropica (o animale) del termine, è semplicemente una descrizione che diamo al risultato finale: la sopravvivenza o non sopravvivenza di alcuni individui.

Se ciò può sembrare un distinguo da poco, sul piano concettuale risulta per me poco meno di una rivoluzione copernicana: quello che prima consideravo al centro dell’Universo (la Terra, o nel caso in questione il meccanismo che definiamo “competizione”), improvvisamente non lo è più. La “competizione” per le risorse cessa semplicemente di esistere: le forme viventi “devono” cercare di sopravvivere e riprodursi, ma evidentemente non tutte possono farlo, quindi noi, osservando a posteriori questa serie di eventi, la etichettiamo con la definizione di “selezione naturale”.

Dobbiamo sopravvivere non perché non abbiamo scelta, ma in quanto discendenti di creature che anch’esse “dovevano” sopravvivere. Creature prive di quest’imperativo biologico si sono semplicemente e serenamente estinte lasciando campo libero a noi.

E tuttavia la perdita del concetto di competizione, la sua inclusione in un quadro degli eventi più ampio che la rende un processo non opzionale, mi priva di uno dei termini di un dualismo sul quale a lungo ha poggiato la mia visione del mondo, quello tra competizione e cooperazione. A questo punto che fine fa la cooperazione?

Altra lampadina che si accende (stamattina ero in stato di grazia): la cooperazione altro non è che una evoluzione del comportamento competitivo, che però si applica al gruppo anziché al singolo individuo. La competizione migliora direttamente le possibilità di sopravvivenza del singolo individuo, mentre la cooperazione ottiene lo stesso risultato, però agendo sulle dinamiche di gruppo, rendendo più competitivo il gruppo stesso.

A questo punto mi è sovvenuto un passaggio del film “A beautiful mind”, quello in cui Russel Crowe/John Nash illustra il comportamento ottimale da seguire in una situazione in cui la semplice competizione non funziona adeguatamente.

Cit.: “Adam Smith ha detto che il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo fa quello che è meglio per sé. Incompleto. Il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo farà ciò che è meglio per sé e per il gruppo. Adam Smith si sbagliava.”

Spazzate via le distinzioni tra competizione e cooperazione, cosa resta del dualismo tra le visioni politiche di Destra e Sinistra che ad esse si ispirano? Semplicemente una dimensione di scala, una differente percezione del contesto di applicazione di principi sostanzialmente simili.

La Destra si riconosce in un contesto molto ridotto, applica princìpi di solidarietà a gruppi umani ristretti in competizione con gruppi umani più estesi (cit. “molti nemici, molto onore”). La Sinistra, dal canto suo, propugna la fratellanza dell’intero genere umano, l’internazionalismo, applicando quegli stessi princìpi senza distinguo etnici, linguistici o di genere (cit. “nostra patria è il mondo intero”).

Ma resta ancora un salto da fare, ormai necessario, quello di inglobare all’interno del nostro “gruppo d’interesse”, rispetto al quale attivare forme di solidarietà, l’intera biosfera e le altre forme di vita. La diffusione della specie umana ha progressivamente spazzato via ogni possibile antagonista biologico senza che l’evoluzione ci abbia posto in essere inibizioni in tal senso.

Portata su una scala globale, la cooperazione/competizione ci ha proiettati in conflitto, per spazi e risorse, con ogni altra forma di vita. La necessità di “solidarizzare” con sette miliardi di altri esseri umani, instancabili divoratori di spazio e risorse, ha posto in secondo piano le esigenze e la necessità di sopravvivenza delle altre specie viventi, producendo la distruzione degli habitat naturali, l’estinzione massiva di specie viventi e la desertificazione su larga scala.

Se non saremo in grado di identificare come nostri gli interessi dell’intera biosfera terrestre commetteremo un errore drammatico, condannando i nostri discendenti a vivere in un mondo saccheggiato, impoverito e danneggiato. Cosa che non augureremmo certo a noi stessi.

Il paradosso Maori

Giusto ieri la pubblicazione di un articolo sul blog “Effetto Cassandra” risollevava l’attenzione sul “paradosso di Jevons”. Nella sua formulazione originaria si può riassumere nel fatto che migliorare l’efficienza di una risorsa, anziché produrne un risparmio, ne causa un aumento dei consumi.

“Jevons osservava che il consumo inglese di carbone era cresciuto dopo che James Watt aveva introdotto il motore a vapore, alimentato a carbone, che aveva un’efficienza maggiore dell’efficienza del motore di Thomas Newcomen. Con le innovazioni di Watt il carbone diventò una fonte di energia più redditizia e si pervenne ad un suo maggiore consumo. Quindi il consumo di carbone aumentò, pur essendo diminuita la quantità di carbone richiesta per produrre il medesimo lavoro”. (cit. Wikipedia)

L’apparente paradosso scaturisce dalla considerazione che un aumento dell’efficienza nell’utilizzo si traduce in una maggior economicità della risorsa stessa, ovvero nella possibilità di ottenere lo stesso lavoro a costi inferiori, che in un regime di domanda elastica fa sì che tale lavoro possa essere applicato ad impieghi prima diseconomici.

Tornando ad un tema a lungo sviscerato su questo blog, l’abbattimento dei costi di estrazione e raffinazione del petrolio ha fatto sì che possedere e condurre un’automobile diventasse pratica diffusa, cosa che non sarebbe avvenuta se i prezzi fossero stati insostenibili per la classe media (e tornerà nuovamente a non esserlo nel declino post picco, ci piaccia o meno).

Nel post citato all’inizio, Javier Perez estende il concetto includendo il risparmio tra le cause di “abbattimento dei costi”, arrivando alla conclusione che, nel mercato globale, una riduzione locale nella domanda di una risorsa ha il solo effetto di renderla disponibile per acquirenti diversi, oltretutto ad un prezzo inferiore.

In una condizione di progressivo esaurimento delle risorse questo parrebbe porre un limite alla possibilità di dilazionarne la durata nel tempo semplicemente riducendone i consumi, almeno finché non intervenga un fattore “calmierante”, come potrebbe essere lo spontaneo aumento dei costi dell’energia, tale da compensare la riduzione di costo prodotta dal risparmio.

Il trasferimento delle merci non avviene infatti “a costo zero”, ed una risorsa locale, nonostante la riduzione del prezzo, può ugualmente non diventare appetibile per un mercato dall’altra parte del pianeta semplicemente a causa dei costi di trasporto, o della deperibilità intrinseca del prodotto (se pensiamo ai cibi).

Ma c’è un mio personale corollario al “paradosso di Jevons”, quello che ho definito “paradosso Maori”, la cui formulazione di base può essere: “qualunque pratica messa in campo per stabilizzare l’economia e migliorare il benessere diffuso di una popolazione (ivi inclusa una riduzione pianificata dei consumi, o il controllo demografico) otterrà il solo risultato di rendere la società che la metta in pratica appetibile per il desiderio di conquista da parte di altre realtà meno benestanti”.

Qui va chiarito il concetto di “benestanti”, che ha un’accezione molto estesa. La più evidente riguarda il processo di immigrazione da parte di paesi a basso reddito e sovrappopolati, che sul lunghissimo periodo potrebbe produrre in Europa una sorta di “effetto India”: condizioni che per noi sono insopportabili possono essere accettabilissime per altri.

Per altri versi un processo analogo si verifica con l’acquisto di porzioni pregiate di territorio da parte di popolazioni che vivono in condizioni climatiche meno favorevoli, come le tenute agricole in Toscana acquistate in massa da inglesi, tedeschi e americani. O il tentativo di mettere le mani sulle nostre risorse idriche (acqua potabile, altra risorsa sovrasfruttata) da parte di multinazionali a proprietà straniera.

Il motivo per cui l’ho battezzato “paradosso Maori” riguarda un racconto sentito anni fa e riguardante le popolazioni del Pacifico. I Maori sono da sempre un popolo guerriero, al punto da elevare guerra ed aggressività a stile di vita. I ragazzi vengono addestrati fin da giovanissimi a combattere ferocemente fra loro in vista degli scontri sanguinosi con le tribù vicine. Una cultura basata sull’accettazione della violenza, del sacrificio e della sofferenza.

Nel racconto un gruppo di Maori, navigando sull’oceano, viene accolto da una popolazione culturalmente all’opposto: pacifica, nonviolenta, non aggressiva. Una civiltà basata sul rispetto reciproco, sulla solidarietà, sulla felicità diffusa e sulla soddisfazione di tutti. Un’utopia realizzata in terra.

Ebbene cosa fanno i guerrieri Maori? Invece di trarre lezione da ciò, appena tornati a casa organizzano una spedizione, attaccano l’isola felice, sterminano e riducono in schiavitù la popolazione e vi esportano il loro stile di vita basato sulla sopraffazione.

(update: la vicenda ha trovato conferma grazie all’impagabile Wikipedia, che tuttavia ne fornisce una lettura meno idealistica…)

La lezione che si trae da questa storia è dolorosa ma necessaria: non si può pensare di costruire un’utopia localizzata ignorando quanto accade intorno a noi. L’utopia deve essere globale e diffusa, ed anche così il rischio di produrre una cultura debole e facilmente aggredibile (dall’interno, non solo dall’esterno) resta elevato. Pensare di ridurre il proprio orizzonte a scelte individuali o ristrette a piccole comunità è semplicistico e, alla prova dei fatti, inefficace.

Non solo (Jevons) rinunciare a qualcosa non basta a preservarla, ma (Maori) puntare tutto sull’etica cooperativa e conservativa ci rende disarmati rispetto a realtà che applicano criteri diametralmente opposti. Cercare un impossibile equilibrio tra le due necessità è di fatto la condanna di noi creature senzienti.

“Un uomo è un angelo che ha perso l’equilibrio mentale (…) Un tempo tutti, tutti quanti erano angeli autentici. Un tempo avevano di fronte una scelta tra il bene e il male, per questo era facile… era facile essere un angelo. Poi accadde qualcosa. Qualcosa non seguì la linea prestabilita o si spezzò, o venne a mancare. E dovettero fronteggiare la necessità di scegliere non il bene o il male bensì il minore di due mali. Quel fatto li sconvolse e ora sono tutti uomini.”
(cit. Philip K. Dick da “Galactic pot healer”)

Dialogando con gli sconosciuti

Torniamo a parlare di internet, social network ed in particolare della cosiddetta comunicazione “asincrona” i cui tempi si fanno sempre più serrati grazie alla diffusione di strumenti per la connessione “in mobilità”, tablet e smartphone in testa.

Alle prime, farraginose esperienze di un decennio fa, basate prevalentemente su mailing-list di posta elettronica (i newsgroup erano roba da smanettoni), si sono progressivamente venute a sostituire forme di utilizzo della rete più “orizzontali”, smart ed aperte, non senza qualche complicazione.

Se da un lato l’abbattimento del “digital divide” ha aperto spazi in rete per tutti, dall’altro utenti “nuovi” ed impreparati si sono ritrovati ad interagire quasi alla pari con altri più esperti ed addentro alle tematiche trattate, senza tuttavia disporre della preparazione necessaria ad orientarsi nel nuovo contesto. Il risultato finale è frustrante per entrambi poiché confligge col principio di “pari dignità”.

In assenza di una chiara definizione di ruoli e competenze si finisce (soprattutto nei gruppi più numerosi ed orizzontali come quelli su Facebook) col trattare qualsiasi interlocutore come proprio pari. Come se al bar ci mettessimo a chiacchierare, col primo sconosciuto che incontriamo, di un argomento a caso, allo stesso modo in cui dialogheremmo con un amico o un conoscente.

Per contro, però, molti di questi spazi di discussione vengono attivati anche per sviluppare ragionamenti “avanzati”, che non di rado finiscono col pervenire a soluzioni del tutto controintuitive. Sistematicamente, persone provenienti da fuori che approccino questi gruppi di discussione si ritrovano spiazzati, iniziano a mettere in discussione quanto già acquisito e richiedono un ulteriore sforzo da parte dei partecipanti alla discussione per essere edotti rispetto a materie già sviscerate a fondo.

A titolo di esempio, il caso più classico, nei gruppi di discussione sulla sicurezza dei ciclisti, riguarda il caschetto protettivo. Essendo un presidio di sicurezza l’opinione corrente è che più gente lo indossa più sicuri si sarà, e molti si spingono a chiederne l’imposizione obbligatoria.

Tuttavia le esperienze di paesi che hanno fatto questo passo dimostrano l’esatto contrario: in Australia l’obbligo di utilizzo del casco ha causato un calo nell’uso diffuso della bicicletta, soprattutto tra le fasce di utenza più anziane. La riduzione del numero di ciclisti sulle strade ha comportato una disabitudine degli automobilisti ad essi ed un conseguente aumento degli incidenti.

In assenza di conoscenza reciproca atta a sancire l’autorevolezza di determinati pareri, il “principio di Pari Dignità” (istintivamente ed automaticamente associato ad un gruppo di discussione on-line) sancisce che venga riconosciuta pari dignità alle idee di tutti, finendo col dare la stura a discussioni infinite soprattutto se da parte di chi ha ragione non c’è la capacità di portare argomenti incontestabili o fonti super partes dotate della necessaria riconosciuta autorevolezza.

Un altro limite nel dialogo tra sconosciuti sta nelle motivazioni che spingono a passare il proprio tempo partecipando a discussioni on-line. Molte persone, soprattutto se altamente acculturate, utilizzano tale attività come valvola di sfogo delle proprie insoddisfazioni ed acquisire uno status di autorevolezza nella cerchia ristretta dei frequentatori del consesso on-line (tipicamente un forum).

Per questi individui non è accettabile che le proprie posizioni siano messe in discussione, e sono pronti a difenderle a spada tratta anche a fronte dell’evidenza delle argomentazioni portate, finendo con l’esaurire la pazienza degli interlocutori e conquistare la “vittoria” per KO tecnico. Una simile forma di “antagonismo virtuale” si presenta con maggior facilità in gruppi tematici su argomenti diversi dal topic di base della comunità.

L’ultima e più dannosa fauna infestante è rappresentata dai troll veri e propri, per arginare i quali si rende necessaria l’azione degli amministratori della comunità on-line. Il troll è però facilmente riconoscibile e gestibile, a differenza del “troll involontario” (per semplice ignoranza) e della persona “in cerca di status” (la cui “dannosità” è mitigata dal fatto di svilupparsi preferibilmente su tematiche off-topic).

In generale il relazionamento “tra sconosciuti” rappresenta da un lato una vittoria sul piano dell’orizzontalità della comunicazione, ma manifesta limiti e problematiche non ancora sufficientemente comprese e gestite.

Sei proposte a costo zero alla nuova giunta capitolina

Col passaggio di mano della poltrona di primo cittadino, i ciclisti di Roma hanno ripreso a sperare nella possibilità di vedere a breve la città trasformarsi. Prima ancora di metter mano a pale e picconi per ridisegnare la forma ed il modo d’utilizzo delle strade, tuttavia, è bene ragionare su una serie di provvedimenti rapidissimi ed a costo pressoché nullo per l’amministrazione, da porre in atto in tempi brevi.

1 –  accesso del transito delle biciclette sui marciapiedi purché a bassa velocità (10km/h) e con precedenza assoluta ai pedoni

Trattasi di norma generale che non richiede una cartellonistica specifica e può quindi diventare operativa fin da subito, avvalendosi dei “poteri speciali” per Roma capitale. Si tratterebbe di una deroga al CdS da far valere sull’intero territorio comunale e verrebbe incontro alle esigenze di chi non si sente sicuro ad iniziare a spostarsi sulle strade, a chi vuole muoversi coi bambini ed a tutta quella serie di “ciclisti tartaruga” che sono già identificati come target parziale in ambito europeo (mentre i “ciclisti lepre”, continuerebbero a preferire ed utilizzare la sede stradale). Il tutto senza penalizzare o mettere a rischio i pedoni, riconoscendone lo status privilegiato e la piena responsabilità del ciclista in caso di incidente. Dato che molte delle ultime “piste ciclabili” romane sono state realizzate sui marciapiedi senza alcun tipo di intervento di sistemazione ma solo con una pennellata per terra (già sbiadita), con questa soluzione risparmieremmo anche i costi della vernice.

2 – transito in controsenso sui sensi unici in presenza di sede stradale sufficientemente ampia “salvo diversa indicazione”

Il nuovo CdS consente ai sindaci l’adozione di questa misura con la formula “ove indicato”, che richiede l’individuazione delle strade e l’apposizione della specifica segnaletica. In questa maniera si liberalizzerebbe da subito l’utilizzo del “controsenso ciclabile” riservandosi di adeguare la segnaletica nell’arco di tempo necessario.

3 – limite di velocità generalizzato a 30 km/h sull’intero territorio comunale ad esclusione delle arterie di grande flusso, identificate dalla sezione della sede stradale (minimo due corsie per senso di marcia)

Anche questo intervento è di natura puramente normativa e non richiede cartellonistica specifica: si individuano le strade a sezione ampia come destinatarie del flusso veloce che mantengono l’attuale limite a 50km/h, e si declassano tutte le altre a “viabilità secondaria di quartiere” imponendo su di esse un limite più basso e ragionevole, compatibile con le esigenze di sicurezza degli utenti “leggeri” della strada.

4 – Estensione della possibilità di trasporto delle biciclette sui mezzi pubblici

Al momento il trasporto delle biciclette è fissato a tempi, orari e modalità estremamente limitanti. Vero è che mezzi ed infrastrutture scontano una obsolescenza ed un afflusso spesso eccessivi, tali da pregiudicarne fisicamente l’utilizzo, ma è altrettanto vero che con piccole e piccolissime attenzioni se ne potrebbe estendere facilmente la fruibilità alle biciclette. Il semplice trasporto della bici sulle scale mobili consentito in Germania e vietato in Italia (pensano che siamo più stupidi?), l’assenza di spazi chiaramente identificati sulle vetture, l’assenza di canaline ai lati delle scale per il trasporto a mano delle bici sono tutte piccole carenze che ci collocano al di fuori dell’ambito dei paesi “bike friendly”.

5 – obbligo per le aziende con molti dipendenti di dotarsi di parcheggi coperti per le biciclette e docce

Se si vuole operare un trasferimento modale massivo dall’auto alla bicicletta occorrerà predisporre le relative “facilities”. Le grandi aziende tendono a sottovalutare le possibilità di crescita nell’utilizzo della bici come mezzo di spostamento e a non mettere a disposizione i servizi essenziali ad essa collegati. In questo senso andrà individuata una ripartizione iniziale tra numero dei posti auto a disposizione dei dipendenti e numero dei posti bici da mettere a disposizione. Per le docce l’argomento è già presente nelle nuove normative edilizie, ne andrà obbligata e verificata l’implementazione anche negli edifici già esistenti.

6 – Possibilità di ricovero della bici negli spazi condominiali

L’altro estremo della filiera del trasporto bici è il ricovero in prossimità dell’abitazione. In questo senso molte altre città si sono dotate di regolamenti sull’utilizzo degli spazi comuni condominiali per il ricovero delle biciclette. Questa integrazione normativa potrà essere accompagnata da una campagna di incentivi per la predisposizione di tali spazi alla messa in sicurezza, con l’apposizione di rastrelliere (di tipologia predefinita).

Queste sono le prime sei iniziative che mi vengono in mente, pressoché a costo zero per l’amministrazione ma in grado di lanciare un segnale importante e portare l’attenzione collettiva sul mondo in crescita degli utenti urbani della bicicletta. Più in là ci sarà tempo per ripensare la viabilità, il disegno delle sedi stradali, la vita sociale, la vivibilità complessiva dei quartieri. Per ora, e già da subito, trasformazioni importanti possono essere operate anche solo con una semplice delibera assembleare.

Daje

Tutti a/r mare

“Insegna ad una persona a viaggiare in bicicletta, ed avrai cambiato
per sempre il modo in cui penserà a sé stesso/a ed al mondo” (M.B.)

La Ciemmona è diventata, per me, nel corso degli anni, uno di quei momenti affatto speciali in cui i nodi di una vita intera appaiono finalmente appartenere ad un’unica rete. Passato, presente e futuro, per una rara coincidenza, si rivelano cuciti insieme.

Come per Paolo sulla via di Damasco, la prima Ciemmona, nel 2004 (quando ancora si chiamava semplicemente “Roma Pedala”), arrivò a sconvolgere tutto quello che credevo di sapere sulla promozione e diffusione dell’uso della bicicletta, e ben presto mi costrinse a rivedere molte radicate convinzioni sui processi umani e sociali correlati.

La storia di come andò è già stata raccontata, e sempre sulla Ciemmona sono tornato a ragionare, a pochi anni di distanza (in un post dal titolo molto simile). Rileggendo quanto scritto tempo addietro posso solo prendere atto della sostanziale attualità di quelle riflessioni. Non molto è cambiato, nemmeno nella città ostile che ci circonda.

L’anno scorso fui costretto a saltare l’appuntamento a causa di un matrimonio, quest’anno ho potuto partecipare a tutti e tre gli appuntamenti, anche se solo parzialmente ai primi due (venerdì e sabato), rientrando per l’ora di cena. La sensazione che ho avuto è quella di una forza gioiosa, ed in quanto tale inarrestabile.

La massa critica si compone di innumerevoli singole identità che, unite insieme, danno vita ad un sovra-organismo. Nessuno sa a priori dove si troverà nel corso della giornata, ed a fare cosa. Man mano che il serpentone di ciclisti procede, spontaneamente si formano le barriere per arginare gli autoveicoli, ci si ferma a dare una mano a chi ha problemi, si collabora e contribuisce alla riuscita dell’evento. Nessuno decide, nessuno ordina, ma tutti si attivano in base alle necessità.

Già da un po’ speravo di poter coinvolgere in quest’esperienza i miei nipoti, ma per tutta una serie di coincidenze solo quest’anno sono riuscito a coronare il mio sogno. Purtroppo la pioggia ha impedito che partecipassero al giro di sabato, ma la domenica siamo riusciti a portarli al mare. O meglio, ad accompagnarli, visto che al mare ci sono arrivati da soli, pedalando per più di 30km.

Tra le moltissime persone incontrate in quest’occasione diverse appartengono al lontano passato (con Guido A., Pino F. e Romano P. ho condiviso pedalate sul finire degli anni ’80), altri al passato meno remoto, in cui ero guida e poi presidente dell’associazione “Ruotalibera” (Marco G. su tutti), altri ancora al passato prossimo, il periodo in cui sono stato attivo nei “Ciclopicnic”, sul blog “Romapedala”, davvero troppi per citarli tutti.

Altri ancora, moltissimi, appartengono al presente, al forum “Cicloappuntamenti”, alle esperienze di “Di Traffico Si Muore” prima e “Salvaiciclisti” e “LACU” poi. E sopra tutto questo il futuro, incarnato dai miei tre nipotini, che spero riusciranno a godere i frutti di tanto lavoro, intelligenza, volontà e passione spesi nel corso degli anni.

Questo ha fatto sì che la giornata di domenica assumesse per me la dimensione di un “album dei ricordi” proiettato in tempo reale, un reminder delle tante cose fatte e delle tantissime ancora da fare, una sorta di “Cappella Sistina” momentanea, affresco situazionista del cicloattivismo degli ultimi vent’anni a Roma.

Un movimento dalle molte anime, e forse dalle troppe diverse priorità, che si proietta in avanti sullo slancio di una crescita numerica a lungo attesa e finalmente realizzata, tale da portare con sé il consenso necessario a produrre trasformazioni politico sociali, per anni esistite solo nelle fantasie di pochi sognatori.

Ad un certo punto Emanuele mi ha detto: “Zio, però se fossimo andati in macchina saremmo già arrivati…”. “Certo”, gli ho risposto, “ma ci saremmo persi tutto questo (indicando l’incredibile serpentone di ciclisti che occupava via Cristoforo Colombo fin dove era possibile guardare), che in fondo è la parte migliore!”. Per questo ho voluto concludere il video con una frase che ho messo a fuoco solo sulla via di casa:

“Non ha importanza da dove vieni, o dove vai. Importante è il viaggio”.

Poi ho capito che questo è stato, negli ultimi vent’anni, il mio “viaggio”. Tutte queste persone con cui ho condiviso pedalate, incontri, riunioni, sorrisi, arrabbiature. Questo è stato fin qui il viaggio della mia vita. Magari non mi ha portato da nessuna parte, ma è stato lo stesso un gran bel viaggio, e se pure potessi, non lo cambierei.

Sudditanze culturali

Tutte le battaglie di civiltà, ivi compresa quella per la diffusione dell’uso della bicicletta che sto portando avanti ormai da decenni, si trovano a scontrarsi col modello culturale dominante. Non è infatti pensabile che una consuetudine diffusa e condivisa da intere popolazioni possa porsi in atto senza che a supportarla non vi sia una propaganda altrettanto diffusa, perdurante e onnicomprensiva.

Questo vale ovunque appaia un sistema organizzato per lo sfruttamento di una ricchezza collettiva, sia essa una risorsa naturale o una fonte energetica. Nel momento stesso in cui tale risorsa viene individuata, in vista del suo futuro utilizzo su larga scala, la macchina della propaganda si mette in moto per garantire che alla sua pubblica diffusione faccia seguito un accoglimento entusiasta da parte del pubblico.

Il perenne conflitto ideale fra cooperazione e competizione (soprattutto in paesi come il nostro, dominati da una secolare tradizione cristiana più orientata verso la prima delle due) fa sì che le trasformazioni sociali e culturali passino il vaglio di una interpretazione che le renda eticamente accettabili alle masse, esaltandone i lati positivi e mettendone in ombra i lati negativi.

A titolo di esempio, l’invasione di “terre vergini” e la riduzione in schiavitù delle relative popolazioni è sempre stata giustificata nei termini di una diffusione della civiltà alle terre conquistate, di una superiorità tecnologico/culturale del popolo invasore, e legata a discutibili vantaggi realizzati in loco come case, scuole, infrastrutture (dall’impatto spesso devastante in un contesto culturale ed ambientale totalmente diverso da quello del paese occupante).

I meno giovani ricorderanno la mitizzazione della conquista del selvaggio west” americano, divenuto valvola di sfogo per la sovrappopolata Europa e che costò lo sterminio di milioni di nativi, sulle cui terre si costruì la ricchezza di una nuova nazione (che ancora a distanza di decenni sentiva la necessità di giustificare tale massacro con la retorica dei “coraggiosi pionieri”).

L’energia atomica, per fare un altro esempio, vide inizialmente la luce come applicazione militare, col bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, una vergogna storica che fu rapidamente dimenticata grazie alla promessa di una fonte di energia inesauribile e “pulita” per il futuro a venire.

Tale fu l’entusiasmo collettivo artificiosamente prodotto nei suoi confronti da tracimare massicciamente nella letteratura d’intrattenimento e nei fumetti (dando vita all’ondata dei “supereroi”, da poco approdata sugli schermi cinematografici a seguito del perfezionamento delle tecniche di animazione computerizzata). Nei fumetti l’esposizione alle radiazioni nucleari non produce il cancro, la leucemia, la morte tra sofferenze atroci, bensì “mutazioni” positive che conferiscono ai personaggi poteri sovrumani, in un totale rovesciamento della realtà e di quanto all’epoca già noto da decenni.

La propaganda culturale, sopratutto quella più subdola, fa leva sulla necessità di giustificare le proprie azioni, dettate molto spesso da convenienza spicciola, in una chiave etica che sia collettivamente accettabile. Si ha perciò facile gioco nel mascherare gli egoismi individuali rivestendoli di una patina fittizia di altruismo e buoni sentimenti.

Come per ogni idea variamente legata al concetto di “modernità”, la diffusione massiccia e per molti versi scriteriata dell’automobile si è anch’essa servita di argomentazioni ipocrite e surrettizie, di una sostanziale mistificazione dei fatti e dell’appoggio acritico di gran parte delle popolazioni.

L’automobile, come il treno prima di essa, viene da principio veicolata come un mezzo per ridurre le distanze ed avvicinare le persone. A differenza del treno, tuttavia, la sua natura di veicolo individuale consente di farne uno strumento di identificazione personale, cosa che la rende ben presto uno status symbol.

La discendenza in linea diretta dalla carrozza ottocentesca, col suo portato di icona di lusso e successo, ne produce la differenziazione in modelli di diverse prestazioni, costo e finiture, innescando così un processo di identificazione verso l’alto. Mentre il cittadino medio non può facilmente aspirare, per dire, a possedere una barca, gli è abbastanza semplice fantasticare sul possedere un’auto di lusso.

Si innesca a questo punto quel meccanismo psicologico di sudditanza culturale cui alludevo nel titolo: da un lato l’accettazione di un’inferiorità economica e sociale, dall’altro l’ammirazione acritica nei confronti del veicolo di esibizione dello status sociale, e di conseguenza nell’accettazione acritica di sé e del proprio modello di vita ben più miserevole.

A supporto di questa “vision” la grancassa della propaganda ha facile gioco nel distribuire “a pioggia” meriti ed onori, per cui il successo economico o sportivo di un brand italiano diventa una vittoria “dell’intero paese”, cosicché anche un muratore o bracciante agricolo possa sentirsene orgoglioso e continuare a contribuire con entusiasmo al sistema ideologico cui è culturalmente asservito.

Dalla grancassa pubblicitaria onnipresente, martellante ed ideologicamente focalizzata nel mantenere elevato il grado di accettazione sociale del modello automobile manca ogni possibile lettura critica del fenomeno che ne evidenzi le ricadute negative.

Dalle pubblicità magicamente scompaiono i riferimenti all’inquinamento delle città, alla congestione del traffico, all’incidentalità stradale, ai costi individuali e collettivi che tale scelta comporta, e non potrebbe essere diverso trattandosi appunto di propaganda, il cui unico fine è il nostro asservimento culturale.

E non basta neppure essere consapevoli di ciò per essere in grado di dar vita ad un’autonoma regressione da un modello culturale che si è passivamente introiettato nel corso degli anni o nell’intero arco vitale, fin dalla più tenera età in cui giocavamo con autopiste e macchinine. Occorre una capacità di analisi critica ormai rara.

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