Da almeno un paio di settimane sto combattendo con un’idea relativa all’intelligenza umana. L’idea è che al di là delle differenze quantitative, che pure esistono e sono misurabili, siano presenti differenze qualitative. Non sto parlando delle diverse forme di intelligenza (logico/razionale, linguistica, psicomotoria, sociale e chi più ne ha, più ne metta…) sto parlando proprio di un differente approccio alla realtà ed alla complessità.
Il ‘fattore scatenante’ che ha rimesso in gioco tutto quello che pensavo di sapere sull’argomento è stato un articolo della psicologa Ana Maria Sepe [1] che, in buona sostanza, illustra il mio personale modo di ragionare. Il fatto spiazzante è che lo descrive, per così dire, ‘dall’esterno’, come se fosse chissà quale bizzarro modo di processare le informazioni. Partiamo dal seguente passaggio:
Prima di tutto che le persone intelligenti NON memorizzano le cose. Chi ha un QI alto è bravo a connettere tra loro idee e creare costruzioni mentali tra informazioni che magari potrebbero sembrare irrilevanti o appartenenti ad altri contesti. Quindi questi “geni” trovano con facilità schemi tra dati grezzi e li collegano tra di loro. In parole povere: riconoscono e connettono pattern.
Questo sono esattamente io (al di là dell’appellativo “genio”, nel quale non mi riconosco e che giustamente sta tra virgolette a significare un eufemismo). O, ad essere precisi, è la descrizione del mio personale modo di organizzare le informazioni che raccolgo in strutture relazionali e rapporti di causa/effetto. Mai, fin qui, mi è venuto da pensare che potessero esisterne altre.
È un modo di ragionare che presenta ovvi vantaggi. Consente di applicare schemi interpretativi generali a discipline diverse da quelle per le quali sono stati pensati, consente una comprensione più immediata delle potenziali conseguenze derivanti da una determinata azione. Consente, in ultima istanza, quel ‘pensare fuori dagli schemi’ di cui tanto si parla, perché un modo di elaborare le informazioni che padroneggia gli schemi sa anche riconoscerli e manipolarli con facilità.
Il modo di pensare, di organizzare l’esistente, rappresenta l’essenza di un individuo. Ma, aggiungerei, ogni individuo tende a ritenere se stesso simile agli altri. Questa attitudine, derivante evidentemente da dinamiche evolutive, prende il nome di ‘bias di proiezione’, rientrando nella categoria dei bias cognitivi [2]:
Il bias di proiezione è una tendenza cognitiva che porta le persone a pensare che gli altri la pensino come noi, o che abbiano le nostre stesse caratteristiche. Si tratta di una forma di auto-percezione, in cui le persone proiettano le proprie preoccupazioni, aspettative e opinioni sugli altri. In altre parole, questo bias può spingere le persone a vedere negli altri le caratteristiche che vedono in se stesse o che temono di possedere. Ad esempio, un individuo potrebbe essere incline a sospettare che gli altri siano bugiardi (o generosi) solo perché è consapevole del fatto che mente spesso (o che lui stesso è una persona generosa). Questo tipo di tendenza alla proiezione può influire su come ciascuno percepisce la realtà e interagisce con gli altri.
L’articolo della d.ssa Sepe, in ultima istanza, mi suggerisce un’eventualità mai presa seriamente in considerazione, quella di essere una bizzarra eccezione. Ora, a nessuno piace essere un’eccezione, fosse anche positiva. Gli individui eccezionali ingenerano aspettative, sono loro richieste prestazioni eccezionali. Preferiamo, tutti, sentirci ‘uguali agli altri’, questo ci suggerisce il bias di proiezione.
Intere ideologie e fedi religiose sono state costruite per soddisfare questa aspettativa. Ma è realmente così? Se guardiamo alle dinamiche evolutive dei gruppi umani realizziamo che questa condizione non soddisfa un criterio di massima efficienza per la collettività (sto saltando di palo in frasca, è evidente e ne sono consapevole, ma questo, come già detto, è il mio modo di ragionare). L’intelligenza umana è il prodotto di processi evolutivi, e se vogliamo comprendere come sia distribuita dobbiamo usare questa specifica chiave interpretativa.
Come già spiegato nel post precedente [3], gli studi evolutivi effettuati sulle specie sociali evidenziano una tendenza a disperdere le caratteristiche individuali su uno spettro più ampio rispetto a quanto si osserva nelle specie prive di comportamenti sociali. Questo significa che all’interno delle specie che vivono in gruppi, branchi, stormi, colonie, le diversità tra singoli individui sono maggiori rispetto alle specie i cui componenti praticano esistenze solitarie.
Il tasso di diversità aumenta ancora nelle specie, come la nostra, capaci di comportamenti altruistici, dove cioè i diversi componenti del gruppo possono prendersi cura gli uni degli altri. Questo comportamento può emergere grazie al vantaggio conseguente alla possibilità, per un individuo ferito, di guarire, in modo che il gruppo non abbia a perdere uno dei suoi elementi di forza.
È facile, a questo punto, immaginare come il comportamento altruistico, stante una disponibilità sufficiente di risorse, possa essere esteso a membri anziani e/o ad individui portatori di disabilità fisiche o psichiche. Comportamenti di questo tipo sembrano emergere fin dalla preistoria dell’umanità, e si riflettono nella gran parte delle fedi ed ideologie che attraversano la storia dell’uomo.
Il processo di diversificazione consente al singolo gruppo, e di conseguenza all’intera specie, di sviluppare caratteristiche peculiari ed eccezionali, non strettamente legate alle esigenze di sopravvivenza ma fondamentali per la resilienza del gruppo stesso. Data una sufficiente disponibilità extra di risorse, alcuni individui potranno specializzarsi in attività non strettamente legate alla caccia, alla raccolta ed alla fabbricazione di utensili, esplorando la cura delle malattie, o forme di sollievo psichico come le fedi religiose, e praticare forme di pensiero speculativo che vadano oltre le esigenze immediate.
È in questo contesto sociale che individui portatori di intelligenze atipiche possono prosperare e dar vita a forme artistiche, materiali o immateriali, a filosofie, a narrazioni del mondo, a speculazioni, e risultare motivanti e trainanti per l’intera collettività. Le stesse dinamiche evolutive indicano che queste intelligenze atipiche tendono a rimanere eccezioni alla norma, al pari del mancinismo, della propensione al rischio e di altre caratteristiche relativamente rare, perché la funzionalità del gruppo dipende dalla loro essere poco frequenti.
Torno per l’ennesima volta all’esempio di D. Goleman sullo stormo di uccelli che trae vantaggio dal conservare il tratto genetico della propensione al rischio, perché il fatto che alcuni individui si allontanino dalla massa consente di individuare più facilmente i predatori [4]. Se da un lato questo comportamento è funzionale quando si presenta occasionalmente, dall’altro sarebbe catastrofico se fosse proprio di tutti gli individui.
Allo stesso modo un gruppo umano è avvantaggiato dalla propensione di alcuni individui ad attività rischiose, ma sarebbe sfavorito se tutti i suoi componenti fossero propensi a correre più rischi del necessario. Questo mi porta a ritenere che anche per l’intelligenza valga un discorso analogo: il gruppo è funzionale quando le intelligenze peculiari sono una eccezione, e non la norma. Un gruppo sociale composto unicamente da artisti, musicisti, filosofi, matematici e pensatori inquieti se la caverebbe molto male nel far fonte ad una quotidianità fatta di occupazioni spesso ripetitive e poco intellettualmente stimolanti.
Quindi abbiamo ribadito un primo punto: la presenza di intelligenze diversificate è funzionale all’efficacia del gruppo. Come si arriva, da qui, a definire l’esistenza di differenze di natura qualitativa? Da quello che sono riuscito a ragionare, una differenza di tipo quantitativo si traduce da sé in una differenza di tipo qualitativo. Il semplice poter elaborare più elementi contemporaneamente richiede l’utilizzo di schemi interpretativi, pena il ritrovarsi in un caos ingestibile.
A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro per sviluppare il concetto di intelligenza e darne una definizione meno generica. L’intelligenza è la capacità di far fronte a situazioni complesse. Il grado di complessità dell’operazione da svolgere determina il livello di intelligenza richiesta.
Partiamo da un livello ‘zero’ (arbitrario) con gli organismi filtranti. Molte delle forme di vita sulla Terra sono di questo tipo: spugne, molluschi, meduse, coralli, ecc… L’organismo filtrante vive in un habitat liquido ed estrae i nutrienti dal liquido stesso. Nessuna intelligenza è richiesta per questa modalità di sussistenza. Il risultato è che questi organismi non possiedono una rete neurale.
Non è ancora ben chiaro come le reti neurali si siano evolute, tuttavia osserviamo che la capacità di operare decisioni, unita alla mobilità, renda la predazione più efficiente. Data questa possibilità, milioni di anni di evoluzione e milioni di miliardi di individui consumati nel processo, arriviamo allo stadio successivo, che osserviamo ben conservato negli insetti.
Gli insetti possiedono un addensamento di cellule neurali, il cervello, dal quale si diparte una rete di comunicazione degli impulsi generati a raggiungere il resto del corpo. Il cervello acquisisce informazioni sensoriali dal mondo esterno e le traduce in azioni che impartisce ai diversi organi per mezzo della rete neurale. Le dimensioni degli insetti limitano la dimensione del cervello ai minimi termini.
Questo li rende in grado di esprimere un ventaglio di comportamenti limitato ed estremamente ripetitivo, come se il loro spettro di azioni e reazioni fosse interamente programmato già in partenza durante lo sviluppo cellulare, copiato e incollato direttamente dal DNA. Ovviamente questa modalità risulta efficace per svolgere funzioni ripetitive, ed il suo successo lo misuriamo dall’adattamento degli insetti ad ogni forma di habitat e dal loro coesistere come parassiti degli organismi più grandi e complessi.
Dimensioni corporee maggiori consentono di sostenere cervelli più grandi e l’avvento della ‘plasticità’, ovvero della capacità di apprendere comportamenti non codificati. Questa abilità porta con sé una serie di vantaggi, non ultima la possibilità di trasmettere alla discendenza saperi specifici e locali, oltre ad una maggior adattabilità rispetto a situazioni inattese.
Una specie di erbivori in costante migrazione può trovarsi di fronte a forme di vegetazione sconosciute e potenzialmente letali. Solo l’esperienza, e l’eventuale sacrificio di un individuo particolarmente debilitato, possono informare gli altri della effettiva sicurezza di consumare la nuova risorsa, e generare una specifica cultura che viene poi conservata all’interno del gruppo.
Un comportamento di questo tipo si osserva in alcuni topi (rattus norvegicus), che sono un po’ la ‘forma base’ di tutti i mammiferi sopravvissuti all’estinzione dei dinosauri. È stato osservato che in presenza di un’esca avvelenata il gruppo resta ad aspettare finché uno dei membri più deboli (un anziano, probabilmente affamato) non va a morderla. Quando il topo anziano muore avvelenato, gli altri membri del gruppo ci urinano sopra per marcare olfattivamente la pericolosità di quel tipo di esca, col risultato che da lì in poi tutti gli altri topi della comunità eviteranno di nutrirsene. Questa rappresenta una modalità molto basilare di apprendimento e generazione di una nuova cultura.
Grazie alla plasticità viene a determinarsi una dinamica predatore/preda dove comportamenti troppo prevedibili possono esporre gli individui al rischio di non sopravvivere, mentre la capacità di reagire in maniere inattese diventa un vantaggio immediato nella competizione per la sopravvivenza. Le culture acquisite dei predatori e delle prede si modellano reciprocamente e si trasmettono alle rispettive discendenze.
La nostra specie opera un salto ulteriore liberando gli arti superiori, che possono così essere impiegati per modellare utensili ed utilizzarli, inventando l’evoluzione tecnologica e le forme avanzate di linguaggio, necessarie a trasmettere interi bagagli di competenze da una generazione alle successive, e sviluppando forme di cultura precedentemente inimmaginabili.
Possiamo distinguere tuttavia tra una attitudine di tipo ‘applicativo’ ed una di tipo ‘esplorativo’. La prima è equivalente alla massa dello stormo di uccelli, la seconda ai singoli elementi dotati di maggior propensione al rischio. La massa si limita ad apprendere le conoscenze consolidate, mentre un ristretto numero di individui risulta in grado di forzarne i limiti, ovviamente rischiando in proprio.
In sintesi, mentre per la maggior parte degli individui è sufficiente apprendere ed applicare un bagaglio di competenze consolidato, senza metterlo in discussione, il comportamento ‘estremista’ relativo all’intelligenza consiste nel mettere in discussione il sapere consolidato per estenderlo oltre i confini precedentemente accettati, rischiando evidentemente di fallire nel tentativo.
Questo dilemma è rappresentato in molte delle narrazioni che ci sono giunte dall’antichità, che peraltro continuano a modellare la nostra cultura e le sue espressioni più recenti. Il racconto mitologico di Icaro che vola, con le sue ali, troppo in alto, fino a farle sciogliere dal calore del sole e a morire, rappresenta in forma simbolica l’aspirazione dell’umanità a nuove forme di conoscenza, ed i rischi che ne conseguono per chi provi ad esplorarle.
La conclusione di questo ragionamento rafforza la tesi che le società umane si strutturino ed organizzino per la massima efficienza, e che questo produca una dispersione delle forme di intelligenza e delle attitudini individuali. In più aggiunge una considerazione ulteriore, ovvero che per la maggior parte delle persone sia difficile ragionare per schemi e desumere un quadro coerente della realtà semplicemente dalle evidenze. Di conseguenza il loro approccio alla realtà dipenderà da un sapere acquisito, senza peraltro poter disporre degli strumenti indispensabili a rimetterlo in discussione.
Nel prosieguo conto di sviluppare una riflessione sul Principio di Autorità [5], quindi di esplorare le conseguenze delle presenti conclusioni sulle forme assunte dalle organizzazioni umane per comprendere meglio la loro influenza nei processi di auto-domesticazione [6].

1 – Da cosa si capisce se una persona è molto intelligente (PsicoAdvisor)
2 – Bias Cognitivo (Chiara Venturi)
3 – Evoluzione dell’intelligenza umana