A riveder le stelle



Qualche giorno fa ho riesumato il mio telescopio, un 8" (20cm) newtoniano a corta focale (f:4), dal letargo in cui ha giaciuto negli ultimi anni. Sconfortato dal crescente degrado della qualità del cielo nei dintorni di Roma, negli ultimi tempi le mie uscite osservative si erano progressivamente diradate, fino al pressoché totale pensionamento dell’onesto strumento in una "stanza magazzino" a casa dei miei.

In anni recenti, al telescopio principale si è affiancato un piccolo rifrattore da 7cm, molto comodo e trasportabile, col quale ho effettuato alcune estemporanee uscite "didattiche". Questo "giocattolino" mi ha pure accompagnato, lo scorso autunno, nel weekend "ciclo/astrofilo" culminato con l’osservazione della cometa Holmes dai dintorni del lago Trasimeno.

Guardando più indietro nel tempo, la "visione memorabile" degli ultimi anni è stata indubbiamente quella del cielo dell’emisfero sud, dal Sudafrica, nel corso del viaggio di nozze. Anche lì, per esigenze di trasporto, entrambi gli strumenti maggiori vennero "sacrificati" in favore di un binocolo astronomico 10×50, strumento modesto ma di ottima qualità, capace di regalare visioni emozionanti dei campi stellari della Via Lattea.

Prima di quella ricordo un’appassionante nottata osservativa, sempre con l’ausilio di un binocolo, dalla Sardegna, nel 2005, ed ancor più in là negli anni una memorabile, e a tutt’oggi irripetuta, osservazione dell’ammasso di galassie della Vergine proprio dalla cima di monte Nerone, in occasione del passaggio della cometa Hale-Bopp.

La scarsa attività degli ultimi anni non deve stupire, sono un convinto fautore della necessità di far "riposare" determinate passioni, per affrontarle in seguito con spirito diverso e più maturo. Mi è già successo diverse volte con la fotografia, e non è la prima volta che avviene anche per l’astronomia. Ma in questo caso il problema contingente è drammaticamente reale, e non dipende da me.

La qualità del cielo notturno è infatti in costante peggioramento da anni, di pari passo coll’aumento scriteriato dell’illuminazione notturna, oltretutto effettuato con impianti luce inadeguati ed in completa assenza di regolamenti e semplice buonsenso. Il risultato è un chiarore diffuso, lattiginoso ed onnipresente, che nasconde e fagocita le tenui trame luminose degli oggetti celesti.

L’8" era stato "rispolverato" un paio di mesi fa, in occasione di un weekend ibrido "bici+stelle", e messo in opera nuovamente a Campo Felice, dove avevo potuto sconsolatamente constatare il progressivo e decisivo peggioramento dell’ultimo spazio comodamente raggiungibile da Roma.

Nonostante ciò, una decina di giorni fa, partendo per uno stralcio di vacanza alla volta di Cimbano, dove io e Manu abbiamo passato alcuni giorni ospitati dai suoi genitori, ho preso su lo scatolone del telescopio e l’ho ficcato in macchina, pensando che avrei potuto utilizzarlo per mostrare ai miei parenti acquisiti un po’ di oggetti  del cielo estivo.

Ad una prima serata osservativa svoltasi praticamente nel cortile di casa, in cui a farla "da padrone" era stato il pianeta Giove colto nel momento del transito della luna Callisto di fronte al disco del pianeta (fenomeno relativamente raro e perciò inatteso), ne era seguita una seconda con tanto di grigliata dal vicino monte Arale.

Di questa seconda nottata osservativa, oltre ai pochi oggetti chiaramente percettibili nell’immancabile chiarore diffuso, ed alle "narrazioni didattiche" dei fenomeni celesti osservati, penso che siano rimaste particolarmente impresse le mie ripetute e sentite lamentazioni sul degrado incalzante delle condizioni osservative.

Dal punto di vista degli astrofili è un’evidente beffa. Per decenni abbiamo osservato con strumenti grossolani ed oculari scadenti, dai progetti ottici  calcolati a mano e trattamenti antiriflesso rudimentali, confidando che il "progresso" ci avrebbe messo a disposizione telescopi sempre più potenti a prezzi compatibili con le nostre finanze.

Ebbene quegli strumenti li abbiamo avuti. Ora possiamo permetterci telescopi molto più efficienti di quelli disponibili trenta, quarant’anni fa… purtroppo non c’è più il cielo da osservare, perché nel frattempo il "progresso", o qualcosa che chiamano in questo modo ma di fondo non lo è, ce lo ha fatto sparire!

L’altro ieri sera, contraddicendo l’idea di "persona di buon senso" che nutro di me, ho preso su il telescopio e me ne sono partito in macchina, da solo, alla volta del monte Nerone, saltando la cena. È stato un po’ come quei gesti "disperati" che si tentano quando non c’è più niente da fare, la scommessa di riuscire a trovare un cielo ancora scuro abbastanza da svelarmi i propri segreti.

Dopo un breve vagare al crepuscolo in cerca di uno spiazzo aperto a sud e relativamente al riparo dall’onnipresente vento, ho fermato l’auto di fronte al rifugio "La Cupa", ovviamente chiuso, ed intabarrato in un giaccone invernale ho preso a "tirar su" lo strumento, sotto un cielo che andava scurendo lentamente.

Detta in poche parole, è stata la nottata osservativa più appagante da molti, mooolti anni a questa parte. Non saprei dire esattamente perché, forse la prossimità ad un territorio poco antropizzato, forse la quota prossima ai 1500 metri, fatto sta che ho finalmente ritrovato un Cielo degno di questo nome.

La Via Lattea appariva nettamente stagliata, con evidenti chiaroscuri tra le differenti aree. La zona del Cigno, allo zenit, appariva incredibilmente modellata, e per la prima volta nella mia vita ho potuto osservare con certezza, al binocolo, l’elusiva nebulosa Nord America… che "elusiva" non è affatto, se osservata in condizioni decenti e senza le "fette di salame" dell’inquinamento luminoso davanti agli occhi.

Poi una scorpacciata di ammassi globulari, in gran parte risolti in stelle con notevole spettacolarità (quando gli stessi oggetti, sotto un cielo scadente, sono poco più che chiazze diffuse a fatica distinguibili) e per finire "sua maestà" la galassia di Andromeda, con la sua corte di galassie nane, pur ancora bassa sull’orizzonte si dispiegava in tutta la sua maestosità.

Contemporaneamente entusiasmante e sconfortante la consapevolezza che questo cielo notturno, ripeto il migliore da molti anni (Sardegna ed, ovviamente, Africa escluse), sia ancora lontano dalle condizioni ottimali, che a questo punto non saprei davvero dove rintracciare, o se ciò avverrà mai.

A metà nottata si è anche verificato un episodio imprevisto e straniante: rumori di rami spezzati da un boschetto sottostante che crescono d’intensità, quindi forme biancastre che si profilano nell’oscurità e lentamente si rivelano, avvicinandosi e sfilandomi davanti lentamente, per un branco di vacche. Non sapevo che i bovini pascolassero di notte! Per evitare di infastidirli e di provocare reazioni scomposte mi sono infilato in macchina ed ho atteso che il transito fosse completato.

Intorno alle undici avviene il previsto "crollo". Un po’ il freddo, un po’ la cena saltata, un po’ l’armeggiare al telescopio in posizioni spesso scomode, realizzo che ho raggiunto il limite fisiologico per smontare il tutto ed affrontare la discesa dalla montagna ed il rientro a casa in relativa sicurezza, senza rischiare che la stanchezza mi rallenti i riflessi e la lucidità. Ma sono ormai appagato.

Appagato e riconciliato con la mia antica passione. Ma c’è un problema. Monte Nerone è a quattro ore di macchina da Roma, non c’è modo di farne un punto d’appoggio regolare. Insomma, se vorrò riprendere l’attività osservativa è un limite di cui dovrò tenere conto.

In compenso so cosa risponderò al prossimo astrofilo che mi chiederà consiglio per l’acquisto di un telescopio. L’esperienza del Nerone è stata esauriente, il cielo stellato è uno spettacolo incredibile in qualsiasi strumento, dall’umile binocolo al grande riflettore. Il consiglio che darò, d’ora in poi, sarà: "non preoccuparti tanto dello strumento, pensa piuttosto a come procurarti un Cielo Stellato".

Ritorno al Catria

(cliccare sull’immagine per vedere la foto panoramica completa)

Per quest’anno, complice la gamba rotta di Emanuela, i nostri progetti di viaggi e vacanze si sono necessariamente ridimensionati. Le mie tre settimane di ferie si sono svolte in prevalenza a Pianello, con una breve puntata a Cimbano, presso il lago Trasimeno, dove siamo stati ospiti dei genitori di Manu.

Ne ho approfittato per ripercorrere, in bicicletta, molti dei miei itinerari preferiti, immerso in una natura ancora relativamente intatta e con scenari e panorami assolutamente spettacolari. La parte del leone l’ha avuta il Monte Nerone, che ho ormai eletto a “mia montagna”, ma non sono mancate esplorazioni alla ricerca di nuovi percorsi, ed itinerari che non frequentavo ormai da anni.

Come “gran finale” mi sono tenuto la scalata del Monte Catria su una strada bianca il cui tratto finale, dismesso e semiabbandonato, è l’unica via per raggiungere in bicicletta la vetta (1702m) con la grande croce a traliccio. Un itinerario che avevo percorso una sola volta, anche allora in solitaria, più di dieci anni fa.

Sentendomi in buona forma, anziché avvicinarmi in macchina al punto di partenza, come avevo fatto “illo tempore”, mi muovo da casa direttamente in bicicletta in sella all’inossidabile “Velociraptor”. All’uscita del paese (400m) prendo la strada di Caimercati per raggiungere lo svalico di Col Di Billo (620m). Da qui, passando per Vilano, raggiungo infine Cantiano (360m), ideale punto d’inizio della salita.

Mi lascio quindi alle spalle la prima ascesa asfaltata, i dolci saliscendi fino al borghetto di Vilano e la lunga e divertente discesa su strada bianca che mi ha condotto alle porte di Cantiano. È ancora abbastanza presto (nemmeno le dieci), la mattina è fresca, le gambe vanno senza problemi, quindi senza fermarmi proseguo per Chiaserna (500m), dove conto di far rifornimento “viveri” ad un bar.

Purtroppo il bar è in ristrutturazione, mangio un gelato e riparto senza ulteriori “riserve”, contando sull’allenamento per raggiungere la cima e quindi recuperare energie acquistando e sgranocchiando qualcosa lungo la discesa. Sarà un gesto ottimista, ma senza gravi conseguenze. Proseguo sulla strada asfaltata fino al valico di Pian di Lucchio (650m) dove inizia la strada bianca e l’avventura vera, ovvero i restanti 1050 metri di dislivello fino alla cima.

In cima al valico c’è una sorgente. Pochi mesi fa, in primavera, l’acqua sgorgava copiosa. Ora ne esce pochissima, riempio la borraccia ed imbocco il sentiero, che nel primo tratto appare molto trascurato. Di questa strada ricordo pochissimo, rampe terribili all’inizio, su un fondo di pietrisco smosso, alberi a nascondere il panorama fino ad alta quota ed in cima rampe spezzagambe su pendici quasi a strapiombo.

Ma il ricordo è mendace. La strada sale all’inizio con pendenza molto regolare, ed il fondo, in questo tratto, è stato risistemato abbastanza di recente. Anche la cortina di alberi all’intorno è meno compatta di quanto ricordassi, lasciando intravvedere le pendici del monte Cucco più a sud, pur garantendo  un’ombreggiatura costante fino in quota.

Mi inerpico lentamente e con regolarità, lungo la strada non c’è nessuno e scopro di apprezzare questa solitudine come una delle componenti più appaganti di queste mie uscite in bicicletta. È una condizione molto diversa da quella delle pedalate in gruppo che svolgo costantemente nel corso dell’anno.

Sono solo con la montagna, in una dimensione che è sfida, ma anche senso di appartenenza. La strada si arrampica alternando pendici scoscese, macchie di querce basse e tratti dentro boschi di aghifoglie di grandi dimensioni, mai uguale a sé stessa, mentre la vetta, che scorgo occasionalmente, sembra non avvicinarsi mai.

Dopo un ultimo tratto nel bosco, molto ripido e sconnesso, emergo sul Pian d’Ortica, a quota 1400m, e realizzo di essere a corto di risorse. Avrei dovuto portare qualcosa da mangiare, barrette o reintegratori, zuccheri di facile assimilazione, ma non sono abituato a sforzi così prolungati e di conseguenza non ho l’abitudine di portarne con me. Faccio una sosta stendendomi sul prato.

Non vedo nessuno da diverse ore, ormai. La strada è completamente deserta. Il monte Catria, del suo, su questo versante è parecchio ripido e scosceso, oltre ai boschi non ci sono che sporadici alpeggi con poche bestie al pascolo. Uno spazio crudo ed inospitale, che mal tollera le strade tagliate dall’uomo ai suoi fianchi per addomesticarlo.

Riparto in un silenzio turbato solo dallo scricchiolio dei sassi sotto le ruote e sottolineato dal soffio di una lieve brezza, che a tratti mi procura qualche brivido. Percorro quasi un chilometro in relativo piano raggiungendo l’ultimo bivio: a destra la discesa per l’eremo di Fonte Avellana, a sinistra la strada ormai abbandonata per la cima, che nonostante la stanchezza imbocco senza esitazione.

Le ultime rampe sono impressionanti. La strada è larga a sufficienza per consentire il passaggio di un fuoristrada, ma il fondo è pessimo e dal lato che guarda a valle non esistono guard-rails (e meno male!). Sembra di stare su una di quelle “strade della morte” che si vedono nelle foto del Tibet, o delle Ande, tagliate su pendici digradanti quasi a strapiombo sul vuoto.

Tutt’intorno è come se non ci fosse nulla, la montagna svetta solitaria circondata da alture che a fatica raggiungono i 1000m e da quest’altezza appaiono come semplici increspature del fondovalle. Mi fermo a scattare foto che so già non renderanno mai le sensazioni che sto provando.

Mi affaccio, poco prima della cima, sul versante sud-ovest. Qui la parete della montagna digrada con un angolo ripidissimo formando un pratone quasi verticale, in fondo al quale, poco meno di un chilometro più in basso, si vede un bosco di alberi minutissimi. È un colpo d’occhio incredibile, quasi varrebbe la pena di venire fin quassù solo per questo spettacolo.

Altre poche centinaia di metri, sconnessi e scomodissimi, e la strada finisce in uno slargo. Alla cima mancano alcune decine di metri e la grande croce di ferro ammicca al di là del bordo erboso del prato. Dieci anni fa, ricordo, percorsi pedalando gli ultimi metri, entusiasticamente arrancando sull’erba.

Stavolta, però, non se ne parla proprio. I molti chilometri e le diverse centinaia di metri di dislivello in più che mi sono autoinflitto partendo direttamente da casa, come pure la bici più pesante, mi hanno fiaccato oltre le aspettative. Ma a questo punto, pedalante o no, sono in cima, ed è ciò che conta.

La cima del Catria, nella mia piccola esperienza di vita, è un “unicum”, non ha confronti. Tanto ostica e difficile da raggiungere quanto spettacolare. Dirimpetto torreggia la cima gemella di Monte Acuto (1668m) alle cui spalle si scorge, molto in distanza, il Nerone (1525m). A suo modo è un po’ come essere sul tetto del mondo, mentre intorno ogni cosa pare precipitata giù in basso.

Assaporo per una buona mezz’ora queste sensazioni: il silenzio, l’altezza, la solitudine. Ed apprezzo quello che ho e che mi ha consentito di esserci e vivere la pienezza di questa esperienza: la salute fisica, la costanza, la determinazione.

Poi è il momento di tornar giù, e finalmente i diversi chili di ammortizzatori di cui è dotata la bici trovano il modo di rendersi utili. La discesa su Fonte Avellana (750m) è una furibonda ed adrenalinica cavalcata di 10km sui sassi. La bici viaggia sicura sul fondo sconnesso, a velocità sostenuta. Da parte mia devo solo ricordarmi di rallentare in corrispondenza dei tornanti, mentre forcella e carro posteriore pompano su e giù per assorbire le asperità della strada malandata.

Giunto all’eremo faccio provvista di carboidrati e mi regalo un quarto d’ora da turista, poi risalgo in sella e, dopo una breve risalita, mi butto in picchiata su Frontone (420m). Da qui in poi non c’è molto da raccontare, il pasto frugale mi ha ridato energie e le gambe tornano a girare, nel giro di un’ora o poco più, alle cinque passate, sono di nuovo a casa.

Questo era ieri. Oggi il ricordo è ancora fresco e mi basta chiudere gli occhi per riviverlo, fra un po’ mi aiuterà riguardare le foto, ma ancora più in là, ne sono certo, non potrò fare a meno di desiderare di risalire in sella e tornar su, pedalando, in cima al Catria, solo col vento, e l’erba, e il cielo sopra la testa, e tutto il mondo sotto i miei piedi… (ma raccontarlo non rende l’idea).

La colpevole ingenuità

C’è qualcosa, nella vicenda dei due cicloturisti olandesi malmenati, violentati e derubati da due pastori di origine rumena alla periferia della capitale, che ha colpito a fondo l’immaginario collettivo, scatenando reazioni opposte. Da un lato quelli che addossano la responsabilità alle istituzioni, dall’altro chi getta la croce addosso ai due "sprovveduti", col solito trito argomento che "dovevano pensarci prima/se la sono andata a cercare".

Grazie a Primo Levi ho appena fatto un ripasso delle tecniche di "colpevolizzazione delle vittime", e posso agevolmente identificare e passare oltre queste bassezze. Da ciò che leggo, quello che "turba" realmente tutti, colpevolisti ed innocentisti, è il rendersi conto che esistono davvero persone tanto "ingenue" da finire in queste tragedie. "Ma insomma", si ragiona, "possibile che non lo sapessero? Possibile che non si fossero resi conto dei rischi che correvano?"

L’appello al "buon senso" nasconde la domanda reale: "Ma in che mondo sono vissuti, fino ad oggi, questi due?" ovvero: "Possibile che esistano paesi dove accamparsi di notte in un luogo qualsiasi non sia ritenuto pericoloso?". Che dire? È possibile, anzi, possibilissimo. Ad esempio, direi non a caso, l’Olanda.

Nelle mie peregrinazioni estive in bicicletta, alla fine degli anni ’90 mi capitò appunto di effettuare un viaggio in Olanda. Dire che è "un altro mondo" è ancora un eufemismo. Si trattò di un vero e proprio "shock culturale", la scoperta di come fosse fatto ed organizzato un "paese civile". Esperienza per certi versi entusiasmante. Per altri, pensando all’Italia, profondamente umiliante.

Un dato, fra tutti, può dare il polso della differenza abissale tra le nostre due culture: in Olanda l’estensione della rete di piste e percorsi ciclabili è pari a quella per i veicoli motorizzati. Sì, avete capito bene, per ogni km di strada "per le automobili" ce n’è uno di strada "per le biciclette", con tanto di segnaletica dedicata ed una manutenzione impeccabile.

Muoversi in bici in Olanda è un’esperienza irripetibile. Lì le persone non prendono l’auto "per andare a comprare il giornale", o il latte, a cento metri dalla porta di casa. Prendono la bici. Semplice, efficiente, economica, silenziosa, salutare. Il problema, per chi questiona del "buon senso" altrui, sta nel fare i conti con l’assurdità della realtà che, nel tempo, ha imparato ad accettare.

Riesco, con un po’ di fantasia, ad immaginarmi le discussioni tra i due:
– "Non mi fido a percorrere questa strada (la Portuense), è troppo trafficata!"
– "Andiamo avanti, prima o poi troveremo una pista ciclabile"
– "Basta, sta facendo buio, fermiamoci da qualche parte"
– "Ma, sarà sicuro?"
– "Di che ti preoccupi? Siamo in Italia, mica in Africa! È Europa, questo è un paese civile!"
(… e infatti!)

La realtà, dolorosa e per molti inaccettabile, è che questo non è davvero un paese della civile Europa. Le periferie urbane sono terra di nessuno, e gli spazi agricoli extra-urbani sono in larga misura abbandonati, in attesa che qualche speculazione edilizia li cancelli del tutto sotto una colata di cemento. "Non luoghi" che i solerti cittadini attraversano distrattamente, in tutta fretta, a bordo delle proprie automobili, sempre più alienati ed isolati dalla realtà.

Rispetto a noi, olandesi e tedeschi hanno un rapporto molto diverso col proprio territorio: lo vivono. Non passano dall’aria condizionata dell’appartamento a quella dell’automobile a quella del centro commerciale, e ritorno. Escono, respirano, in bicicletta, con qualunque tempo. Vivere il territorio in cui si abita consente di apprezzarlo, fa sì che si desideri conservarlo intatto, che ci se ne prenda cura.

È l’idea latina di "res publica", "cosa pubblica" ovvero "di tutti", mentre apparentemente per noi quello che non è privato (e "privato" sottintende tacitamente che il proprietario può disporne come vuole, perfino distruggere cose che esistono da secoli, paradossalmente da ben prima della nascita del "proprietario" stesso) diventa ipso facto "res nullius", "cosa di nessuno", che può essere saccheggiata nell’indifferenza generale.

È un fatto che il numero di turisti in Italia stia calando. C’è chi pretende sia colpa "dei prezzi", oggettivamente tra i più alti d’Europa, chi della bassa qualità dei servizi, ed avendo viaggiato spesso all’estero confermo che il rapporto qualità/prezzo è in genere migliore fuori dall’Italia. Non mancano neppure i battibecchi politici che, da sponde opposte, si rinfacciano la recente campagna elettorale giocata sui temi della "sicurezza" (ed in certi casi vien proprio da affermare: "da che pulpito!").

Ed ecco qui lo "specchio del paese": una landa desolata, ipersfruttata, cementificata, recintata, inquinata, preda della criminalità organizzata, di quella disorganizzata e di micro-egoismi capillarmente diffusi. Un territorio i cui abitanti si sentono "al sicuro" solo al chiuso delle quattro mura di casa, essendo lentamente scivolati in un incubo nel quale indifferenza, ignavia e vigliaccheria hanno generato una realtà invivibile.

Dal mio punto di vista la libertà di spostarsi, per tutti, non è un tema catalogabile sotto l’etichetta "sicurezza", col suo corollario di strutture repressive, militari per le strade ed aberrazioni conseguenti, bensì attiene alla categoria "qualità della vita", e dovrebbe essere affrontata con iniziative culturali, con la pianificazione del territorio, con la gradita riscoperta del "mondo vero".

Eh, già, il "mondo vero", quella cosa che semplicemente se ne sta lì, tutt’intorno a noi. Che possiamo vedere e toccare e sperimentare. Che possiamo comprendere senza che nessuno/a per forza ce lo spieghi, ce lo racconti, ce lo inventi. Esattamente quello in cui, da sempre, ci sforziamo di non vivere. Ma in fondo chi può impedirci di comportarci da stupidi, quando al contrario sono già in tanti pronti ad approfittarne?

Ben presto il dramma dei due turisti sarà dimenticato (da noi, non altrettanto in fretta dagli olandesi tutti). In fondo abbiamo cose più importanti di cui occuparci… c’è il calciomercato, i battibecchi politici, i nuovi film "d’azione" in uscita, la collezione autunno-inverno, il lavoro, la scuola, il "caro-carburante", le chiacchiere da cortile, e soprattutto i "consigli per gli acquisti". Buon "proseguimento di serata" a tutti (anche se, a guardar bene, la notte è già fonda…).

N.b.: noto ora che Beppe Grillo ha espresso un’opinione analoga.

Sopravvivere alla memoria

Ho approfittato della tranquillità delle vacanze per metter mano a "I sommersi e i salvati", di Primo Levi, regalatomi qualche tempo addietro. A posteriori si è rivelata una scelta giusta, necessaria ad affrontare un tema, quello dei campi di concentramento nazisti, che richiede tranquillità, serenità d’animo ed abbondanti tempi di riflessione.

La scrittura di Levi è tanto formalmente scientifica, analitica e per scelta distaccata, quanto sotterraneamente coinvolta, sofferente, incredula, e riesce perfettamente a rendere l’idea, che più volte si riaffaccia tra le pagine del libro, di un "marchio indelebile" dell’anima, in tutto analogo al numero tatuato sull’avambraccio, conseguente all’esperienza del lager.

Molto più di qualsiasi narrativa fantastica "horror", che pure ho frequentato in passato, i racconti dei superstiti dei campi di concentramento sono orrore allo stato puro, tremendi e schiaccianti in quanto memorie di eventi veramente accaduti, e che in diversi angoli del mondo, in forme analoghe, continuano a ripetersi.

Quanto del successo dei mostri immaginari: zombie, vampiri, lupi mannari, mi sono domandato, discende dalla necessità di esorcizzare il mostro reale che alberga dentro di noi, o che ci vive accanto? La consapevolezza della relativa normalità dell’incubo nazista, della sua ripetibilità, ci porta inevitabilmente a guardare con diffidenza al nostro prossimo, ai nostri vicini, finanche a noi stessi.

Anche a decenni di distanza dall’esperienza della prigionia, anche con l’esigenza di elaborare ricordi sconvolgenti, Levi non cede al facile manicheismo del dividere l’umanità in "buoni" e "cattivi", ma scava nelle innumerevoli "zone grigie" in cui le vittime diventano a loro volta carnefici di altre vittime ancora più deboli, prigionieri di una realtà distorta che a richieste assurde esige risposte e reazioni altrettanto, se non più, assurde.

Ma non c’è assoluzione, e non può esserci, per i carnefici primi, solo un tentativo frustrante e di fondo impossibile, di comprensione. Occorre capire, secondo Levi, i molti perché di questa tragedia, per fare in modo che non si ripeta mai più. Perché in caso contrario noi tutti, come il mondo all’alba del ventesimo secolo, saremmo a rischio del ripetersi di un simile incubo.

Eppure, contrariamente alle risposte cercate, quello che emerge dall’acuta e sofferta analisi è, di fondo, una totale contiguità tra normalità e follia, tra fredda logica e puro delirio, tra ragionevolezza e crimine efferato. L’anomalia tanto cercata in grado di spiegare la macchina genocida tedesca non emerge, se non in mille piccoli frammenti, ognuno in sé questionabile, opinabile, moralmente indistinto.

E sorge infine il dubbio, nel lettore, di trovarsi egli stesso all’interno di un "unicum storico" segnato dalla relativa assenza di guerre, di violenza, di dolore, che questa condizione di pace in cui siamo nati e cresciuti non sia altro che un caso, una fluttuazione statistica irripetibile e non destinata a durare, una "singolarità" nella storia dell’uomo, irrimediabilmente segnata dalla crudeltà gratuita e dalla prevaricazione.

Cosa ci ha salvato, fin qui? Forse la memoria delle tragedie causate dalla seconda guerra mondiale, memoria che va scemando con il ricambio generazionale? Forse la ricchezza prodotta dal boom economico e dallo sfruttamento dei giacimenti fossili, ricchezza di cui già si intravvede il declino?

Risulta difficile, al termine della lettura, non paragonare il mondo attuale a quello pre-bellico. Troppo breve il tempo intercorso, troppo simili gli usi e costumi, troppe analogie determinate dai corsi e ricorsi storici. E, di conseguenza, non porsi la fatidica domanda: "quanto durerà?"

Forse che qualcuno/a, negli anni ’20 e ’30, poteva presagire la devastazione e l’orrore che sarebbero arrivati di lì a breve? Difficile dirlo, in assenza di precedenti. L’umanità non aveva ancora sperimentato la criminale scientificità dei campi di concentramento e di sterminio, in cui Levi individua un inquietante parallelismo con le nascenti tecniche di produzione industriale su larga scala: un’industria della morte in tutto e per tutto analoga alle neonate fabbriche per la produzione in serie.

Un anno dopo la stesura di questo saggio, più di quarant’anni dopo la sua liberazione da Auschwitz, Primo Levi si è infine suicidato. Come molti altri intellettuali ebrei scampati ai campi di sterminio, ma segnati nel profondo dell’anima da quell’esperienza rivelatasi impossibile da elaborare completamente, ha scelto l’unica forma di oblio possibile ad una mente lucida e critica.

A noi non resta che tributargli un grato riconoscimento non tanto per le sofferenze subite a causa di altri, quanto per quella che egli stesso ha scelto di infliggersi nel riviverle, testimoniarle, ragionarle anche per noi. E per questo libro, per quello che deve essergli costato scriverlo, e per aver vissuto così a lungo in un mondo, il nostro, tanto lontano dalla comprensione del dolore e della tragedia, tanto lungamente instupidito da essere ormai pronto a rituffarcisi, scelleratamente.

Rifiutare l'idea di "rifiuti"

Ugo Bardi, nel blog di ASPO-Italia, tenta un approccio originale al problema dei rifiuti, questione che negli ultimi mesi ha prodotto nel nostro paese un acceso dibattito tra fautori degli inceneritori e delle discariche da un lato, e promotori della raccolta differenziata e del riciclaggio dall’altro.

Bardi traccia un parallelo con l’antica pratica della "spigolatura" dei campi, offre diversi spunti di riflessione ma pecca, a mio parere, nel voler cercare un approccio "a valle" ad un guasto che nasce "a monte". La chiave, a mio parere, per una corretta interpretazione del problema sta nella sua osservazione che "in una civiltà contadina i rifiuti praticamente non esistono perché ogni cosa viene riutilizzata".

I "rifiuti" appaiono infatti massivamente nel corso dell’avvento della civiltà industriale, con lo sfruttamento delle riserve energetiche fossili e la produzione in serie di oggetti "di consumo". La produzione di "rifiuti" è parte integrante dell’ubriacatura energetica che stiamo vivendo e dell’insostenibilità di questo modello di sviluppo.

Dovremmo per prima cosa fare una distinzione tra rifiuti riciclabili e rifiuti non riciclabili, e quindi domandarci perché esistano rifiuti non riciclabili. La loro stessa esistenza è dovuta al bassissimo costo energetico richiesto per la produzione di merci di ogni tipo e della miope gestione delle riserve energetiche fossili imposta dal "libero mercato".

In un "ciclo perfetto" di produzione la condizione iniziale e quella finale sono indistinguibili, ed il processo può ripetersi all’infinito. In un "ciclo imperfetto" si producono scarti, rifiuti, esaurimento delle risorse, ed al termine del ciclo non è possibile iniziarne un altro.

Nel passaggio da uno sviluppo "insostenibile" come l’attuale ad un eventuale futuro sviluppo "sostenibile" occorrerà ripensare per intero l’attuale distinzione tra prodotto, confezione, sistema di trasporto ed utilizzo.

Per dire: è fattibilissimo riciclare il vetro delle bottiglie per produrre altre bottiglie, ma si tratta di un processo che a fronte di un consumo energetico produce alla fine lo stesso oggetto che avevamo in partenza, quindi andrà preferito un processo in cui l’oggetto di partenza viene riusato, anziché riciclato.

Per eliminare il problema della gestione dei contenitori usati è sufficiente seguire delle elementari accortezze, prima fra tutte smettere di considerare i contenitori come degli oggetti usa-e-getta e fare in modo di riusarne pochi indefinitamente. Invece di commercializzare bevande imbottigliate sarà sufficiente tornare a venderle sfuse, come si faceva un tempo.

Un esempio di "buona pratica" è quello che ho visto nel corso di un viaggio in Baviera, nel 2002. Nelle feste estive bavaresi (immaginate delle piccole oktoberfest) la birra era venduta ad un costo relativamente basso in "bicchieroni" di plastica per cui veniva richiesta una caparra "esorbitante" di 2€, cifra che veniva restituita alla riconsegna del contenitore. Il risultato è, a mio parere, ottimale: contenitori riconsegnati fino all’ultimo, riusati indefinitamente, zero rifiuti.

A Roma, al contrario, c’è il problema che d’estate la birra viene venduta ugualmente a fiumi, ma in bottiglie e lattine che vengono sistematicamente abbandonate, quando non spaccate lasciando cocci di vetro in giro per le strade. Un esempio di gestione idiota di una situazione del tutto analoga.

Per quanto riguarda gli imballaggi non sostituibili bisognerà prevederne in partenza una destinazione finale, che potrà anche essere un recupero energetico da combustione (anche nel caminetto di casa), evitando però di utilizzare plastiche o altro in grado di produrre residui di combustione tossici.

Ben diversa è la situazione dei "rifiuti tecnologici", dal momento che il mercato impone attualmente dei "cicli vitali" brevissimi per qualsiasi tipo di apparecchiatura, rendendole artificialmente fragili o producendone un’intenzionale accelerata obsolescenza tecnologica.

Immagino che, fra non molto, i crescenti costi causati dall’esaurimento delle riserve energetiche di origine fossile modificheranno drasticamente l’appetibilità commerciale di oggetti nati per "durare poco", in favore di apparecchiature più longeve e più facilmente riparabili.

La maggior difficoltà, in tutto il percorso sopra descritto, sta nell’accettazione popolare del cambiamento di paradigma determinato dal rientrare in un ciclo improntato alla "sostenibilità", ovvero nel convincere una fetta importante di umanità dell’eccezionalità di quanto accaduto negli ultimi decenni e della sua irripetibilità.

Una "difficoltà" che, dati gli attuali equilibri ed interessi, potrebbe anche rivelarsi insormontabile.

Stelle bruciate

Come da attesa, Urania ha pubblicato nella sua strenna estiva Millemondi Estate la traduzione dell’antologia di racconti  Year’s best SF #10 curata da D.G. Hartwell e K. Cramer. Va detto che il volume dell’anno scorso mi aveva entusiasmato molto più di quello di quest’anno, ma forse è solo una questione di aspettative. L’antologia è stata pubblicata negli USA nel 2005 e raccoglie racconti pubblicati nel 2004.

Brutto il titolo italiano ("Stelle che bruciano"… perché, le stelle possono forse fare qualcos’altro? Ma a parte questo, c’era proprio bisogno di un titolo?), brutta la copertina, con dei robot che spostano un’automobile (una Fiat 500?) da un parcheggio, e direi anche non eccezionale l’ordine dei racconti (immutato dall’originale), considerato che, a posteriori, quelli che mi sono piaciuti di meno sono tutti collocati alla fine del volume.

Non vorrei dare un’idea troppo negativa della raccolta, ma mi rimane un’impressione molto diversa da quella del volume precedente. E se da un lato dubiterei che in un anno il mio gusto personale sia cambiato poi molto, dall’altro non mi sembra plausibile che la qualità della totalità dei racconti possa aver subito un drastico declino, per cui non so giustificare quest’impressione.

Forse, però, una spiegazione c’è, e riguarda qualcosa che potrei definire la trasparenza delle strutture retoriche soggiacenti i vari racconti. Detto in parole povere comincio a nutrire un’insofferenza per le costruzioni troppo sfruttate, ed avendone letti parecchi tendo a prevedere le "svolte narrative" con largo anticipo.

Per godere davvero di un racconto occorre riuscire a sperimentare la cosiddetta "sospensione dell’incredulità". Nel caso della fantascienza è già difficile dribblare gli svarioni pseudoscientifici inseriti dagli autori delle storie (e non individuati dai compilatori delle antologie), figuriamoci se la forma narrativa è sufficientemente grossolana ed abusata da lasciar percepire, paragrafo dopo paragrafo, un lavoro di "diligente compilazione".

In questo la dimensione breve del racconto è sicuramente penalizzata rispetto a quella del romanzo, in cui la struttura più dilatata può spaziare e trasformarsi (Foer docet). Col risultato di produrre spesso "cloni" di storie in cui anche i colpi di scena finali risultano, se non del tutto prevedibili, troppo spesso insoddisfacenti.

La fabbrica del consenso

Ragionavo, poco tempo addietro, di Wikipedia e della sua capacità di rappresentare la memoria del presente. Stupisce in effetti scoprire, sfogliandone (metaforicamente) le pagine, che molto spesso il presente non ha affatto memoria. Semplicemente perché le cose che dovremmo sapere, magari anche essenziali, non ce le hanno mai dette.

Sono rimasto totalmente spiazzato pochi giorni fa nello scoprire, da una pagina di Wikipedia, il contenuto del libro di Noam Chomsky ed Edward S. Hermann  "La fabbrica del consenso" (Manufacturing Consent: the Political Economy of the Mass Media), in cui i due autori esaminano le manipolazioni operate dai mass media americani sulle notizie, giungendo a formulare una teoria complessiva che ne dimostra la natura strutturale.

L’argomento è di quelli che mi stanno a cuore, avendone già discusso qui, ma un conto è rendersi conto in via intuitiva dell’inaffidabilità dei mass media, un altro trovarla descritta e definita in una teoria sistemica, con tanto di "case study" che la confermano. Ed è preoccupante rendersi conto di non averla mai sentita menzionare prima pur seguendo con attenzione i dibatti in merito. Come dire: un’ulteriore riprova del fatto che non siamo in grado di accedere alle conoscenze di cui abbiamo bisogno.

In realtà Chomsky ed Hermann vanno ben oltre le mie pur pessimistiche intuizioni. Ribaltano l’assunto che i media, i giornali ma ancor di più la televisione, vivano di un rapporto privilegiato con il proprio "pubblico pagante", considerato fin qui (almeno da me) alla stregua del "cliente" dei loro servizi. Ebbene, non è così.

Di fatto i clienti dei giornali (e ancor di più delle tv generaliste), sono quelli che pagano per i loro servizi e gli consentono di continuare ad uscire: gli inserzionisti pubblicitari… ed il "prodotto" che viene loro "venduto" siamo noi lettori/telespettatori, ovvero la nostra attenzione per le loro pubblicità. Pubblicità che coprono per il 75% le spese di produzione e distribuzione dei giornali. Cosa volete che conti il nostro misero 25% ottenuto dal prezzo d’acquisto?

Dunque che obiettività può avere un media che deve rispondere di quanto viene pubblicato/trasmesso ai propri "veri" clienti? La risposta appare abbastanza ovvia. E senza contare tutte le altre "influenze" che un’entità commerciale deve subire, dalle pressioni derivanti dall’assetto proprietario e delle "corporations" connesse, a quelle dei fornitori di notizie, a quelle del governo.

In realtà il quadro diventa totalmente sconfortante se guardiamo al di là del semplice dato "informativo", pur gravissimo. Nel caso della tv generalista le pressioni del mercato, della politica e della proprietà (non di rado coincidenti…)  finiscono col definire praticamente tutto quello che "passa" sui nostri schermi ed entra nelle nostre case.

"Tutto" significa film, spettacoli d’intrattenimento, informazione, "fiction", cartoni animati, spettacoli umoristici… tutto significa tutto. L’intero cosiddetto "immaginario collettivo" viene quotidianamente manipolato, plasmato e ridefinito. La nostra cultura viene progressivamente sostituita da quella voluta dal mercato e dalle cordate politiche che lo rappresentano, per mano dei produttori di films e spettacoli televisivi, telegiornali compresi.

La colonizzazione culturale americana (e inglese, ed ultimamente in piccola misura giapponese) di cui tanto abbiamo teorizzato per anni ci viene finalmente descritta come sistemica e del tutto inevitabile, dato il contesto.

I programmi "di varietà" propongono un’esibizione dei corpi sempre più mercificata e prossima alla pornografia? Ovvio: gli inserzionisti pagano per questo. Siete preoccupati per la deriva violenta che stanno subendo le serie televisive? Ebbene, sono i "fornitori di contenuti" che impongono pacchetti di programmazioni obbligate (se vuoi il film di successo devi programmare, in orari di punta, anche altra "fiction" decisa dal produttore).

Se questo è il livello di controllo esercitato dai poteri politici ed economici sul nostro immaginario, sui messaggi espliciti ed impliciti che assorbiamo giorno dopo giorno, su cosa desideriamo (la ricchezza, la bellezza, il "successo"…) e su cosa ci spaventa (i "serial killer", i "terroristi", il mondo islamico…) come possiamo affermare che le nostre scelte siano davvero libere?

Eppure, contro ogni evidenza, c’è chi continua ad avallare la tesi che non esista alcun "conflitto di interessi" nel detenere sia il potere politico che la proprietà di mass media a diffusione nazionale (ed attraverso questi il controllo di più di metà del mercato pubblicitario). Ed in realtà è vero quello che è stato detto: non c’è "conflitto", ci sono solo "interessi". Di tutti, tranne che i nostri.

P.s.: Il libro di Chomsky è del 1988, ma è stato pubblicato nel nostro paese solo dieci anni dopo… L’ascesa politica di Berlusconi è storia dei primi anni ’90, ma nessuno che io ricordi, neanche tra i suoi oppositori, negli ultimi quindici anni ha mai menzionato  pubblicamente le tesi formalizzate ne "La fabbrica del Consenso" per contestarne la pretesa imparzialità.

Qualcuno/a pensa forse che si tratti solo di un caso?

…più due quarantaquattro!

Quarantaquattro anni

(in fila per tre, col resto di due)

Passati a fare danni

(in fila per tre, col resto di due)

Coi mesi allineati

(in fila per tre, col resto di… niente!)

Or siamo qui arrivati

(in fila per tre, col resto di due)

 

Cinque agosto sessantaquattro…

E so’ quarantaquattro!

 

 Vabbé, và, ridiamoci su!

La memoria del presente

L'ispirazione per questo post mi è venuta da molti diversi stimoli giunti più o meno contemporaneamente, che si sono mescolati e quindi riorganizzati in un affresco più complesso. È un ragionamento "a largo spettro", per cui mettetevi comodi perché non sarò breve.

Mi ritrovo spesso a ragionare sulla portata rivoluzionaria di internet, ed ancora più spesso sulla difficoltà di comprendere le rivoluzioni "in corso d'opera". Per gente come me, cresciuta assorbendo cultura dalla carta stampata o rubacchiando pezzi di sapere "altro" dall'offerta televisiva, un medium sterminato ed inesauribile come la "rete delle reti" rappresenta ben più di quanto sia possibile gestire, anche solo sul piano concettuale.

L'unico termine di paragone che mi viene in mente (ma internet è già un nuovo "termine di paragone" a sé) è con le vecchie enciclopedie, nelle quali i nostri genitori investirono sudati risparmi per garantirci una riserva di "sapere" buona per tutte le eventualità. Per me e mia sorella era l'Enciclopedia Universale Rizzoli-Larousse, in quindici volumi, di cui ancora ricordo a memoria la scansione delle voci dei singoli tomi (A-arvi, arvo-bracci, bracco-chiano, chianti-cultur, ecc…).

A dieci anni la cosa che più mi affascinava erano i dinosauri. Consultavo gli imponenti volumi per comprendere il motivo per cui la Terra avesse ospitato un tempo simili bestioni ed oggi non se ne trovassero più (sperando, in cuor mio, che ne saltassero fuori un po', superstiti, in qualche landa ancora inesplorata). Sfogliando le pagine patinate mi cadeva l'occhio sulle biografie di illustri sconosciuti, personaggi di un qualche spicco appartenuti ad epoche passate, con accanto riproduzioni in bianco e nero di antichi ritratti ad olio delle dimensioni di un francobollo.

Non so se mio padre (una vita di lavori manuali), dopo averla acquistata a caro prezzo per noi figli, dall'alto del suo diploma di terza media l'abbia mai anche solo una volta sfogliata per sé. Non ricordo di averlo mai visto intento a consultarla. E d'altronde mio padre preferiva leggere fumetti, adorava l'epopea del far west ed i film "di cowboys", come un vecchio ragazzo di campagna trapiantato in una città grigia, meccanica, ammaliante, caotica ed incomprensibile.

Fatto sta che conservo dentro di me il ricordo di quest'opera immane e ciclopica come una delle poche certezze della mia infanzia. Un pozzo di conoscenze astratte, sconfinato e polveroso, il cui solo peso curvava gli scaffali della libreria, Quello era il "sapere", e io non ne avrei mai posseduto più che una minima parte.

A tutt'oggi quell'opera monumentale giace, come una balena spiaggiata, in una libreria a casa dei miei genitori. Non serve più. Se ho bisogno di una qualsiasi informazione vado a cercarla in Internet, diventata ormai l'enciclopedia universale più capillare ed immediatamente accessibile mai posseduta dall'Umanità. Ma tuttavia quanto diversa dai libroni in carta patinata…

La cifra principale della differenza sta nella contemporaneità. Mentre l'antica enciclopedia cartacea era una forma di conservazione della memoria del passato, compilata da eruditi professori depositari del sapere dei secoli, l'enciclopedia moderna, Wikipedia, è frutto di un lavoro collaborativo svolto da milioni di persone, e riesce ad essere immediata e tempestiva: la memoria del presente.

Il fatto è che non ci siamo abituati. Per noi cresciuti con l'idea di un'enciclopedia aggiornata, quando andava bene, ai fatti di dieci, quindici anni prima (per cui scovare citato qualche personaggio contemporaneo era una curiosità fonte di divertimento), un'enciclopedia aggiornata in tempo reale diventa un concetto su cui la mente già fa presa a fatica.

E arriviamo a Billy Bragg, semisconosciuto (qui da noi) cantautore inglese degli anni '80, musicista atipico e personaggio di culto, da me perso e quindi ritrovato innumerevoli volte nel corso degli ultimi vent'anni. Pochi giorni fa, discutendo su un forum, mi serviva come citazione il titolo di un suo disco cui sono particolarmente affezionato, e come "arricchimento", per chi avesse voluto approfondire il tema, ho fatto una rapida ricerca su Google per trovare un link a qualcuno che ne avesse già parlato.

Detto fatto, capito sul blog TalkIsCheap (che, nonostante il nome, è italianissimo ed anche molto interessante) e ci trovo uno splendido post, che mi riporta indietro di vent'anni, all'audiocassetta registrata da un commilitone accompagnata dalla pagina strappata della recensione di "Mucchio Selvaggio", ad un paio di concerti estivi di lontane feste dell'Unità, a quel ragazzo inglese dal grande naso e dal grandissimo cuore capace di cantare per ore su un palco da solo, voce e chitarra elettrica, raccontando storie politiche e personali, di amore, lotta e libertà.

Commosso, scrivo un commento al post, ma non mi basta. Allora cerco un video su YouTube e lo trovo: il video di "Levi Stubb's Tears" (che all'epoca in Italia non era nemmeno mai arrivato).
 

Aggiungo il link al commento, ma ci sono altri video… E quindi sorge la domanda: che fine ha fatto Billy Bragg? L'ultimo suo concerto lo vidi diverse estati fa a Roma, Villa Ada, molti anni di più sul groppone, la stessa graffiante ironia, un po' di disillusione, le corde vocali strapazzate per decenni che faticavano ad arrivare fino alla fine del concerto.

Scavo un po' di più su YouTube ed esce fuori il Billy Bragg di oggi, ormai cinquantenne, il viso segnato da molte birre di troppo, l'ispirazione musicale decisamente zoppicante. Guardo quel viso e mi vedo anch'io così, invecchiato, disilluso, molti ricordi dentro la testa, gli anni forse migliori già dietro le spalle.

E colto da subitanea illuminazione lo cerco su Wikipedia (la versione inglese) ed ecco lì tutta la sua storia, l'enciclopedia compilata in tempo reale, forse da lui stesso, o da qualche dipendente della sua casa discografica, mi racconta tutta la sua vita fino a pochi mesi fa. Billy Bragg. Sull'enciclopedia.

Scavo ancora, una sua canzone fu portata al successo da Kirsty MacColl, ne so qualcosa, la vidi cantare e ballare in un leggendario concerto dei Pogues a Roma, nell'88, sapevo che era rimasta uccisa in un incidente in mare. Un click ed esce fuori tutta la storia, scomparsa a poco più di trent'anni per salvare il figlio da un motoscafo che incrociava in acque ad esso vietate. Il figlio salvo, lei morta sul colpo.

La voglio rivedere, vado di nuovo su Youtube ed eccola lì, a cantare "Fairytale of New York" nell'88, con Shane McGowan, un valzer struggente e commovente.

E Shane McGowan e la sua cirrosi epatica? Ancora Wikipedia: una storia maledetta di alcoolismo ed autodistruzione, ma fin qui ce l'ha fatta. Ora è irriconoscibile, la voce già all'epoca non splendida, ma dura e graffiante, ridotta ad un roco borbottio fuori tempo, ed anche i Pogues superstiti sembrano ormai dei vecchietti. Che tristezza.

È troppo, tutto insieme. C'era un tempo in cui i miti della gioventù, se persi per strada, svanivano semplicemente, lasciando solo il ricordo della loro grandezza. Ora non è più possibile. I fans li inseguono e raccontano cosa gli è successo, o loro stessi continuano a suonare, magari in bettole inqualificabili, e registrazioni pirata fanno il giro del mondo.

È una gran cosa, in teoria, poter disporre di tutta questa informazione. In pratica, molte cose avremmo forse preferito non saperle. Quando l'informazione era centellinata non ne avevamo mai abbastanza, ora che è pervasiva, simultanea ed a qualunque livello di competenza (le vite private degli artisti non sono esattamente una priorità culturale) rischia di farci male.

O forse siamo solo noi, nati nel mondo delle idee su carta, a non disporre ancora dei giusti anticorpi per gestire e metabolizzare la mole sconvolgente di conoscenze che le tecnologie informatiche ci mettono a disposizione. Senza filtri.