La perenne insoddisfazione rispetto allo stato del cielo notturno della penisola più ricca e sprecona d’Europa mi spinge talvolta ad esplorare soluzioni mai tentate prima. Le condizioni da ricercare sono due: località lontane da fonti d’inquinamento luminoso e quote elevate per tagliar via l’assorbimento atmosferico, che soprattutto in prossimità dell’orizzonte cancella letteralmente gli oggetti più deboli del ‘cielo profondo’.
Studia che ti ristudia, lambicca che ti rilambicca, ho individuato un sito promettente nel Rifugio Zilioli, in prossimità della cima del monte Vettore, nelle Marche: quota 2230mslm ed uno dei punti con meno inquinamento luminoso del centro Italia. Unica controindicazione, è raggiungibile solo con un sentiero da fare a piedi, due ore circa di camminata.
Il mio telescopio, per quanto trasportabile e compatto, pesa pur sempre sedici chili, aggiungetene altri cinque di accessori, mappe, luci, ecc, due o tre litri d’acqua, cibarie per la nottata ed un cambio d’abito invernale per star fuori tutta la notte a passa duemila metri di quota e diverrà evidente come non sia pensabile di affrontare l’avventura da soli.
Tuttavia la follia è una caratteristica diffusa tra gli astrofili, tanto che alla proposta lanciata su un forum di astronomia ben due altri impavidi hanno deciso di aggregarsi, rendendo l’impresa affrontabile. Detto fatto, io, Andrea e Davide ci siamo dati un appuntamento per sabato mattina a Roma, confidando di arrivar su nel primo pomeriggio e dare l’arrembaggio al massiccio con largo anticipo sull’orario delle osservazioni.
Suddiviso il carico e la strumentazione (un telescopio ed un binocolo gigante completo di cavalletto), intorno alle 16.30 iniziamo ad inerpicarci sul sentiero partendo dai 1450mslm di Forca di Presta con 15-20kg a testa di zavorra sul groppone.

L’inesperienza si palesa quasi subito, il sentiero affrontato a passo troppo baldanzoso raffredda ben presto i nostri entusiasmi, costringendoci a diverse soste nel corso delle quali ci scambiamo i rispettivi zaini. Il sistema che ho ideato per imbracare il dobson si rivela troppo rudimentale: scaricando male il peso ed impedendo alla cassa toracica di espandersi al meglio finisce col pregiudicare la corretta respirazione.

Per fortuna la cosa sembra pesare meno ad Andrea (complici anche i 25 anni di differenza rispetto al sottoscritto), che ben volentieri accetta di scambiare il suo zaino supertecnico con la mia “cassetta tracollata”. Mi carico qualche chilo in più, ma la fattura dello zaino me li fa pesare meno.
La salita dura circa due ore e mezza, e sono ore stranianti. Il paesaggio è bello da mozzare il fiato, ma non si può indulgere troppo perché bisogna guardare dove si mettono i piedi: una storta alla caviglia, a questo punto, sarebbe micidiale.
Saliamo tra l’aria che si raffredda per il progredire del pomeriggio e per l’altezza, ed il sudore dello sforzo che ci surriscalda, senza riuscire a ben gestire l’abbigliamento. L’ultima rampa è la più scoscesa e sconnessa, ma ormai il più è fatto ed approdiamo al tanto sospirato rifugio.

C’è ancora il tempo per cambiarsi, spostando il vestiario zuppo di sudore all’esterno e quello asciutto in prossimità del corpo. Ci appoggiamo nel locale di servizio del rifugio malsopportando il tanfo di urina gentilmente lasciato da qualche precedente fruitore. Io mi stendo sul tavolaccio e riesco perfino a sonnecchiare un po’.
Sul far del tramonto ci raggiunge un gruppo di quattro escursionisti di Osimo con le chiavi del rifugio (andavano prenotate in anticipo, e quando siamo arrivati alla decisione di partire ormai erano già ipotecate). Mentre loro si sistemano nel locale principale ne approfitto per montare il telescopio ed effettuare le ultime regolazioni e messe a punto.
Nel primo crepuscolo porto fuori il dob ed iniziamo ad osservare. C’è vento forte e devo schermarmi dietro alla parete del rifugio, per fortuna il sud è libero ed è la direzione più importante. Punto Saturno, e nonostante lo specchio non sia ancora perfettamente in temperatura ed il seeing un po’ traballante, valutiamo che sia abbastanza buono da proporlo ai nostri “coinquilini”.
I quattro ragazzi si mostrano interessati, ne nasce una bella chiacchierata mentre il cielo scurisce e cominciamo a puntare anche qualche nebulosa planetaria e l’immancabile ammasso globulare M13 in Ercole. Per valutare la qualità del sud punto quindi la nebulosa Laguna, che a buio ancora non completo si mostra già ricchissima di chiaroscuri grazie al filtro OIII.
Intorno alle 22.30 accade l’irreparabile: il rifugio viene avvolto da una nuvola e ci ritroviamo immersi nella nebbia. Per un po’ speriamo si tratti di un evento passeggero, ma dopo la prima mezz’ora perdo la fiducia e riporto lo strumento al chiuso. Dalla nuvola non ne usciremo più se non a piedi, la mattina successiva, a metà della discesa.
Tra l’altro uno dei ‘goal’ della missione era misurare il valore del ‘buio’ di un cielo d’alta quota per confrontarlo con quello rilevato al valico, quasi mille metri più sotto. Neanche questo è possibile perché al momento del blackout stellare manca ancora mezz’ora alla ‘notte astronomica’.
I quattro marchigiani, non oberati da strumentazione bislacca, hanno portato con sé un barbecue monouso, vino e salsicce a volontà che offrono di condividere con noi. Dopo una laboriosissima operazione di accensione, che il vento forte e l’umidità tentano vanamente di sabotare, ci consoliamo con una gustosa salsicciata.
Intorno a mezzanotte, esaurita la cena e constatato che il nebbione perdura, ci accingiamo a dormire al piano superiore, su un soppalco di legno e senza neppure i sacchi a pelo. Non che servano, abbiamo addosso imbottiture adatte a passare la notte all’esterno, ma il pavimento di legno si rivela ben poco confortevole.
Tra il sonno che va e viene esco ancora un paio di volte, all’una e mezza ed alle tre, nella speranza di scoprire il cielo stellato tanto auspicato, ma senza successo. Con l’SQM-L (Sky Quality Meter) misuro solo il buio della nebbia. Al mattino veniamo svegliati da un altro gruppo di escursionisti, partiti per vedere l’alba dalla vetta e rimasti anch’essi vittime della nebbia. Si sono accampati nello stanzino puteolente quasi sedendosi, stremati, sulla nostra strumentazione.
Valutata l’inutilità di restare (c’era l’idea di una camminata senza zaini fino alla vetta, o ai laghi di Pilato) smonto il telescopio e recupero tutta la strumentazione, rimpacchettiamo la roba negli zaini ed imbocchiamo la via del ritorno.

La discesa si rivela meno pesante della salita, ma si somma alla fatica pregressa ed al poco e scomodo sonno, il vento freddo ed umido ci sferza mentre la ghiaia rischia di farci ruzzolare. Un tornante dietro l’altro scendiamo verso il valico, stupendoci di quanto fosse in realtà lunga la strada percorsa.
Un’ora e mezza dopo siamo in macchina, sfiniti dalla stanchezza. Facciamo colazione, poi sono di nuovo 200km in macchina fino a casa, cercando di trarre il buono da un’esperienza che non ha mantenuto le promesse.
Siamo sconfitti ma non vinti, e già ragioniamo se, come e quando tornar su. Di sicuro andrà valutata meglio la situazione meteo, gestiti con più attenzione pesi e dotazioni, cibarie, vestiario ed accessori. Sarà meglio un gruppo leggermente più folto, per suddividere più adeguatamente il carico.
Negli occhi e nel cuore ci rimarrà la magia di quel rifugio solitario e impervio, sospeso sopra le nuvole, sotto un cielo che pian piano scurisce. Promessa di felicità non mantenuta, ma forse soltanto rimandata.
