Cacciatore (raccoglitore) fuori tempo

Edward S. Curtis - At the water's edge
All’ingresso di casa ho una stampa di questa foto. La didascalia riporta il nome dell’autore, Edward S. Curtis, il titolo, “At the water’s edge”, e la data, ca. 1900. Vidi questo poster tra i faldoni di una libreria, e l’immagine mi ossessionò a tal punto che acquistai la stampa, la portai a far incorniciare e la misi nel punto più simbolico della casa. Ora chi vi entra non può fare a meno di osservare questa finestra sul passato. Una sorta di biglietto da visita.

Il termine “ossessionare” non è scelto a caso. Ci sono delle persone in questa fotografia che guardano verso di me. Persone in lontananza, una lontananza incolmabile. Non solo lo specchio d’acqua che ci separa, ma una barriera formata dal tempo trascorso, da culture totalmente diverse, da un modo di vivere lontanissimo, incomprensibile ed ormai scomparso. In ultima istanza, dal confine invalicabile tra la vita e la morte.

La sensazione che mi da questa immagine è quella di essere osservato da persone che stanno oltre ogni possibilità di stabilire un contatto, nonostante il mio desiderio di varcare quella soglia immaginaria e trovarmi lì, sulla riva del fiume, per comprendere chi io sia, e chi io non sia. Fra le molte immagini che potessi scegliere, la mia scelta è caduta su questa. A lungo non ho saputo spiegarmi il perché.

Comincerò allora col raccontarvi di un puzzle in cui il pezzo centrale è capovolto. Essendo capovolto gli altri pezzi non vi si incastrano. Serve qualcuno che comprenda il problema e capovolga il pezzo chiave, per fare in modo che ogni altro pezzo trovi una sua giusta collocazione. La persona che ha ribaltato questo pezzo chiave, nel mio caso, è stata Jared Diamond.

Il pezzo chiave è qui rappresentato dalla collocazione dell’uomo contemporaneo all’interno del suo contesto storico/geografico. Si capirà quindi come non sia un problema secondario maneggiare un oggetto tanto articolato, e come non sia semplice rendersi conto del fatto che si trovi capovolto.

Il problema principale nasce dal fatto che l’uomo, inteso come ogni forma di cultura e civiltà della storia, ha sempre mirato ad esaltare se stesso ed il proprio ruolo nell’Universo. Già nella Genesi si pone al vertice della creazione, non diversamente da tutte le mitologie e teologie precedenti e successive. L’uomo come apoteosi del creato, dominatore del mondo, prediletto dagli dei.

In realtà tutto questo è una mera proiezione del nostro innato bisogno di grandezza, un tratto psicologico fondamentale nella lotta per la sopravvivenza, ma in grado di farci commettere grossolani errori di valutazione. Siccome la storia la raccontano sempre i vincitori, ed i vincitori esaltano le proprie vittorie ed i mezzi grazie ai quali le hanno conseguite, il risultato è che siamo cresciuti immersi in un’idea di “progresso” altamente artefatta.

Il primo passo che fa Diamond per sovvertire questa visione del mondo è la mera constatazione che il popolo degli agricoltori/allevatori, l’umanità che ha conquistato e soggiogato il mondo, non presenta caratteristiche fisiche o mentali di eccellenza rispetto ai cacciatori/raccoglitori (da sempre definiti selvaggi), ma anzi ne rappresenta, evolutivamente, un passo indietro.

L’accesso ad ingenti fonti di cibo consentito dall’agricoltura e dall’allevamento, protratto per millenni, si è tradotto in un impoverimento del pool genetico umano, impercettibile poiché largamente compensato, in termini di sopravvivenza e capacità bellica, dalla cultura e dalla tecnologia che in seno a queste società si sono sviluppate.

Per millenni la principale, se non unica, discriminante per la riproduzione degli individui nelle società agricole è stata la resistenza biologica alle malattie infettive, caratteristica che ha spesso soppiantato l’acutezza dei sensi, la capacità di attenzione, la prontezza di riflessi, la prestanza fisica e, in molti casi, l’intelligenza stessa.

In sostanza l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento ha innescato un processo di trasformazione antropologica di portata tale da sovvertire le priorità evolutive che nei millenni hanno concorso nel fare dell’homo sapiens la specie che conosciamo (ed alla quale apparteniamo).

Devo dire, in tutta sincerità, che la tesi dell’umanità lanciata verso il progresso è stata una delle poche certezze che ho da sempre nutrito. Da persona intellettualmente brillante e fisicamente sana mi sentivo parte di quella spinta propulsiva verso un radioso futuro, idea che fin da ragazzo mi ha accompagnato.

Oggi non più: Jared Diamond ha ribaltato il paradigma e finalmente mi rendo conto che le caratteristiche che fin qui ho attribuito all’evoluzione sono in realtà un retaggio di tempi passati.

Cos’era il mio andare in giro solitario degli anni giovanili, armato solo di macchina fotografica e della mia attenzione, se non una trasposizione in chiave moderna della vita di un cacciatore/raccoglitore?

Cos’è la mia passione per gli spazi sconfinati, che ha come apice il viaggio in bicicletta, se non un’aspirazione a quella libertà anarchica che la società massificata mi nega?

Cos’è la mia fatica ad accettare i rituali collettivi, l’omologazione, le mode, l’appiattimento sui modelli socialmente condivisi se non il retaggio di una condizione ancestrale, meno artificiosa e più a contatto con la natura?

Pensavo di essere un uomo del futuro, invece sono un uomo del passato. Un cacciatore/raccoglitore piovuto fuori dal suo tempo, in una modernità che mette a disagio, obbligato a convivere con un’umanità che non comprendo.

E’ come se, mentre procedeva a domesticare le altre specie animali e vegetali, l’essere umano abbia esso stesso subito un processo di domesticazione, finendo col condividere la sorte di quegli animali che, sottoposti alle sue spesso poco amorevoli cure ed incroci selettivi, non sono ormai più in grado di sopravvivere allo stato selvatico.

Questo spiegherebbe la riluttanza di molti rispetto agli spazi aperti, l’ansia che si prova trovandosi a vivere fuori da “scatole” e recinti più o meno complessi (case, automobili, centri commerciali), l’istinto gregario diffuso, la fascinazione collettiva per l’osservazione passiva di attività altrui (lo sport): tutti riflessi della domesticazione subita dalla nostra stessa specie.

Dove ci sta portando questo processo? La visione più raccapricciante, distopica ed estrema ce la fornisce lo scrittore di fantascienza Frank Herbert nel suo romanzo “L’alveare di Hellstrom” (in alcune edizioni italiane pubblicato col titolo: “Progetto 40”).

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Nel racconto, un eccentrico ex-scienziato (Hellstrom) vive da lunghi anni in una fattoria isolata da tutto e da tutti. Quando alcuni agenti si mettono ad indagare, scoprono una realtà oltre ogni immaginazione. L’ex-scienziato ha continuato a lavorare sul genoma umano producendo l’equivalente antropologico di un nido di api, o formiche. Esseri subumani ammassati sottoterra a centinaia in un intrico di gallerie, divisi in classi tra riproduttori ed individui specializzati, guerrieri fortissimi ed asessuati, operai semidementi.

L’aspetto terrificante della vicenda è che l’abbrutita comunità dell’alveare risulta essere molto più letale, agguerrita e reattiva della normale umanità, rappresentandone, nell’idea di Hellstrom, un inevitabile e necessario superamento evolutivo.

Ecco la chiave di lettura metaforica più terribile del processo che chiamiamo modernità: l’avanzata dell’uomo massificato, cieco ed inarrestabile, che tutto schiaccia e travolge, avendo ormai perduto le proprie radici ed il senso profondo del proprio rapporto col mondo.

Armi, acciaio, malattie ed il dominio sul mondo

Molti, moltissimi anni fa, mi capitò per le mani un volumetto dello scrittore di fantascienza Alfred E. Van Vogt intitolato Crociera nell’infinito (il cui titolo originale, “The voyage of the space Beagle”, esplicita l’ispirazione al “Viaggio di un naturalista intorno al mondo” di Charles Darwin).

Nel volume si immagina una enorme astronave esplorativa popolata di centinaia di scienziati specialisti delle diverse discipline, più un singolo portavoce di una disciplina nuova, il “connettivismo”, la cui funzione è di ricercare un approccio multidisciplinare alla conoscenza. Quest’idea di una forma di sapere in grado di inglobare e relazionare competenze diverse mi affascinò a lungo, e probabilmente modellò il mio approccio all’idea di sapere.

A distanza di molto tempo ho trovato qualcuno che ha realmente tentato di applicare un metodo analogo nientemeno che alla storia dell’umanità. Sullo slancio datomi da L’origine delle specie di Darwin ho, nei giorni scorsi, letteralmente divorato Armi, acciaio e malattie, di Jared Diamond, dove con la stessa, multidisciplinare, impostazione di fondo si analizza l’evoluzione delle società umane. La pagina su Wikipedia ne offre un valido sunto.

Diamond

Diamond applica i criteri dell’evoluzionismo darwiniano alle società umane, descrivendone l’evoluzione complessiva su un arco temporale di decine di millenni: la diffusione al di fuori dell’Africa, la conquista di tutte le terre emerse, l’invenzione dell’agricoltura, la stanzialità, la nascita delle civiltà, quindi la diffusione delle civiltà, in ondate successive. Nel farlo riscrive la storia del mondo non già dalla prospettiva estemporanea dei conquistatori, ma da quella dell’antropologo che osserva col necessario distacco un processo in corso da millenni.

Insomma, un testo a suo modo sconvolgente e spiazzante, che fa tabula rasa delle tesi razziste e del suprematismo bianco schiacciandole sotto una mole di evidenze sterminata e multidisciplinare, ed arrivando addirittura a rovesciare l’assunto per cui le civiltà rappresentino un’evoluzione della specie umana, dimostrando nei fatti come sedentarietà ed abbondanza abbiano pressoché invertito i meccanismi naturali che hanno portato alla comparsa ed allo sviluppo dell’homo sapiens sapiens.

La supremazia delle società moderne sui popoli di cacciatori/raccoglitori non è data da vantaggi fisici o intellettuali, bensì dalle armi, dall’acciaio e dalle malattie che si sviluppano (e vengono localmente metabolizzate) nelle città affollate ed a stretto contatto con gli animali. Il cacciatore/raccoglitore sopravvive grazie alla prestanza fisica, all’intelligenza ed alle proprie abilità, laddove per la sopravvivenza dell’allevatore/coltivatore contano molto di più la resistenza alle malattie e l’inserimento in un contesto sociale.

Anche i luoghi dove queste forme di organizzazione umana hanno maggior probabilità di svilupparsi non sono uniformemente distribuiti. Come già intuito da Charles Darwin per l’evoluzione delle specie animali, un continente esteso e disposto orizzontalmente lungo una fascia a clima temperato sarà enormemente avvantaggiato in termini di competizione, varietà di forme viventi e possibilità di diffusione di popoli, idee ed invenzioni rispetto ad uno più piccolo (Africa sub-sahariana), isolato (Australia), con climi estremi e/o con una disposizione nord-sud con aree climatiche radicalmente dissimili (Americhe).

N.b.: segnalo, per approfondimenti, l’articolo di Luca e Francesco Cavalli-Sforza, ad oggi pubblicato come introduzione al volume e che ne riassume efficacemente la complessità di contenuti ed argomentazioni. Servirà per seguire meglio le tesi che svilupperò nel prossimo post.

La terra svuotata

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Seguo le analisi di Ugo Bardi sull’esaurimento del petrolio e delle risorse fossili ormai da anni, prima sul sito/blog di ASPO-Italia (l’Associazione per lo Studio del “Peak-Oil”), poi, in tempi più recenti, sul suo blog personale “Effetto Cassandra”. Non mi aspettavo quindi da questo suo saggio rivelazioni sconvolgenti.

Ciononostante ne consiglio la lettura, perché condensa in relativamente poche pagine ed in una forma chiara e facilmente fruibile tutta una serie di nodi che verranno al pettine nei prossimi anni, relativi al progressivo esaurimento dell’accesso a basso costo alle risorse fossili.

Nulla finirà dall’oggi al domani, questo è ovvio, ma tutto continuerà ad aumentare di costo, a causa dei due fenomeni concomitanti dell’aumento dei costi energetici (il petrolio che viene estratto oggi ha una resa totale più bassa rispetto a quello estratto negli anni passati) e del progressivo esaurimento delle vene di minerale più abbondanti. Quindi materiali più costosi da estrarre e lavorare con in aggiunta costi crescenti dell’energia per effettuare tali operazioni.

Bardi parte dall’analisi di un’enorme mole di fatti e situazioni per arrivare, negli ultimi capitoli ad una spiegazione del fenomeno dell’esaurimento delle risorse basata sul modello matematico detto di Lotka-Volterra, dal nome dei due ideatori (ne trovate una breve descrizione in fondo a questo post), suggerendo che la teoria elaborata da Marion King Hubbert per descrivere l’andamento della produzione petrolifera non ne sia che un caso semplificato.

L’analisi di Bardi non lascia molto spazio all’ottimismo, viviamo in un mondo di risorse finite, le cui dinamiche di sfruttamento sono discretamente prevedibili. In pratica abbiamo allegramente sperperato quello che per milioni di anni era stato sepolto sotto il suolo: risorse non rinnovabili destinate all’esaurimento.

Nel migliore dei casi saremo in grado di dar vita ad un’economia di sostentamento (la cosiddetta “decrescita felice”, un sentiero molto stretto circondato da strapiombi), nel peggiore ci aspettano povertà, fame, guerre e carestie. Non chiedetemi di scommettere su quale dei due ritenga più probabile.

Bardi chiude il suo saggio con un esempio felice: il Giappone del Periodo Edo, a cavallo tra diciassettesimo e diciannovesimo secolo. Un paese isolato dal resto del mondo, quasi privo di eserciti, autosufficiente ed in equilibrio con le risorse rinnovabili di cui disponeva.

Un’epoca d’oro (o di stasi, a seconda dei punti di vista…) terminata a causa dell’espansionismo commerciale e militare degli Stati Uniti e della propria stessa inferiorità tecnologica. Personalmente lo definirei un ennesimo esempio (se ancora ce ne fosse bisogno) di quello che ebbi a definire come “Paradosso Maori”:

“…La lezione che si trae da questa storia è dolorosa ma necessaria: non si può pensare di costruire un’utopia localizzata ignorando quanto accade intorno a noi. L’utopia deve essere globale e diffusa, ed anche così il rischio di produrre una cultura debole e facilmente aggredibile (dall’interno, non solo dall’esterno) resta elevato. Pensare di ridurre il proprio orizzonte a scelte individuali o ristrette a piccole comunità è semplicistico e, alla prova dei fatti, inefficace…”