3 – Dai Bias cognitivi ai Bias Culturali

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

La socializzazione dei meccanismi di inganno amplifica la Volontà individuale e la traduce in Volontà collettiva
Una Volontà socialmente amplificata è in grado di generare (estrarre) Ricchezza per gli esseri umani a spese della biosfera

Estendendo alla sfera sociale le considerazioni fin qui sviluppate, osserviamo come i Bias Cognitivi individuali trovino un rinforzo se condivisi con altri membri del proprio gruppo. Una convinzione irrazionale, se collettivamente condivisa, risulta consolidata nella sua funzione di sostituirsi ad una realtà oggettiva.

Dalla condivisione dei Bias Cognitivi e dalla loro elaborazione collettiva si sviluppano narrazioni utili a cementare le relazioni sociali, costrutti culturali che tendono a propagarsi alle generazioni successive. Nella loro forma più semplice si tratta di gesti apotropaici, o propiziatori, di convinzioni condivise da piccoli gruppi sul momento migliore per effettuare specifiche operazioni, come la semina.

Col tempo queste convinzioni si consolidano dando luogo a quelli che ho definito, in mancanza di termini preesistenti, Bias Culturali. I Bias culturali si propagano attraverso ‘meme’ e forme proverbiali, e lentamente si accumulano nella cultura condivisa, in genere rafforzandosi a vicenda sulla base delle rispettive affinità.

A titolo di esempio, un Bias Cognitivo classico riguarda la convinzione che la ‘fortuna’, ovvero l’esito positivo desiderato di un determinato processo, possa essere influenzata da gesti propiziatori. La forma che assumono questi gesti propiziatori varia da cultura a cultura, ed è il prototipo dell’idea di Bias Culturale.

In alcune culture si tratta di indossare (o evitare di indossare) determinati indumenti o colori, effettuare gesti rituali (dal minimalista gettare il sale dietro la schiena, su su fino ai sacrifici di animali, o esseri umani), o recitare formule scaramantiche, più o meno accompagnate da gesti specifici.

Esempi di Bias Culturali appaiono in ogni cultura umana conosciuta. Si va dall’ossessione dei popoli preistorici per la fertilità e la morte, culminati nella cultura dell’antico Egitto, con tutto il suo corollario di riti propiziatori, tecniche di imbalsamazione e monumenti funebri, ai sacrifici umani nelle civiltà mesoamericane, alla celebrazione megalitica degli antenati sul più remoto ed isolato fazzoletto di terra del pianeta, l’isola di Pasqua.

Nessuna di queste convinzioni può essere giudicata, a posteriori, utile o efficace rispetto alle esigenze pratiche: benessere, sopravvivenza e riproduzione, ma tutte hanno in comune una funzione di collante sociale, incarnando i desideri e le aspettative dei diversi popoli e fornendo loro una spinta propulsiva, in mancanza della quale si registra una stagnazione sociale.

Il principio che se ne può dedurre è che, laddove ci si trovi di fronte all’assenza di evidenze fattuali, o all’impossibilità di applicare un ‘principio di causa-effetto’, si apre lo spazio per l’emergere di tesi e supposizioni infondate.

In assenza di una specifica metodologia di validazione oggettiva della realtà, il cosiddetto ‘Metodo Scientifico’ (peraltro sviluppatosi ed affermatosi solo in epoche relativamente recenti), tendiamo ad integrare la porzione di realtà mancante con una narrazione di fantasia, che viene quindi socialmente condivisa.

Un costrutto culturale irrazionale come quelli fin qui descritti svolge sia una funzione tranquillizzante (dalla consapevolezza del valore del sapere discende la paura di non sapere abbastanza) che una spinta motivazionale, derivante dal rimuovere i freni inibitori innescati dalla consapevolezza delle conseguenze di quanto si intende fare.

Il vantaggio di ciò, in termini sociali, è evidente: i tempi decisionali vengono abbreviati, si fa quello che si è deciso di fare senza troppe analisi e discussioni. Questo sistema presta il fianco a decisioni arbitrarie, non di rado errate. Ma a giudicare l’efficacia del processo sono i risultati finali, non le ipotesi di partenza, ed il giudizio può variare a seconda del momento storico in cui viene emesso.

Possiamo pensare che una società analitica e riflessiva sia migliore di una frenetica ed impulsiva, perché in grado di attingere alle risorse ambientali in maniera più graduale, consentendo alle specie predate il tempo di ristabilire l’equilibrio. Tuttavia, in Natura, in presenza di abbondanti risorse, è in genere la specie più energivora ad avere il sopravvento, perché saccheggiando con maggiore efficacia priva le altre di quanto necessario al sostentamento.

Anche in termini di Civiltà, quelle con un approccio più aggressivo riescono in genere a sottomettere e cancellare le civiltà più fragili, indipendentemente dal fatto che questo ottenga solo di posticipare un collasso inevitabile. Quando una cultura pacifica e rispettosa del proprio ecosistema ne incontra una predatrice, è solo l’esito finale a sancire la validità dell’approccio scelto.

L’esempio più evidente è probabilmente quello dell’invasione del Nord America da parte dei popoli del ‘Vecchio Mondo’. Da un lato troviamo culture sostanzialmente stabili ed in equilibrio con le risorse disponibili (per una civiltà dell’età della pietra), dall’altro popoli con alle spalle secoli di aggressività e conflitti, che hanno spinto uno sviluppo tecnologico accelerato, generando al contempo sovrappopolazione ed esaurimento delle risorse.

Potremmo apprezzare le civiltà del Nord America per il raggiungimento (faticoso) di un equilibrio stabile con l’ambiente naturale, se non fosse che il ristagno culturale e scientifico ha finito col rendere quelle culture inermi di fronte all’aggressione di popolazioni più conflittuali, arroganti, aggressive e tecnologicamente evolute, decretandone la quasi scomparsa.

Come già detto, i processi biologici, ivi inclusa l’ascesa di specie invasive come quella di cui facciamo parte, non rispondono ad esigenze etiche e/o morali: si sviluppano e basta. Quello che è premiante nel breve termine può risultare letale su una dimensione temporale più estesa, ma il saperlo o meno difficilmente riesce ad influenzare processi che si sviluppano in tempi più lunghi dell’arco vitale dei singoli individui.

Convinzioni irrazionali portano a condotte irrazionali, che tuttavia sono spesso premianti sul medio termine il che, ragionando di civiltà, può ben coprire un arco temporale di secoli. La storia umana è costellata di esempi di civiltà che hanno sviluppato un approccio tecnologicamente aggressivo, hanno dato vita ad imperi e sono quindi scomparse con l’esaurirsi anzitempo delle risorse predate (un portato dello sfruttamento eccessivo consentito dai processi tecnologici innovativi).

Nel successivo approfondimento vedremo come i Bias Culturali finiscono col generare ‘Processi di Inganno’ che, in ultima analisi, trovano formalizzazione nei costrutti culturali che definiamo col termine ‘Ideologie’.

Competizione, cooperazione e inganno (premessa)

Anni fa mi imbattei , per quanto impropriamente (in un romanzo di fantascienza, “Terra”, di David Brin [1], di cui ho già trattato in passato [2]), nel modello del dualismo tra cooperazione e competizione, due modalità comportamentali contrapposte in grado di plasmare i processi evolutivi. Una descrizione delle dinamiche relazionali che trovai molto semplice ed elegante.

In estrema sintesi, gli esseri capaci di comportamenti sociali tendono a riunirsi in gruppi, al cui interno si sviluppano due dinamiche contrapposte: cooperazione e competizione. Gli individui tendono a cooperare con gli altri per soddisfare le proprie necessità (cibo, sicurezza, difesa dei cuccioli, ecc…), e contemporaneamente a competere per ottenere il massimo di quanto realizzato/raccolto.

L’equilibrio tra queste due pulsioni contrapposte garantisce l’efficacia del gruppo nella sua dimensione sovra-individuale. Un eccesso di competizione tra i membri danneggia la coesione e la capacità di agire in maniera concertata, un eccesso di cooperazione indebolisce fisicamente i singoli individui, ed in prospettiva l’intera comunità. Il dualismo cooperazione/competizione rappresenta modello semplice ed elegante, in grado di descrivere correttamente un ampio ventaglio di situazioni.

Purtroppo, per citare Henry Louis Mencken: “per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice, verosimile e sbagliata” [3]. Ci ho messo parecchio a stabilire che, a differenza di quanto accade nella quasi totalità del regno animale, nelle azioni umane è presente un terzo comportamento, intermedio tra i due indicati, che etichetterò semplicemente come ‘inganno’. È davvero sorprendente constatare che il semplice individuarlo mi abbia richiesto così tanto tempo.

Uno dei motivi capaci di offuscare il giudizio è lo stigma sociale normalmente riservato ai comportamenti ingannevoli, che vengono culturalmente letti come modalità relazionali improprie, devianti ed asociali. Nondimeno l’inganno è praticato presso ogni cultura, in varie forme e modalità, ed è altrettanto universalmente diffuso, al punto da essere coinvolto in una fetta importante dei reati codificati.

Il punto, qui, non è tanto accettare l’esistenza di comportamenti ingannevoli, che sarebbe un po’ la scoperta dell’acqua calda, quanto metterli a sistema in un quadro interpretativo allargato, non più limitato alle modalità di cooperazione e competizione classicamente osservabili nel regno animale, dove le forme di inganno (mimetismo difensivo e di predazione) sono semplicemente effetto dei processi di selezione naturale, non già il prodotto di una volontà esplicita.

Non l’inganno occasionale, furtivo, opportunistico, ma l’inganno come motore sistemico di molte delle dinamiche che normalmente osserviamo svolgersi davanti ai nostri occhi. L’inganno come strumento di manipolazione collettiva operata dalle IdeoCulture nella competizione per l’egemonia precedentemente descritta [4].

L’analisi si preannuncia fin da ora lunga e complessa, e non so prevedere di preciso dove andrà a parare. Ridefinire un modello interpretativo basato su due soli fattori, relativamente semplici e lineari (cooperazione e competizione), in modo da includere una terza modalità comportamentale (l’inganno) capace di rendere sfumati e indefiniti i contorni delle azioni osservate, potrebbe rappresentare una sfida intellettuale superiore alle mie capacità.

(continua)


[1] – Terra (romanzo di David Brin)

[2] – Libertà

[3] – Henry Louis Mencken

[4] – L’ascesa delle IdeoCulture

La storia dell’umanità alla luce del processo di auto-domesticazione

Quando qualcosa non mi torna, sono solito pensare che la sto osservando da una prospettiva sbagliata. Quindi cerco di cambiare prospettiva, per vedere se i meccanismi di causa-effetto agiscono in termini diversi. lo scoglio principale, come ho riscontrato nel corso degli anni, riguarda quelli che ho definito ‘bias culturali’, ovvero abitudini di pensare ed interpretare la realtà che acquisiamo dalla nostra cultura, e che rappresentano delle forzanti capaci di farci fraintendere quasi ogni cosa.

Ad esempio, tempo fa mi sono ritrovato a proporre la seguente, solo apparentemente paradossale, affermazione: “l’idea che, coi nostri comportamenti, stiamo distruggendo la vita sul pianeta è comprensibile anche ai bambini. Non è evidente, tuttavia, agli adulti. Questo perché è solo crescendo che si impara a non capire”.

Crescendo si impara a non capire’ è l’esatta sintesi del concetto di bias culturale: le nozioni che acquisiamo, i modi di pensare che la scuola e la società ci inculcano, molto spesso finiscono col renderci incapaci di vedere la semplicità dei fatti reali, incastrandoli e trasfigurandoli all’interno di ideologie delle quali, in genere, non siamo minimamente consapevoli, perché non le percepiamo come tali.

Da dove hanno origine le ideologie? La risposta che mi sono dato fin qui è che discendono in linea diretta dall’utilizzo che facciamo del nostro cervello altamente evoluto. Nel momento in cui la specie Homo inizia ad utilizzare le idee alla stesso modo in cui utilizza i propri strumenti, ovvero quando il ragionamento astratto diventa un utensile capace di operare sulla realtà e facilitare la sopravvivenza di individui e gruppi, blocchi di idee si amalgamano necessariamente in strutture complesse ed interrelate: le ideologie.

Un esempio di ideologie che si sono dimostrate efficaci per garantire il successo dei primi gruppi umani sono le credenze religiose. Da un lato l’idea di una vita dopo la morte risulta utile e funzionale alla sopravvivenza di singoli e gruppi, dall’altro, l’assenza di evidenze fattuali obbliga a costruire ragionamenti astratti a supporto di tali tesi, mediante l’elaborazione di edifici di credenze tipicamente molto complessi, che non di rado prendono la forma di culti misterici, in cui le ‘verità finali’ sono appannaggio di una ristretta casta di sacerdoti che non le condividono con la massa dei fedeli.

Le ideologie, pur assolvendo ad un compito essenziale per la sopravvivenza umana, sono tipicamente intrise di bias culturali, perché veicolano modelli comportamentali strettamente legati al momento storico ed alla cultura dalla quale sono state formulate, avendo tra le funzioni primarie la stabilizzazione della cultura stessa, ed il porre un freno ad ulteriori trasformazioni.

Per comprendere l’influenza delle ideologie sullo sviluppo della nostra specie dobbiamo tornare indietro, all’alba dei tempi, e rileggere tutta la nostra storia alla luce del concetto di auto-domesticazione, che solo di recente ho cominciato a padroneggiare.

La domesticazione è un processo per mezzo del quale gli appartenenti ad una specie selvatica vengono costretti in cattività e limitati nella loro libertà in cambio di cibo e comfort vari (sicurezza, protezione dalle intemperie). Normalmente siamo abituati a pensare che la domesticazione sia stata praticata dalla specie Homo nei confronti di varietà animali e vegetali che utilizziamo per la nostra alimentazione, per la produzione di cibo e tessuti e per il lavoro.

Di fatto, però, l’intero percorso storico che siamo soliti definire ‘progresso’ può essere descritto come un processo di auto-domesticazione umana, nel corso del quale la nostra specie ha spontaneamente rinunciato alla vita selvatica, nomade, ed a parte delle libertà che questa consentiva, in cambio di maggior cibo, comfort e sicurezza.

L’uomo domestico, quello che siamo soliti definire ‘moderno’, emerge a partire dall’invenzione dell’agricoltura (domesticazione di specie vegetali), processo che, a fronte di una disponibilità più continua di cibo, obbliga alla stanzialità e porta alla costruzione di abitazioni che col tempo si trasformano in villaggi e città. La trasformazione procede con lo sviluppo dell’allevamento (domesticazione di specie animali), quindi dello sfruttamento dell’energia animale a fini agricoli (aratura), che da ultimo consente ai nostri predecessori di esportare le tecniche agricole al di fuori dei delta fluviali, dove la fertilità era garantita dalle esondazioni annuali dei fiumi (Nilo, Tigri ed Eufrate, Indo e Huang Ho).

Ci sono evidenti parallelismi tra la domesticazione animale e l’auto-domesticazione umana. La crescita numerica delle popolazioni dei primi villaggi e delle prime città favorì l’evolversi di strutture gerarchiche: sistemi sociali in cui gli individui più intelligenti e determinati occupavano i vertici decisionali, quelli più versati nell’esercizio della violenza si occupavano di mantenere l’ordine e di combattere le guerre, e tutti gli altri praticavano un ventaglio di lavori, manuali ed intellettuali, che si è ulteriormente diversificato nel corso del tempo.

In buona sostanza, lo stesso trattamento riservato dalla nostra specie ad animali e vegetali è stato riprodotto sulla scala delle società umane, con una grande fetta della popolazione asservita al lavoro manuale, ed una piccola élite occupata a governarla, sfruttando la manodopera militare. Un’organizzazione piramidale del tutto analoga (e spero che nessuno si offenda per il parallelo) a quella che legava insieme il pastore, i cani ed il gregge. Questa strutturazione, nelle società antiche, è risultata vincente grazie all’efficacia nel garantire ricchezza e benessere ai popoli che la adottavano.

Le dimensioni delle società umane sono andate aumentando nel tempo. Dalle prime città stato sumere si è passati agli imperi, in un processo che ha visto le città più efficienti nel produrre ricchezza e nell’accrescere la propria popolazione, sconfiggere ed asservire le proprie concorrenti. Un semplice meccanismo che, proiettato su un arco temporale di millenni, ha finito col dar vita al mondo contemporaneo.

Nel tempo si sono resi necessari degli aggiustamenti, man mano che la crescita di scala e complessità delle società umane cominciava ad evidenziare i limiti dell’originale, rudimentale, strutturazione. Il problema principale da gestire, nelle forme di governo dell’antichità, discendeva dalle discontinuità causate dalla variabilità genetica indotta dalla riproduzione sessuata.

Ogni re, generale o conquistatore, al termine della propria vita, aspirava a consegnare la macchina statale alla propria discendenza. Le leggi della genetica, tuttavia, non consentono di trasmettere intatte le proprie capacità intellettuali alla prole. Il risultato era che a re molto capaci e brillanti potevano succedere principi molto meno versati nell’arte del governo, col relativo seguito di errori, insuccessi, sconfitte, insoddisfazione diffusa, rivolte e guerre civili fra le diverse fazioni.

Nel lontano passato, ed in alcune culture, una parziale soluzione consisté nella poligamia: il re, sovrano o imperatore disponeva di numerose concubine, che gli fornivano una prole abbondante all’interno della quale poteva essere selezionato il discendente più adatto a dare continuità all’azione di governo. Anche questa soluzione presentava svantaggi, poiché tra la numerosa prole ‘regale’ potevano annidarsi altri pretendenti altrettanto capaci e determinati del ‘prescelto’, e trovare supporto in trame di corte per sostituire il regnante designato.

Ciò era ulteriormente complicato dall’assenza di un reale meccanismo di ascesa sociale, che impediva di fatto agli individui più brillanti generati dalle classi inferiori di aspirare a ruoli di potere. Sul lungo termine questo finiva col produrre strutture statali in cui il ristagno genetico delle élite dominanti causava una perdita di efficienza della funzione di governo, e prestava il fianco a rivolte o prese di potere da parte dei comandanti militari, potendo l’esercito ancora rappresentare quell’ascensore sociale capace di consentire ad individui particolarmente brillanti l’accesso a posizioni di comando.

Ma la trasformazione più significativa avviene attraverso la sostituzione del potere militare con quello economico, ovvero con la nascita di imprese su scala sovranazionale (multinazionali) in cooperazione/competizione tra loro. L’inizio di questo processo coincide con la rivoluzione industriale e segna l’inizio del declino delle forme di governo antiche, basate sull’appartenenza ad una casta nobiliare.

L’impresa capitalista è il nuovo soggetto in grado di distribuire ricchezza e benessere alle popolazioni, e si trova ben presto in competizione, per la gestione delle masse operaie, con le forme di governo classiche. Le due guerre mondiali del ventesimo secolo sono il momento in cui l’umanità realizza l’incompatibilità tra le tradizionali strutture gerarchiche e la capacità distruttiva della civiltà industriale.

Le imprese capitaliste di diversi stati europei vedono dapprima nella guerra la possibilità di massimizzare i propri guadagni, ma la faccenda gli si rivolta contro quando i ‘grandi dittatori’ trascinano le nazioni dell’Europa centrale in una distruzione mai vista prima. Al termine della seconda guerra mondiale appare evidente il fatto che occorra impedire ai singoli individui di possedere il potere di governare intere nazioni, e si provvede a sostituire, a re e dittatori, forme di democrazia più o meno controllate ed addomesticate.

Nel nuovo assetto, il potere è diversamente distribuito. Il controllo delle corporations è in mano non più a singoli ma ad oligarchie (i consigli d’amministrazione) i cui membri vengono in buona parte selezionati in base a criteri meritocratici. Il terreno di confronto si sposta dal piano militare a quello dell’innovazione, della qualità di prodotto e della capacità di influenzare pensieri e gusti delle popolazioni per mezzo dei mass media.

Per quanto riguarda la sfera politica, il succedersi di tornate elettorali, nelle quali i finanziamenti privati influenzano fortemente sia la visibilità che le probabilità di successo dei candidati, garantisce al potere economico una forte capacità manipolativa, atta ad impedire ulteriori escalations distruttive, o un sovverimento del meccanismo.

Più o meno in ogni epoca (la più antica che mi sovviene riguarda l’avvento del cristianesimo, la più recente il marxismo) intellettuali e filosofi, insoddisfatti della stratificazione sociale, che sacrifica larga parte della popolazione, si impegnano per formulare nuove elaborazioni teoriche (di fatto ulteriori ideologie), orientate a realizzare una diversa organizzazione della struttura sociale. Nella maggior parte dei casi questi tentativi ottengono soltanto di realizzare una riproposizione, con differenze minime, della medesima organizzazione di base.

Se definiamo la domesticazione come un processo in cui autonomia e libertà vengono barattate in cambio di benessere e sicurezza, il mondo che abbiamo ereditato dall’avvento del capitalismo e delle produzioni industriali è indubbiamente la massima espressione di queste due aspirazioni. La generazione dei miei nonni ha vissuto sulla propria pelle due guerre (mondiali), quella dei miei genitori una. La mia generazione, ormai in là con gli anni, nessuna.

Sembrerebbe un mondo perfetto, e ce lo raccontiamo come tale, purtroppo non è così. Un bias culturale che risale alla notte dei tempi ci porta a sopravvalutare l’importanza del benessere umano rispetto alla salute del pianeta. Il risultato di questa corsa a massimizzare benessere e numero della popolazione umana sta portando alla distruzione dei pochi habitat naturali fin qui sopravvissuti.

La sostituzione dei governi umani con entità astratte unicamente orientate al profitto ha escluso, di fatto, la possibilità di invertire questa tendenza. Se un governo autoritario ha ancora la possibilità di esprimere indirizzi lungimiranti (raramente, ma può avvenire), i poteri economici sovranazionali hanno come unico obiettivo l’accrescimento della propria ricchezza. Processo consistente in massima parte nell’organizzare lo sfruttamento di fonti di energia e materie prime presenti in quantità finite sul pianeta (minerali, suolo fertile, legname, gas combustibile), nel minor tempo possibile.

Questa evoluzione sta trascinando il mondo, col suo carico di umanità, su territori del tutto nuovi ed inesplorati, e purtroppo in assenza di una comprensione reale e diffusa delle dinamiche in atto. Dinamiche che, ad una prima analisi, risulterebbero comprensibili anche ad un bambino, ma che millenni di stratificazioni ideologiche ci impediscono di riconoscere, ed affrontare, da adulti.

Capitalismo vs Democrazia

Twain

Le riflessioni sulla corruttibilità di un intero sistema paese mi hanno portato molto più lontano di quanto mi aspettassi. Oggi vorrei provare a ragionare quanto i sistemi sociali definiti come Capitalismo e Democrazia siano reciprocamente incompatibili all’interno di uno stato nazione. Comincerò col dare delle definizioni sintetiche di entrambi.

Capitalismo è, in estrema sintesi, un modello economico basato sul possesso privato dei mezzi di produzione e sulla relativa possibilità di generare illimitate quantità di ricchezza, concentrata anch’essa in mani private. Nei sistemi economici capitalisti lo stato non è titolato ad intervenire nei processi decisionali delle imprese private, limitandosi a sancire una serie di obblighi nei confronti dei soggetti coinvolti, oltre alla tassazione di eventuali profitti.

Gli obblighi riguardano la salute dei dipendenti, che non può essere messa a rischio (quantomeno non senza un consenso informato), la salute pubblica (in senso molto lato, dato che è consentita la commercializzazione di sostanze e manufatti potenzialmente nocivi, per il cui corretto impiego si rimanda al buonsenso degli utilizzatori finali) ed in linea di massima la necessità di evitare danni diretti e documentabili a soggetti terzi.

Per riassumere: un’impresa deve aver cura di non causare ferimento, malattia o morte dei propri dipendenti e deve evitare di far del male direttamente al resto della cittadinanza. Per contro può fabbricare e commercializzare strumenti e prodotti potenzialmente dannosi come alcune sostanze psicotrope (alcool, nicotina, farmaci oppioidi…), cancerogene (carburanti per autotrazione, sigarette…), nocive per la salute se assunte in quantità eccessive (cibi spazzatura ricchi di zuccheri, sostanze eccitanti, grassi saturi, additivi chimici e/o residui di frittura), o dispositivi il cui uso scorretto o criminale può arrecare danni fisici (armi da fuoco e da taglio, autoveicoli, prodotti chimici velenosi o tossici…) e non da ultimo può ignorare del tutto le problematiche legate allo smaltimento ultimo dei propri prodotti, che finiscono col produrre un inquinamento generalizzato dell’ambiente.

L’unico principio etico’ (se così si può definire) che le imprese di un sistema capitalista devono rispettare riguarda gli interessi degli investitori. Cittadini e società per azioni possono investire i propri risparmi nelle imprese, che si impegnano a restituire il denaro con gli interessi maturati dalla produzione di ricchezza. L’idea è che un’impresa sana possa utilizzare i risparmi degli investitori per mettere in moto meccanismi di produzione in grado di garantire loro un guadagno. Parte di quanto ricavato va all’azienda a copertura dei costi, parte viene prelevato dallo stato sotto forma di tasse, ed il rimanente viene distribuito fra gli investitori.

In estrema sintesi un’impresa può, nella ricerca del proprio interesse economico, ottenere di danneggiare indirettamente i cittadini e l’ambiente (ma la responsabilità dovrà essere dimostrata), e sarà unicamente tenuta a tutelare il ritorno economico degli investitori. A titolo di esempio, i fabbricanti di sigarette non possono essere chiamati a rispondere legalmente della cancerogenicità dei propri prodotti, ma possono essere portati in tribunale, da chi ha investito nel mercato azionario, qualora non abbiano fatto tutto il necessario per vendere il maggior numero di sigarette possibile (così causando il massimo numero di tumori possibile).

Da quanto detto appare evidente il conflitto tra salute della collettività ed esigenze di guadagno delle imprese, ma la situazione è ulteriormente aggravata dal conflitto tra piano economico e piano politico, dove entra in gioco il secondo termine della questione: l’esercizio democratico nella scelta dei governanti.

Col termine Democrazia si indica una forma di governo in cui il potere non è in mano ad una o più figure autoritarie, ma al popolo stesso. La maniera in cui questo potere viene esercitato è per solito in forma rappresentativa: il popolo viene periodicamente chiamato ad esprimersi attraverso il voto e ad eleggere i propri rappresentanti, ai quali viene affidato il governo della nazione. Di norma, in un sistema di governo democratico vengono identificati tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, che devono essere esercitati da entità separate e distinte.

Il potere legislativo, ovvero decidere cosa sia giusto fare e come, è in mano ad un organo denominato parlamento, all’interno del quale vengono rappresentate le diverse opinioni della popolazione, nelle rispettive proporzioni, grazie ai membri eletti. Un’altra entità, detta governo, si occupa di far applicare e rispettare le leggi esistenti e di nuova emanazione, mentre una terza, la magistratura, ha il potere di giudicare sia la corretta applicazione delle leggi da parte del governo, sia il loro rispetto da parte della popolazione.

Rispetto a questi tre poteri formalmente sanciti, detti legislativo, esecutivo e giudiziario, l’accumulo di ricchezza da parte di imprese private rappresenta una sorta di quarto potere, in grado di influenzare da un lato l’opinione pubblica, dall’altro l’operato dei rappresentanti eletti, e in ultima istanza l’efficacia dei poteri collegati.

Per quanto concerne l’influenza sull’opinione pubblica va rilevato che il potere economico controlla, in maniera diretta ed indiretta, gli strumenti di comunicazione di massa. In maniera diretta attraverso il possesso della proprietà, o di quote azionarie, in maniera indiretta per mezzo della pubblicità e dell’investimento nella realizzazione di prodotti di intrattenimento.

Ad esclusione della televisione di stato, i mass media sono essi stessi imprese commerciali, spesso di proprietà di altre imprese. Nel caso della proprietà diretta è evidente che un giornale, posseduto da un’impresa di costruzioni edili, o da un fabbricante di autoveicoli, tenderà a fornire una visione dei fatti perlomeno orientata agli interessi dei propri proprietari (l’indipendenza dei singoli giornalisti non può travalicare le scelte editoriali).

Meno evidente, ma altrettanto concreto, è che gli introiti della stampa indipendente’ (ma il discorso vale per i media in generale) derivino dalla concessione di spazi pubblicitari, mentre il ricavato della vendita delle copie in edicola non basta più nemmeno a coprire i costi di stampa e distribuzione. In un quadro del genere, qualsiasi testata si guarderà bene dal pubblicare contenuti che la sua primaria fonte di sostentamento, gli acquirenti degli spazi pubblicitari, possa ritenere sgraditi.

Questa forma di controllo economico, diretto ed indiretto, ha come ultimo esito una narrazione pubblica totalmente appiattita sui desiderata delle imprese e del mondo finanziario in generale, che a sua volta si riflette in un significativo appiattimento del dibattito pubblico per quanto riguarda i temi micro e macroeconomici, ed in un’enfasi del tutto ingiustificata su questioni sostanzialmente secondarie come le identità etniche, politiche o religiose.

L’ultimo tassello del controllo dell’economia sulla comunicazione è rappresentato dai prodotti di intrattenimento e dei circuiti di distribuzione ad essi collegati, solitamente imprese commerciali essi stessi. Il progetto di un film o di una serie televisiva deve individuare dei finanziatori prima di poter partire, andrà a cercarli tra chi dispone delle maggiori quantità di denaro da investire e difficilmente ne troverà se proporrà temi sgraditi agli investitori. Il risultato di questo ennesimo filtro è che la quasi totalità di quanto ci viene quotidianamente somministrato come intrattenimento (anche quello che acquistiamo), è appiattito su una narrazione pienamente coerente col modello capitalista.

L’esito di questo controllo, diretto ed indiretto, sui mezzi di informazione ed intrattenimento è la diffusione di un ‘pensiero unico’ sui temi economici e sociali; un controllo non dissimile da quanto messo in atto nei sistemi dittatoriali ma molto più sottile, capillare, pervasivo ed in ultima istanza accettabile dalla popolazione. Quello che ha conferito ai mass media la definizione, ironica ma calzante, di “armi di distrazione di massa”.

Da quanto esposto fin qui si individua una prima tipologia di invadenza del sistema economico nei meccanismi democratici, sotto forma di un orientamento diffuso delle opinioni dei cittadini, che poi troverà espressione nel momento del voto. Ma l’invadenza non si ferma qui. Ricordiamo che le imprese, al di là dell’avidità di chi le gestisce, si fanno bandiera di una sorta di ‘obbligo morale’ nel produrre ricchezza per sé e per i propri investitori. Ne consegue la necessità, riconosciuta e pubblicamente accettata, di intervenire per orientare a proprio vantaggio le decisioni dei poteri democratici: legislativo, esecutivo e giudiziario.

Da questo punto di vista, il soggetto speculare ai produttori e distributori di contenuti culturali, nell’ambito politico, sono i partiti. Al pari delle grandi testate giornalistiche, i partiti sono in parte espressione diretta di interessi economici (al punto da non doverlo neanche nascondere… ‘Forza Italia’ di Berlusconi docet), in parte soggetti sedicenti ‘indipendenti’, sorretti da sistemi di finanziamento raramente trasparenti.

La pressione dei potentati economici sulle decisioni delle linee politiche da promuovere si esprime, quindi, anche indipendentemente dai meccanismi corruttivi tradizionali, mentre il caso estremo di invadenza agisce per mezzo di trasferimenti di denaro, a singoli uomini politici o figure tecniche in ruoli di grande responsabilità, effettuati in totale segretezza grazie ai paradisi fiscali. Il trait d’union formale tra mondo economico e mondo politico è rappresentato dai cosiddetti lobbisti, che hanno il ruolo di mediare tra gli interessi delle imprese e quelli della classe politica.

Il controllo dei potentati economici sui partiti si riflette nell’emanazione di leggi che favoriscono interi comparti, quando non singole imprese, e nelle scelte di destinazione di fondi pubblici (ad esempio quelli destinati all’estensione e manutenzione della rete stradale, che favorisce il comparto del trasporto e della mobilità privata ai danni delle reti su ferro e del trasporto pubblico).

Per inciso, non è strettamente necessario che le leggi approvate siano esplicitamente a favore di determinati interessi economici. È infatti sufficiente che tali leggi siano confuse, inapplicabili, farraginose e prive di decreti applicativi perché portino acqua al mulino di chi ha investito per renderle inefficaci.

Così come non è strettamente necessario che i poteri economici siano legali perché possano prodursi i meccanismi sovra descritti: sistemi economici criminali come quelli legati al narcotraffico, che ha una rilevanza significativa sul PIL nazionale, hanno anch’essi canali di accesso ai piani alti della politica. Pecunia non olet, dicevano i latini.

Quali sono le conseguenze ultime di questo quadro? Da diverso tempo una delle mie citazioni preferite è la frase di Mark Twain: “se votare servisse a qualcosa, non ce lo lascerebbero fare”. Più vado avanti ad analizzare i meccanismi sottesi all’esercizio di governo democratico, ed alla loro sostanziale corruttibilità, più mi convinco della veridicità di tale assunto.

Possiamo attenderci, ad esempio, che le esigenze di salute pubblica vengano poste in secondo piano rispetto alla redditività delle imprese. In Italia abbiamo innumerevoli esempi, dall’inquinamento diffuso nelle aree più ‘produttive’ del nord fino al tasso di tumori esorbitante intorno all’ILVA di Taranto a sud, fino all’onnipresente invadenza del trasporto privato causata da scelte urbanistiche e trasportistiche scellerate, con tutto il suo portato di morti e feriti.

Possiamo attenderci che le misure di contrasto al crimine organizzato siano poche ed inefficienti, ed è facilmente verificabile come anche questa situazione si verifichi con frequenza. Possiamo attenderci che la certezza della pena sia messa in discussione da una legislazione eccessivamente garantista, e che l’efficacia degli iter processuali sia minata da una quantità di problemi, lungaggini e questioni tecniche derivanti da norme inutilmente complesse e disfunzionali.

Possiamo attenderci un teatrino della politica in cui i partiti ‘di destra’ promulgano impunemente politiche a favore dei grandi gruppi industriali, mentre i partiti sedicenti ‘di sinistra’ mettono in atto anch’essi politiche di destra anteponendo l’interesse dei grandi gruppi privati a quello pubblico, al più mascherandole da misure necessarie o scegliendo di rinunciarvi e perdere la successiva tornata elettorale per fare in modo che le stesse scelte politiche possano essere portate avanti dai loro teorici oppositori.

Il trucco sta nel mantenere l’apparenza di un sistema democratico, quando sono invece grandi imprese e gruppi finanziari a controllare quello che pensiamo, attraverso i mass media, e quello che decidono di fare i rappresentanti che eleggiamo, attraverso i partiti. O, come ebbe a dire in estrema sintesi il musicista Frank Zappa: “La politica è il ramo intrattenimento del comparto industriale”.

Zappa

I Ciclisti Filosofi

La scorsa settimana, spinto dall’intenzione, vaga, di far circolare aforismi sulla bicicletta, ho dato vita all’ennesima pagina Facebook (le altre che mantengo le potete trovare nella colonna di destra, identificate da piccoli ‘box’). Ben presto l’idea iniziale ha cominciato a definirsi con maggior precisione, disvelando un potenziale superiore a quanto mi aspettassi inizialmente.

Per comprendere come nasca l’idea di dar vita ad una simile serializzazione dei contenuti occorre fare un passo indietro e ragionare sul concetto di ‘meme’.
Wikipedia descrive il meme nei termini di:

…“un’unità auto-propagantesi” di evoluzione culturale, analoga a ciò che il gene è per la genetica, quindi un elemento di una cultura o civiltà trasmesso da mezzi non genetici, soprattutto per imitazione…

Per sintetizzare il concetto: ogni cultura evolve integrando nel proprio corpus idee, concetti, logiche ed approcci nuovi, e rimuovendone altri che quindi cadono in disuso. Il termine ‘meme’ rimanda all’imitazione, ovvero alla caratteristica propria dei gruppi sociali di cementare la propria identità attraverso la condivisione e la ripetizione di consuetudini.

Consuetudini che possono essere l’utilizzo di un neologismo o di una forma gergale esclusiva, di una canzone o un semplice frammento di testo, di un manierismo unico nella pronuncia di determinati fonemi, alla stessa maniera in cui viene utilizzato l’abbigliamento o l’interesse per una determinata categoria di oggetti ed attività umane per collocarsi all’interno di ‘mode’. Ci si imita a vicenda e questo fa del gruppo una realtà distinguibile.

Sui meccanismi di propagazione dei ‘meme’ è in corso da anni una riflessione. Se a posteriori è evidente come alcuni di essi possano essere prepotentemente emersi (molti per sparire in un arco di tempo altrettanto breve), stabilire una ‘formula del successo’ è impossibile. Esempi di ‘meme’ in anni recenti sono i Chuck Norris Facts, o la scena del film Titanic sulla prua della nave (ripresa in un milione di citazioni e parodie), o l’avvento degli zombie come spauracchio di massa in cui parlavo altrove.

Nel mondo dei Social Network (e di Facebook in particolare, che al momento è il più diffuso e pervasivo) la propagazione spontanea di piccoli e semplici meme è all’ordine del giorno. Li riceviamo volenti o nolenti ogni volta che qualche amico decide di condividere un pensiero, o un’immagine, o una ‘confezione’ di entrambi. In genere sono motti, aforismi o battute satiriche. Altrettanto in genere non si tratta di contenuti isolati ma di forme serializzate di intrattenimento.

Cito a mo’ di esempio la pagina umoristica Kotiomkin (nome ispirato esso stesso ad un celeberrimo ‘meme’ della cultura italiana, la battuta di Fantozzi: “per me la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”)

…la gallery Il Peggio Della Fotografia Made in Italy (che spesso attinge ad immagini di matrimoni realizzate in paesi dell’Europa dell’est)

…o Le più belle frasi di Osho dove la molla umoristica nasce dal contrasto tra le foto di vita quotidiana del santone indiano e la sovrapposizione di frasi in romanesco riferite ad un immaginario affatto diverso.

Dati questi ‘alti esempi’ mi sono chiesto se non sarebbe stato possibile veicolare idee sull’uso della bicicletta tramite l’accostamento di parole ed immagini. Ne è nata una piccola sperimentazione (chiamata inizialmente ‘CicloAforismi’) che mi ha spinto ad estendere la cerchia delle persone coinvolte nel processo ideativo.

Ora la redazione è composta, oltre al sottoscritto, da Marco Melillo, Serena Maniscalco, Elena Scategni e Paolo De Felice, e la qualità delle ‘cartoline’ prodotte ha subito una drastica impennata verso l’alto.

Anche il ‘concept’ è stato rivisto, non più aforismi e frasi ad effetto legate alla bicicletta, ma motti e consigli di senso generale uniti ad immagini di persone in bicicletta che ne contestualizzano il significato e ne propongono una possibile chiave di lettura, non necessariamente immediata.

L’oggetto finale assume così una dimensione in parte visiva, in parte filosofica, in parte di sofisticato ‘divertimento intellettuale’ nell’interpretazione della relazione tra immagine e testo.

L’idea è che l’efficacia del messaggio prodotto dall’abbinamento di testi ed immagini produca spontaneamente una sensazione di immedesimazione (meme) tale da spingere i lettori a ripubblicare l’immagine stessa sul proprio profilo per esporla ad una platea più vasta, innescando quel meccanismo di diffusione virale proprio dei ‘meme’ più efficaci.

Se funzionerà o meno è impossibile dirlo. La speranza è che le immagini circolino diffusamente portando con sé il ‘meme’ della bicicletta anche a quanti non ne siano ancora utilizzatori, veicolando fantasie, suggestioni, attese. Nel suo piccolo il progetto va nella direzione di una ridefinizione dell’idea di bicicletta nell’immaginario collettivo.

Come arco vitale per questa esperienza immagino alcuni mesi, all’inizio con pubblicazioni quotidiane, poi via via più rarefatte man mano che illustrazioni e frasi vengono utilizzate. Quello che ne resterà alla conclusione sarà una gallery di impressioni, idee, immagini, legate all’uso della bici ed alle trasformazioni fisiche, culturali, mentali ed emotive da essa prodotte.

I nomadi, le città e la sfera sociale

Un celebre aforisma di Ascanio Celestini recita (più o meno): “Il razzismo è come il culo: puoi vedere quello degli altri, ma non riesci mai a vedere il tuo”.

Correva l’anno 2007, io ed Emanuela eravamo in viaggio di nozze in Sudafrica e decidemmo di effettuare una visita alle “township” nere, risultato di decenni di segregazione razziale ed infine divenute parte del panorama urbano di Capetown.

Il Sudafrica, a distanza di decenni dalla caduta del regime razzista di Pretoria, continua a mostrare una realtà sociale molto polarizzata, con la popolazione bianca e ricca che vive “all’occidentale” e quella nera e povera che vive “all’africana”. L’apartheid fisica degli insediamenti è sopravvissuta all’abolizione dell’apartheid sociale.

Discutendo di questo col proprietario dell’appartamento dove eravamo in affitto (un italiano andato a vivere in Sudafrica molti decenni prima), questi mi manifestava il suo disagio nei confronti delle scelte di molti neri, acculturati e con un buon stipendio, che continuavano a vivere in realtà povere, gomito a gomito con vere e proprie baraccopoli.

La mia obiezione fu che, probabilmente, per i neri la dimensione sociale che quel tipo di insediamenti consentiva era largamente preferibile al modello “bianco” dei villini monofamiliari con giardino e garage, di grande impedimento alla socializzazione (cosa, questa, lamentata dal mio stesso interlocutore).

“I neri vivono in case povere, ma gli basta uscire per strada per trovare la comunità, i loro amici e conoscenti. I bianchi vivono autosegregati in case linde e perfette, ma per le strade non c’è nessuno, e se vogliono incontrarsi devono darsi appuntamento o organizzarsi per cenare insieme”, fu più o meno l’argomentazione che proposi. Il mio interlocutore ammise: “non l’avevo mai considerata in questi termini…”.

A muovermi in direzione di quest’analisi è stata probabilmente la profonda stima maturata negli anni nei confronti della popolazione nera del Sudafrica, grazie all’opera di Nelson Mandela ed al processo di pacificazione sociale che, dopo la caduta del regime razzista, evitò stragi e rappresaglie in tutto il paese.

Non altrettanta stima (con mio profondo disagio…) ho realizzato di provare nei confronti di popolazioni con costumi analoghi insistenti nel mio stesso contesto sociale. Evidentemente quello che si “legge” analizzando una realtà estranea, nella quale ci si sente poco coinvolti, non è di altrettanto facile interpretazione quando si prova a leggere la realtà in cui si è cresciuti.

Quotidianamente, infatti, mi trovo a passare, pedalando verso l’ufficio, accanto ad accampamenti di nomadi incistati nella periferia romana. Periodicamente, negli anni, sono finito ad interrogarmi sul perché queste persone scelgano spontaneamente una simile forma di “apartheid” rispetto alla cultura ospitante.

La risposta non era molto diversa, ovvero che solo il restare gli uni accanto agli altri poteva restituirgli quel senso di comunità che, adottando i nostri costumi sociali ed abitativi, avrebbero finito col perdere. Ma qui terminava l’analisi.

Quello che il mio stesso razzismo ha finito col nascondermi (e che invece mi era stato chiaro fin dal principio per i comportamenti dei neri sudafricani) è che il loro modello sociale, pur con tutti i limiti igienici e sanitari (determinati principalmente dalla povertà e da fattori culturali), sia nei fatti nettamente superiore al nostro.

C’è stato un momento, nella storia dell’occidente (e, non molto dopo, dell’estremo oriente), in cui il desiderio di possesso ha prevalso sulla necessità di essere comunità, sulla socialità, sull’affettività. Abbiamo finalizzato le nostre vite all’inseguimento di modelli di ricchezza (case più grandi, arredamenti più lussuosi, automobili più costose…) e perso progressivamente di vista le interazioni sociali.

La conclusione di questo processo sta nelle nostre città, nei quartieri, nelle case cui abbiamo dato forma negli ultimi decenni: realtà disumane e disumanizzanti, mausolei di cemento nei quali seppellirci da vivi, con finestre elettroniche (apparecchi televisivi, computer, smartphone…) per affacciarci su mondi fittizi, a vivere vite fittizie, mentre il mondo reale, al di fuori, è precipitato nell’indifferenza e nel degrado.