L’idea di Ordine e la progressiva distruzione del Mondo

Vado elaborando, ormai da anni, una descrizione della realtà basta su relazioni di causa-effetto. L’idea di fondo è che l’esatta individuazione delle cause dovrebbe, almeno in teoria, consentire di intervenire sugli effetti. Quello che spesso emerge, tuttavia, nel corso dell’analisi, è che le cause prime sono molto più profonde e radicate di quanto appaia a prima vista.

Prendiamo l’esempio delle ideologie, rispetto a cui ho sviluppato un’analisi ormai diversi anni fa. Le ideologie, anche complesse (destra, sinistra, ambientalismo, progresso, ‘crescitismo’, capitalismo), emergono come strutturazione razionale di pulsioni più basiche, sepolte in profondità nella nostra psiche.

Le ideologie di destra emergono come formalizzazione di una pulsione istintiva alla competizione, retaggio di tutti gli esseri viventi. Quelle di sinistra rappresentano una concettualizzazione dalla spinta alla cooperazione, che discende dal nostro essere una specie sociale. Le ideologie del Progresso e della Crescita Economica Illimitata nascono come proiezione di una aspirazione al benessere, comune ad ogni essere vivente.

Le ideologie umane, tuttavia, modellano il mondo, generando nuovi problemi prima inesistenti. La questione più drammatica emersa negli ultimi decenni riguarda l’impatto delle attività umane sulla biosfera. Lo sfruttamento incontrollato dell’ecosistema da parte della specie Homo Sapiens sta causando la distruzione di una serie di realtà caratterizzate da elevata biodiversità, e la loro sistematica sostituzione con habitat artificiali finalizzati alla produzione di cibo per una popolazione insaziabile e tutt’ora in crescita.

Il fatto che tutto ciò non sia percepito come un problema dalla maggior parte della popolazione è indice di un travisamento di fondo, collettivo, della collocazione eco-sistemica dell’essere umano su questo pianeta. Anche su questo ho recentemente scritto, etichettando tale bias culturale con la definizione di Pregiudizio Antropocentrico.

Ma un singolo bias culturale da sé non può reggersi, perché finisce con lo scontrarsi con una serie di contraddizioni. A riprova di ciò, non tutte le culture umane appaiono afflitte da ‘Pregiudizio Antropocentrico’, in special modo ne sono distanti quelle rimaste legate ad un rapporto più profondo con la natura e i suoi equilibri. Quelle culture che la nostra arrogante autoreferenzialità bolla come ‘arretrate’.

La Natura nasce dal caos, e nel caos procede, con paletti definiti unicamente dalle leggi della fisica e della chimica molecolare. Le strutture organiche autoreplicanti emergono dal caos primordiale, ed in virtù della proprietà di riprodursi in innumerevoli copie, dati tempi lunghissimi a disposizione, finiscono col produrre le innumerevoli forme di vita che vediamo oggi. Nessun ordine, nessun progetto, solo popolazioni abbondanti e diversificate che competono per la sopravvivenza, generando un equilibrio dinamico e trasformandosi nel processo.

Nei fenomeni biologici, l’ordine è conseguenza di innumerevoli iterazioni di processi simili, su larga scala. Le popolazioni animali e vegetali si susseguono con continuità, interagendo in maniere complesse ed adattandosi in continuazione le une alle altre. Ciò può dar luogo ad un’apparente armonia, che è però unicamente il risultato, su larghissima scala, di un’innumerevole quantità di eventi casuali.

In questo scenario, dopo centinaia di milioni di anni, irrompe una nuova specie, la nostra, caratterizzata da un significativo sviluppo cerebrale. Un cervello in grado di osservare, comprendere e manipolare la realtà, sviluppatosi inizialmente con funzioni di mera sopravvivenza ma, in ultima istanza, diventato talmente complesso da interrogarsi su se stesso. Da questa unicità la nostra specie ha tratto l’idea di essere diversa e più importante delle altre.

Per supportare la tesi che l’Uomo fosse al centro dell’Universo occorreva contrastare l’evidenza dei fatti, elaborando una complessa ideologia che poggiasse su una quantità sufficiente di quelle che chiameremo ‘stampelle’ per potersi reggere in piedi. La prima di queste stampelle fu, con molta probabilità, la negazione della morte.

La consapevolezza della morte è una delle forme di sofferenza cui ci ha condannato lo sviluppo intellettuale del nostro cervello. Abbiamo trovato il modo di contrastare questa permanente afflizione mediante l’elaborazione del pensiero religioso e l’invenzione delle divinità, con la conseguente costruzione di sistemi di credenze finalizzate a negare la morte degli individui.

Questa elaborazione concettuale, che oggi accettiamo con facilità, deve essere stata altamente contro-intuitiva per i nostri antenati, abituati alla vita nomade di cacciatori-raccoglitori. Uno stile di vita in cui la morte doveva essere un’evidenza estremamente frequente (per quanto mitigata dall’elaborazione del lutto mediante riti funebri).

L’invenzione di un’anima divina, slegata dalla corruzione del mondo, è stata in grado di allontanare l’angoscia della morte, ma richiedeva la fabbricazione di una ulteriore ‘stampella’ ideologica a supporto, che fosse allo stesso tempo evidente e auto-giustificante. Nacque così l’idea di un Ordine Divino, avente il suo riflesso nell’Uomo.

Come abbiamo visto, in una ipotetica dicotomia ordine-caos, la natura appartiene al caos. L’uomo decide così di ‘chiamarsi fuori’, di appartenere ad un Ordine Divino, di aspirare all’immortalità. Nel fare ciò, mette insieme una serie di evidenze a supporto di tale tesi. Come esempi di ordine trova i cicli temporali determinati dall’interazione gravitazionale dei corpi celesti: l’alternanza di giorno e notte, il succedersi dei mesi lunari, i cicli delle stagioni, il ruotare incessante del cielo notturno, i moti dei pianeti.

Non è un caso che tutte le culture umane abbiano proiettato nel cielo il luogo delle divinità, come a sancire uno spazio in cui si manifesta l’Ordine (divino), distinto e separato dall’ambito terrestre, dominato dal caos. Nella regolarità dei moti celesti l’uomo antico proietta il suo bisogno di ordine, la sua aspirazione alla divinità ed in ultima istanza il desiderio di sfuggire alla morte.

Il concetto di Ordine si sviluppa, in parallelo, anche grazie alla crescita delle abilità cognitive ed attraverso i modi coi quali un cervello particolarmente sviluppato ci consente di manipolare la realtà circostante. Gli utensili, per risultare efficienti, devono essere fabbricati in una maniera precisa e sempre uguale; i ripari, anche quelli provvisori, vanno realizzati con criterio; i vegetali per l’alimentazione vanno scelti con attenzione, per evitare le varietà tossiche o velenose, e mescolati nelle esatte dosi.

Dovendo dipendere il benessere e la sopravvivenza dei gruppi umani dalla corretta applicazione di numerose regole, non è difficile immaginare come la leadership delle tribù preistoriche abbia finito col premiare proprio quegli individui più capaci di aderire ad un comportamento altamente strutturato, finendo con l’aprire la via all’idea di un Ordine Salvifico contrapposto ad un Caos potenzialmente mortale.

L’idea di Ordine si traduce, nel corso dei secoli, nelle prime scienze esatte, matematica e geometria, che si riflettono a loro volta nei primi monumenti dell’uomo (piramidi, colonne), nelle opere di irregimentazione idraulica e nell’organizzazione delle coltivazioni. Da questa prospettiva non è un caso che Scienza e Fede vadano letteralmente a braccetto, perlomeno fino ai tempi recenti.

Quello che accade, da Galileo Galilei in poi, è un progressivo distacco. La scienza matura una propria idea di Ordine Intrinseco delle Cose che non ha più necessità di una divinità a supporto. La religione, dal canto suo, non trovando più appigli nelle nuove scoperte scientifiche non può far altro che rinchiudersi a riccio sulla veridicità delle antiche scritture ed ostacolare, per quanto possibile, le nuove acquisizioni del sapere.

Sapere che si traduce ben presto in nuove tecnologie, in macchine sempre più sofisticate e complesse, in realizzazioni ingegneristiche strabilianti. La scienza diventa il nuovo alfiere del trionfo dell’Ordine, mentre alla religione resta soltanto la funzione di sollievo e conforto dalla paura della morte, anch’essa significativamente ridimensionata dall’avvento di nuove forme di distrazione (aka intrattenimento) via via più evolute e capillari.

Dato il quadro fin qui descritto, risulta evidente come a guidare l’evoluzione tecnologica della nostra specie sia stata, fin dall’antichità, l’adesione ad un’idea astratta di Ordine che ha dapprima incarnato, ed in tempi recenti sostituito, la figura divina. I nuovi sacerdoti di questa fede sono i grandi tecnocrati, architetti, progettisti, sviluppatori di software intelligenti e mondi virtuali.

E tuttavia l’Ordine umano, freddo e meccanico, si contrappone ai processi caotici propri del mondo naturale, determinando un conflitto permanente per il dominio del pianeta. È chiaro, a questo punto, il motivo per cui non siamo in grado di moderare l’impatto delle attività umane sulla biosfera: da un lato è il pregiudizio antropocentrico a suggerire che il nostro agire possa essere unicamente ‘buono e giusto’, dall’altro è l’idea, introiettata nell’arco di innumerevoli generazioni, di un Ordine (a suo modo divino, in quanto frutto di pura astrazione) sempre e comunque preferibile al Caos.

Un’idea analoga a quella formulata dallo scrittore e filosofo Robert M. Pirsig nel volume “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” con l’elaborazione di ciò che viene definito come Metafisica della Qualità, solo che la chiave di lettura è qui completamente rovesciata dall’evidenza che la Qualità (l’Ordine) è il motore stesso della distruzione del mondo.

Questa nuova consapevolezza mi mette a disagio, come pure realizzare quanto in profondità sia radicato il bisogno di Ordine nei modi in cui mi relaziono all’esistente. Perfino questo ragionamento, per dire, è espressione di un desiderio di Ordine. Subisco da sempre la fascinazione per le geometrie perfette, le idee astratte, la musica, la tecnologia, per tutto ciò che è regolare, preciso, esatto, prevedibile.

Proprio per questo, fatico enormemente ad accogliere la consapevolezza della fallacia e provvisorietà dei successi umani. È un’idea che mi addolora, perché in controtendenza con tutto quello che ho sognato e desiderato fin dalla fanciullezza.

E tuttavia resta innegabile l’evidenza del danno progressivo che stiamo producendo sull’ambiente che ci ha generati. In termini di perdita di biodiversità, di distruzione di habitat, di turbamento di equilibri sviluppatisi su un arco temporale di milioni di anni. E in qualche modo altrettanto evidente mi appare il concetto, attribuito ad Albert Einstein, che: “non si può risolvere un problema usando lo stesso tipo di pensiero che lo ha generato”.

In conseguenza di ciò, non possiamo illuderci di poter risolvere un problema generato dalla tecnologia umana per mezzo della tecnologia umana. Non possiamo affrontare un dissesto prodotto dall’idea di Ordine applicando un analogo criterio, solo declinato diversamente.

Se vogliamo risolvere il problema causato dalle attività umane all’ambiente possiamo solo sospendere le attività umane. O tenerci il problema, e scommettere su quanto a lungo riusciremo a non farci sopraffare dalle ricadute indesiderate delle nostre azioni.

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Obesità e arteriosclerosi delle città

Giorni fa ho ripreso a ragionare sui parallelismi tra città ed organismi viventi. Il tema era emerso grossomodo un anno fa, ora intendo tornarci su per svilupparlo meglio.

Gli organismi viventi, non diversamente dalle città, attraversano fasi di crescita, nel corso delle quali si strutturano per gestire la propria funzionalità su una scala di dimensioni maggiori. Gli arti, gli organi ed il sistema circolatorio necessitano di svilupparsi di conseguenza.

Il sistema circolatorio degli organismi animali è rappresentato dalla rete venosa ed arteriosa, che per mezzo del sangue trasporta ossigeno e sostanze nutrienti agli organi che li devono utilizzare, e i materiali esausti agli organi dove essere riciclati o smaltiti. Se questo flusso incessante rallenta, l’organismo entra in sofferenza.

Per ragionare di ‘sistema circolatorio’ delle città è abbastanza semplice immaginare i flussi di persone e cose come sostanze nutrienti o esauste che si muovono da un organo all’altro.

Negli esseri viventi gli organi sono collocati in aree definite, le materie prime affluiscono ad essi ed i prodotti lavorati, o esauriti, ne defluiscono. Nelle città questi ‘organi’ sono gli edifici e gli spazi (p.e.: distretti industriali e sedi di uffici) dove il lavoro viene effettuato.

Le aree industriali vanno considerate come lo ‘stomaco’ della città, dove le materie prime ingerite si trasformano in parti essenziali al funzionamento dell’organismo: sostanze nutrienti, vitamine, proteine, molecole ad alto contenuto energetico.

Possiamo a questo punto immaginare di rappresentare il movimento delle persone, parallelamente a questo flusso di oggetti inanimati, come i globuli rossi che trasportano ossigeno. L’ossigeno viene prelevato dai polmoni, trasportato negli organi, quindi fatto reagire con le molecole di adenosin-trifosfato per produrre l’energia necessaria a compiere un lavoro, sia esso meccanico o chimico.

In questa semplificazione, gli organi sono i luoghi in cui lavoriamo, ed i polmoni quelli in cui ci ricarichiamo, equivalenti alle zone residenziali, abitative e ricreative. Come i globuli rossi ci spostiamo continuamente da un luogo all’altro per mantenere in vita l’animale città.

In organismi semplici (nel parallelo, paesi e piccole città) gli organi sono tutti in prossimità, e la modesta circolazione necessaria al loro funzionamento non richiede una grande complessità. Più gli organismi (le città) diventano grandi e complessi, più essenziale diventa disporre di una circolazione efficiente.

Quello che osserviamo, negli organismi come nelle città, è che, al mutare delle condizioni di contorno, il processo di crescita può deragliare, dando luogo ad organismi malati e disfunzionali. Nello specifico, nel ventesimo secolo la messa a regime di una quantità incredibile di nutrimento, rappresentato dalla disponibilità di fonti energetiche fossili, ha alimentato una crescita abnorme ed accelerata delle città.

La crescita sana di un organismo avviene in tempi lunghi, ed è relazionata ad un equilibrio con la situazione di contorno. Quello che è avvenuto nel secolo scorso è più simile ad una situazione di sovralimentazione in cui, a seguito di un apporto eccessivo di nutrienti, l’organismo genera tessuto in eccesso. Qualcosa di molto simile alla problematica che negli esseri viventi definiamo clinicamente col termine ‘obesità’.

L’organismo obeso finisce con l’essere meno efficiente rispetto ai suoi simili non affetti dalla medesima patologia, consuma più risorse di quante ne produca (situazione che il sistema economico attuale formalizza nel rapporto debito/PIL) ed è più incline all’insorgenza di patologie parassite (disagio sociale, nevrosi, con tutti i relativi portati).

La crescita accelerata dell’organismo città si traduce nel sorgere di urbanizzazioni specializzate: aree industriali, quartieri residenziali, e solo in tempi più recenti distretti dedicati al commercio ed alla ricreazione (centri commerciali). La seclusione di questi ‘organi’, ovvero la loro cattiva integrazione in un organismo funzionale, finisce col generare flussi crescenti di persone e materiali, tali da mettere in crisi il sistema circolatorio della città.

Nella città in cui vivo, l’assenza di una corretta pianificazione e gestione delle esigenze trasportistiche (coincidente con lo sviluppo di un’efficiente rete di trasporto pubblico collettivo), ha causato un massiccio ricorso all’automobile privata come strumento di mobilità individuale, finendo col generare una sistematica congestione della rete viaria.

L’uso diffuso dell’automobile privata ha rappresentato, per l’organismo città, l’equivalente della proliferazione di colesterolo e grassi saturi nel flusso sanguigno, con conseguente deposizione di placche sulle pareti arteriose (i veicoli in sosta, permanente e d’intralcio, sulle sedi stradali) ed un freno alla mobilità complessiva di persone e cose. L’equivalente della patologia che, negli esseri umani, chiamiamo arteriosclerosi.

Il quadro clinico è sicuramente poco tranquillizzante. L’arteriosclerosi conduce per solito ad una degenerazione delle facoltà intellettive (fenomeno che, sempre in chiave di metafora, mi pare si stia già verificando). L’obesità, dal canto suo, è un processo che tende ad auto alimentarsi (in tutti i sensi), per far fronte al quale, di norma, si interviene mettendo a dieta il soggetto, non più in grado di regolarsi da sé.

Questo però richiede che l’organismo (la città) sia inserito in una rete sociale (uno stato) composta da individui (altre città) in prevalenza sani, mentre quello che osserviamo sono processi di espansione urbana, alimentati dallo stesso sfruttamento di risorse fossili, estesi all’intero paese… per non dire ad una parte significativa dell’intero pianeta.

Nel frattempo si profila, all’orizzonte dei prossimi decenni, una crisi globale determinata da una varietà di fattori: dal progressivo esaurimento delle fonti energetiche fossili, all’emergenza climatica, all’inquinamento.

Possiamo sperare che questo si traduca in un significativo dimagrimento dell’organismo città, e al ritorno ad una sua maggior efficienza. Ma la progressiva diminuzione delle facoltà intellettive causata dall’arteriosclerosi, unita alle difficoltà di movimento ed azione di un organismo già ora ipertrofico e disfunzionale, non lascia grossi margini all’ottimismo.

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Bias culturali – il Pregiudizio Antropocentrico

L’emergenza climatica ci sta mettendo di fronte ad un problema non più dilazionabile: trovare un equilibrio, sostenibile, tra le esigenze della specie umana e la sopravvivenza di ecosistemi complessi. Il motivo per cui è tanto difficile individuare questo equilibrio nasce da una distorsione cognitiva collettiva (quindi di natura culturale) che affonda le sue radici nella notte dei tempi ed a cui ho dato il nome di Pregiudizio Antropocentrico.

La formulazione più semplice del Pregiudizio Antropocentrico è: “qualunque cosa aumenti il benessere degli esseri umani è da considerarsi buona e giusta, a prescindere”. Questo assunto appare, ai più, talmente ovvio che non se ne può discutere più di tanto. Si tratta dell’estensione di un principio egoistico, funzionale alla sopravvivenza degli individui in natura. Tuttavia, in mano ad una specie sociale dotata di capacità mai viste prima, ha portato gli ecosistemi globali sull’orlo del collasso.

L’idea che l’Uomo possa fare ciò che vuole del Mondo è ben formalizzata nella Genesi biblica: Dio crea il mondo per donarlo all’Uomo, dicendogli che ne può disporre come meglio vuole. In altri termini, l’umanità si arroga il diritto di fare e disfare ciò che la Natura ha costruito nell’arco di millenni, ed inventa un Dio onnipotente per farsi autorizzare ad operare come meglio crede.

L’egoismo è un motore, intrinseco ed ineludibile, degli organismi viventi. L’istinto di sopravvivenza ne è la sua formalizzazione. Gli individui e i gruppi (che nelle specie sociali operano come dei sovra-individui) devono sopravvivere e riprodursi, e per far questo attuano tutta una serie di strategie di predazione delle risorse naturali.

Oltre a ciò, il nostro successo come specie sociale è dovuto a meccanismi di solidarietà, quindi è inevitabile che l’accettazione dell’egoismo individuale venga estesa agli altri membri del gruppo, ed in ultima istanza all’intera specie. Tali meccanismi già del loro basterebbero a produrre un simile risultato, anche senza bisogno di una sovrastruttura religiosa di natura fideistica, ma quest’ultima ottiene di escludere ogni ulteriore discussione in merito.

Se trarre dall’ecosistema il necessario per il proprio sostentamento è nell’ordine delle cose, per quale motivo, proprio per noi umani, ciò dovrebbe rappresentare un problema? Semplicemente perché, a differenza delle altre specie, non abbiamo più freni sistemici alla crescita, ormai fuori controllo, della nostra popolazione.

Produrre più cibo attraverso le pratiche agricole e l’allevamento è stato considerato “buono e giusto”, ma ha portato alla scomparsa delle foreste e di molte delle specie che le popolavano. Costruire abitazioni più protette, sviluppare cure mediche, hanno consentito un aumento dell’aspettativa di vita ed una riduzione della mortalità infantile, tutti fattori che hanno concorso all’aumento della popolazione ed alla conseguente crescita nella predazione di risorse ecosistemiche.

In ultima istanza, la capacità tecnologica di sfruttare fonti energetiche fossili in alternativa all’energia prodotta dal Sole (l’unica stabile e indefinitamente rinnovabile, perlomeno sulla scala temporale delle civiltà umane), ha generato un benessere diffuso culminato nell’esplosione demografica degli ultimi decenni.

Il punto è che tutti i fenomeni sgradevoli che abbiamo temporaneamente rimosso: malattie, carestie, freddo, ottenevano di mantenere la popolazione umana in equilibrio con gli ecosistemi circostanti. Ora che è l’assenza di equilibrio a minacciarci, non disponiamo degli strumenti culturali per affrontarla, principalmente perché alla base di tutta la nostra scala di valori etici abbiamo messo il meccanismo stesso responsabile del disequilibrio.

Se quello che è bene per gli umani è buono e giusto’, diventa impossibile intervenire su quegli individui che distruggano una risorsa non rinnovabile, una foresta o una specie vivente, con l’alibi del proprio benessere. Allo stesso modo non si può intervenire sulle industrie che avvelenano l’ambiente, perché producono occupazione, che corrisponde a benessere per fasce estese di popolazione.

In quest’ottica, ogni impresa che produca lavoro e ‘benessere’ per la generazione attuale viene di fatto moralmente assolta per i danni che potrà produrre alle generazioni a venire. Il principio di precauzione viene sottomesso alle esigenze immediate e contingenti, col risultato di accumulare disastri sulle popolazioni future.

La formalizzazione finale del Pregiudizio Antropocentrico si raggiunge nell’assunto capitalista che le imprese private siano unicamente tenute a fare l’interesse economico dei propri investitori. In base a tale principio, i manager delle grandi aziende possono essere perseguiti legalmente, se non massimizzano il ritorno economico degli azionisti, molto più facilmente che per aver causato danni alla collettività o agli ecosistemi.

Per dire, l’industria del tabacco è responsabile di una percentuale significativa di tumori alle vie respiratorie, ma il suo obbligo contrattuale è unicamente nei confronti degli azionisti, e le responsabilità (morali) rigirate sui clienti. Analogo discorso si può fare per il comparto legato alla mobilità privata, che non può essere chiamato in causa per le condotte di guida dei propri clienti nemmeno se coincidenti con quanto avallato e promosso dalla comunicazione pubblicitaria, finalizzata alla vendita di un maggior numero di veicoli.

Abbiamo finito col produrre un’organizzazione economica e sociale schizofrenica, che ha generato, come ultimo portato, una perenne confusione culturale in una società afflitta dalla totale incapacità di immaginare soluzioni efficaci. Una situazione alimentata da una classe politica opportunista, i cui rappresentanti sono titolati ad affermare tutto e il contrario di tutto, analogamente a quanto facciano gli economisti.

La rimozione del bias culturale determinato dal Pregiudizio Antropocentrico appare indispensabile per aiutarci a rimuovere i limiti cognitivi che ci impediscono di individuare vie d’uscita percorribili alla situazione attuale, onde avviare forme di decrescita, se non proprio felici, quantomeno efficaci.

Purtroppo non è facile superare un ostacolo cognitivo che ci accompagna da millenni. Ancor più se si considera che tale ‘ostacolo’ è stato capace di garantire il successo economico e sociale di chi più entusiasticamente lo ha abbracciato e propalato. Scommettere sulla possibilità che si trovi la maniera di disinnescarlo prima che la realtà venga a chiederci il conto appare francamente troppo ottimistico.

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Sulla reale efficacia delle regole

In seguito alla recente vicenda dell’investimento ed uccisione di due ragazze per mano di un quasi coetaneo ho sostenuto numerose discussioni. Nella maggior parte di esse, la questione che più pareva interessare i partecipanti al confronto consisteva nello stabilire le responsabilità, nell’attribuire le colpe.

Le ragazze hanno attraversato la strada di notte, al buio, sotto la pioggia. Un autista si è  fermato a farle passare, un altro le ha travolte (questa la ricostruzione più realistica, da quanto ho potuto appurare). Il conducente del veicolo viaggiava in stato di alterazione alcolica, probabilmente a velocità elevata.

Più o meno tutti sono risultati concordi che al di là di tutto, la causa prima della tragedia sia consistita nel mancato rispetto delle regole della circolazione stradale. Questo è incontestabile, e corrisponde ad un primo livello di analisi e comprensione.

Ma, andando a scavare un po’ più a fondo, dobbiamo confrontarci col fatto che l’essere umano, e noi italiani in particolare, tende a non aderire strettamente alle regole che la società gli impone. E questo è un fatto noto e risaputo. Proprio perché noto e risaputo potremmo legittimamente aspettarci che l’impianto normativo (in ciò comprendendo le norme di realizzazione delle infrastrutture, quelle relative al loro utilizzo e quelle legate ai controlli) lo prenda in considerazione.

Andando a ragionare per assurdo, nessuno penserebbe di impedire a delle mucche di uscire da un pascolo semplicemente stabilendo un divieto e mettendo dei cartelli del tipo “si fa divieto alle mucche di uscire dal pascolo”. Le mucche non sanno leggere ed ignorerebbero il divieto. La soluzione sarà semmai di tipo infrastrutturale (nella maggior parte dei casi si utilizza un cancello, in qualche caso ho visto sistemazioni più originali, come le cattle grid in Scozia).

La soluzione al problema degli umani che non vogliono rispettare le regole è sicuramente più complessa, nondimeno l’impianto normativo deve tenerne conto, perché è una realtà. È l’impianto normativo che deve adeguarsi alla natura umana, non il contrario. La natura umana, il contesto culturale, o in altre parole la realtà, sono quello che sono, non quello che l’estensore della norma decide che debbano essere.

Un impianto normativo non può essere considerato valido e funzionale se dà luogo, in maniera sistematica, a centinaia di migliaia di sinistri, con migliaia di morti, ogni anno, per decenni. Un impianto normativo adeguato deve tenere in conto il problema dell’irresponsabilità umana e prevedere adeguati strumenti di contrasto.

Si può lavorare sul piano della consapevolezza e della repressione dei comportamenti devianti (maggiori controlli, ritiro della patente in caso di recidive), si può lavorare sull’adeguamento delle infrastrutture viarie (limitazione delle velocità, ridisegno delle sedi stradali, zone 30), si può lavorare sul piano culturale (campagne informative e promozione di stili di guida virtuosi). Si può e si deve.

Quello che non può essere più tollerata è l’inazione, a fronte di una strage stradale continua e reiterata. Non è tollerabile l’assenza di interventi rispetto all’evidenza eclatante di un piano normativo fortemente disancorato dalla realtà, indifferente rispetto alla natura irrazionale ed autodistruttiva dell’essere umano.

È il nostro l’unico modello normativo possibile? Evidentemente no! Notizia di questi giorni è che sulle strade di Oslo, città di 670.000 abitanti, nel 2019 si è registrato un solo morto. Facendo una proporzione con la popolazione di Roma (2.847.000 abitanti) dovremmo attenderci solo quattro morti in sinistri stradali, mentre la conta al 2018 (i dati 2019 non sono ancora disponibili) è di 143 decessi.

Al netto delle inevitabili differenze culturali (quella cultura che in Norvegia si è riuscita a costruire e qui no), qualunque antropologo potrà rassicurarvi sul fatto che tra i sapiens norvegesi ed i sapiens mediterranei non esistono differenze significative di tipo biologico, né nell’ambito delle reazioni istintive, né tantomeno in termini di attitudini innate al rispetto delle regole.

Guardiamo i fatti per quello che sono: la sinergia negativa tra le cattive abitudini (che fanno parte del nostro retaggio culturale) ed un quadro normativo che bellamente le ignora, causa ogni anno migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti. Per quanto ancora vogliamo raccontarci che questo non sia un problema?

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La città di Oslo, capitale della Norvegia

Analfabetismo logico

Nell’epoca attuale, caratterizzata da un accesso mai così semplice all’informazione, viviamo l’apparente paradosso determinato dalla circolazione diffusa di disinformazione. Scie chimiche, teorie del complotto, negazionismo climatico, si è perfino risvegliata la fantasia terrapiattista, che credevamo di avere archiviato assieme alla caccia alle streghe e ad altri deliri del passato.

Siccome sono abituato a pensare che dietro ogni apparente paradosso si nasconda una realtà non ben compresa, mi sono lambiccato per trovare una spiegazione. Il primo indiziato, per lungo tempo, è stato l’analfabetismo funzionale.

Una volta debellato l’analfabetismo classico, consistente nella totale incapacità di leggere, scrivere e far di calcolo, resta comunque una fetta consistente di analfabeti funzionali, che nel nostro paese raggiunge il 47% della popolazione. Gli analfabeti funzionali sono in grado di leggere singole parole o brevi frasi, ma non sono in grado di seguire un ragionamento complesso, un’analisi, una descrizione dettagliata.

In fondo, però, ci resta sempre il 53% di popolazione dotata di queste capacità. Può essere sufficiente a garantire un efficace funzionamento dei meccanismi democratici? Evidentemente no, anche solo a giudicare da come è stato malgovernato il paese fin qui.

Grattando un po’ di più la superficie, inoltre, ci rendiamo conto di come l’analfabetismo funzionale non spieghi affatto le argomentazioni dei complottisti, degli sciachimisti, dei terrapiattisti, dei negazionisti in generale. Queste sono persone pienamente alfabetizzate, in grado di seguire ragionamenti complessi, finanche contorti al limite dell’assurdo, ed in grado di argomentarli in prima persona.

Qual è, dunque, il gradino mancante, nella scala che va dal totale analfabetismo alla piena capacità di gestire le informazioni che ci raggiungono? Ho deciso di battezzare questa caratteristica, collettivamente ancora non messa a fuoco, con la definizione di ‘analfabetismo logico’.

L’analfabeta logico è in grado di leggere e comprendere testi complessi, ma non dispone della capacità di interpretarne l’affidabilità, la veridicità, la coerenza, mancando dei necessari e corretti strumenti interpretativi.

Ad aggravare il quadro si aggiunge la distorsione cognitiva nota come Effetto Dunning-Kruger, ‘(…) a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi, a torto, esperti (…)’. (Wikipedia)

Non deve essere difficile, per persone funzionalmente alfabetizzate in un paese dove tale caratteristica è condivisa solo da metà della popolazione, convincersi che tanto basti a padroneggiare il Sapere. Purtroppo non è così. Da un lato c’è la dimensione ipertrofica raggiunta dalla conoscenza umana, che ha esplorato campi del sapere a volte talmente distanti tra loro da non possedere né un lessico, né tantomeno strumenti di interpretazione ed analisi, condivisi.

Dall’altro c’è un intenso lavoro di distorsione, disinformazione, strumentalizzazione, operato da gruppi di potere (principalmente economico), teso a garantirsi il mantenimento del potere stesso. Ne è un esempio l’enorme investimento operato dal comparto legato ai combustibili fossili per nascondere, negare e contrastare la consapevolezza collettiva sui cambiamenti climatici. Un investimento non certo indirizzato a convincere gli analfabeti funzionali.

Le conclusioni di questa analisi sono, tanto per cambiare, sconfortanti. Viviamo in un sistema mondiale formalmente democratico, dove tuttavia la maggioranza dei votanti è composta in parte da analfabeti funzionali, incapaci di comprendere un ragionamento complesso, ed in parte da analfabeti logici, incapaci di validare la correttezza di ciò che gli viene raccontato e pronti ad accettare qualunque opinione, purché convincente ed adeguatamente argomentata.

Una democrazia sostanzialmente succube di chi disponga di risorse sufficienti per orientare, stravolgere e deformare la pubblica percezione dei fatti.

Analfabetismo critico

Foto di silviarita da Pixabay

Esercizi di neolingua: incidente stradale

Nell’ambito informatico esiste un detto: “it’s not a bug, it’s a feature” (traducibile all’incirca con: “non è un difetto, è una caratteristica”). È una battuta che si utilizza per irridere programmi mal progettati, come se, per chi ha scritto il software, non esistessero ‘difetti’ ma solo comportamenti voluti. “Non è sbagliato il programma, sei tu che non lo sai usare”, sembra affermare il programmatore incapace, quando è invece vero il contrario.

Questa battuta mi torna spesso in mente quando devo affrontare situazioni in cui le descrizioni non coincidono con l’esperienza reale. Uno di questi casi è senza dubbio riguarda gli eventi che siamo soliti definire come ‘incidenti stradali’. La definizione di ‘incidente’, così come formulata dall’Enciclopedia Treccani, recita:

“Incidente (s.m.): avvenimento inatteso che interrompe il corso regolare di un’azione; per lo più, avvenimento non lieto, disgrazia”

È realmente così? Andiamo a vedere i dati complessivi. Stante che i singoli ‘incidenti’ non sono evidentemente desiderati, quello che possiamo notare, se prendiamo in considerazione non segmenti di strada isolati ma l’intera rete viaria, è che i sinistri si producono con estrema regolarità.

ISTAT

Cosa ci racconta questo grafico? A parte il tratto iniziale, relativo ad un periodo di bassa motorizzazione del paese, a partire dagli anni ’60 il numero di sinistri stradali si mantiene pressoché costante tra un minimo di 150.000 e gli attuali 172.000 (dato non riportato dal grafico), con un’impennata intorno al 2001.

Il numero di feriti segue, proporzionalmente, il numero di incidenti. Questo non deve stupire, dal momento che un’autovettura trasporta anche passeggeri oltre al conducente. Il numero di morti complessivo è invece progressivamente sceso, fatto attribuibile all’adozione di sistemi di sicurezza passiva come cinture di sicurezza, air-bag ed un generale irrobustimento degli abitacoli.

Da queste statistiche possiamo legittimamente attenderci circa 170.000 ‘avvenimenti inattesi’ anche per il 2020, e se questo vi sembra un controsenso è perché lo è, almeno in questi termini. La verità è più sottile, e riguarda proprio il fatto che l’incidentalità stradale “non è un difetto, è una caratteristica”. Il numero di sinistri prodotti è tipico del nostro sistema di mobilità. Un sottoprodotto.

Un Sistema di Mobilità è composto da molti fattori: qualità ed estensione delle infrastrutture viarie, funzionalità delle reti di trasporto pubblico, numero, età ed efficienza dei veicoli circolanti, abitudini di guida (e di vita) degli automobilisti stessi.

Va da sé che ognuno di questi fattori è potenziale materia di intervento: le infrastrutture possono essere modificate per garantire maggior sicurezza, il trasporto collettivo può essere sviluppato e potenziato, il numero di veicoli circolanti può essere ridotto e le abitudini di guida pericolose corrette per mezzo dell’educazione e di strumenti repressivi.

Le statistiche, tuttavia, ci dicono che tutto questo non avviene, o perlomeno non avviene in maniera significativa. Le infrastrutture sono rimaste sostanzialmente identiche per decenni, il numero di veicoli circolanti è aumentato, mentre le abitudini di guida sono addirittura peggiorate.

Alla consueta distrazione, guida in stato di ebrezza ed alla famigerata ‘guida sportiva’, si sono andate ad aggiungere l’utilizzo massivo di smartphone, anche in modalità testuale, e si è ulteriormente diffusa l’abitudine di guidare sotto effetto di stupefacenti.

Le misure di contrasto, per contro, segnano il passo, azzoppate da un quadro normativo inefficace, contorto e non commisurato alla reale disponibilità di personale operativo dispiegato sul territorio.

La ‘macelleria stradale’ appare, da questa breve analisi, come un portato di scelte politiche e tecniche finalizzate ad altro che non la sicurezza e l’incolumità dei viaggiatori. ‘Altro’, rispetto al quale ho già ragionato, finendo col farmi idee ben precise.

‘Altro’, rispetto al quale l’uso diffuso del termine ‘incidente’ serve unicamente a confondere le acque, ottenendo di rafforzare una narrazione finalizzata a scaricare sui singoli individui, siano esse vittime o carnefici, le colpe di un intero sistema. O, se vogliamo, a nascondere le responsabilità delle entità che questo sistema di mobilità l’hanno fortemente voluto e realizzato.