Tutte le mie bici

Ho deciso di raccontare come sono tornato alla bicicletta ‘da adulto’, passando attraverso tutte le bici che mi hanno accompagnato e mi accompagnano ancora. Salterò a piè pari le Grazielle dell’infanzia (una ‘Mirella’, per l’esattezza, marca Leri), che pure hanno modellato per lunghi anni la mia idea di bicicletta, e salterò anche il cancellone da pianura su cui ho ripreso a pedalare nei mesi di leva a Portogruaro, passando direttamente alla prima bici, acquistata all’età di 24 anni.

Romeo

La mia prima bici da adulto era un modello, per così dire, “da corsa” di marca “Romeo“, acquistata da “Cicli Romeo“, un negozio nei pressi della stazione Termini (via Torino) scomparso ormai molti anni fa. Stiamo parlando del 1988, le prime mountain bike erano appena comparse nei negozi, ed apparivano come arnesi goffi e sgraziati, di cui ancora nessuno comprendeva l’utilità. Cercavo una bici che fosse veloce e mi consentisse di arrivare lontano, ed optai per una bici stradale. Ci spesi poco, troppo poco, perché non sapevo ancora che quella passione mi avrebbe accompagnato per il resto della vita.

La Romeo fu la mia unica bicicletta per meno di un anno e mezzo, nel corso del quale percorse la bellezza di quattromila km dentro e fuori Roma. Un’enormità, considerata l’economicità del mezzo, le cui varie parti, pesanti e malfunzionanti, si produssero in una serie pressoché ininterrotta di cedimenti strutturali e conseguenti riparazioni.

Eppure in quell’anno e pochi mesi, la mia idea di bicicletta si trasformò radicalmente. Pur con tutti i suoi limiti quella bici mi aprì gli occhi, e dischiuse davanti a me le prospettive di un modo di viaggiare basato sulla propulsione muscolare, silenzioso, non distruttivo, rispettoso dell’ambiente. Nacqui come ciclista su quelle stesse strade che, vent’anni dopo, il traffico veicolare ha invaso rendendole sgradevoli ed impercorribili.

Oggi ‘Romeo’ è parcheggiata al paesello, con molte parti sostituite, alcune non felicemente (le leve dei freni da mtb non sono risultate adatte alle morse economiche ‘da corsa’, risultando scarsamente efficienti). Occasionalmente, nel corso delle vacanze estive, viene riesumata per un fugace momento di rimembranza della gloria che fu, ma per la maggior parte del tempo subisce l’onta della polvere.

Alla Romeo fece seguito nel 1989 “Pino“, la cui storia, in parte, è stata già narrata. “Pino” trasformò le idee che avevo sulla risposta elastica dei telai, sull’uso del cambio, sulla possibilità di “scalare” le montagne, sull’adattamento del metabolismo alla fatica fisica, sulla possibilità di intraprendere viaggi in bici. Fu la prima vera bici che abbia mai posseduto, e l’ho ancora con me, anche se la prendo molto raramente.

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Pochi anni dopo l’acquisto di “Pino” fu il momento anche per me di “comprendere” le mountain bike. Capitai quasi per caso nel parco della Caffarella mentre era in corso una gara, e vedere gli atleti conquistare con le ruote artigliate terreni che alla mia bici stradale erano preclusi mi fece scattare la molla: “voglio farlo anch’io“. La scelta cadde su una Kastle Tour Extrem in alluminio, che pagai più del doppio di quanto era costata “Pino“. Credo fosse il 1993.

Kastle

Col suo telaio rigido, per l’epoca uno standard anche su bici da competizione, la Kastle estese la mia idea di bicicletta all’ambito agreste e montano, alle strade sterrate, ai boschi. Un salto enorme, un adattamento evolutivo del mezzo che ha consentito alle biciclette di sopravvivere e prosperare nonostante l’infestazione da automobili private le abbia ormai estromesse dal loro habitat originario: le strade.

La Kastle divenne la mia fedele compagna anche per i viaggi all’estero, sostituendo la più leggera “Pino” grazie ad un telaio più solido e più adatto a sopportare carichi. Pochi anni dopo (1995?) venne sostituita da una Bianchi dotata di forcella ammortizzata, con la quale iniziai ad avvicinarmi al mondo delle bici “morbide“.

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La Bianchi era una versione aggiornata della Kastle, e non stravolse la mia idea di bicicletta più di tanto. Certo fu una bella e piacevole scoperta il poter saltare sopra sassi e radici senza subire sollecitazioni ai polsi: più comfort e maggior controllo, la strada era segnata, le biciclette da fuoristrada con forcella rigida destinate all’estinzione.

Ora questa bici è in prestito ‘a tempo indeterminato’ presso un’amica, che la usa per andarci in giro col fidanzato. Non l’ho venduta perché mi resta la necessità di una bici ‘da viaggio’, ma è anche vero che negli ultimi anni, per vari motivi, di viaggi in bici ne ho fatti pochi.

Ben più ‘impattante‘ sulla mia idea di bicicletta fu la Specialized che arrivò nel 1999, e che in seguito battezzai “Velociraptor“. Il carro posteriore ammortizzato ad aria era una vera rivoluzione, che accoppiata con una forcella anteriore dalla corsa più generosa mi regalò un controllo spettacolare anche su terreni e pendenze capaci di mettere in crisi la Bianchi, ed inavvicinabili per la Kastle. Passare in velocità sullo sconnesso basolato romano dell’Appia Antica diventò uno dei miei divertimenti preferiti.

velociraptor

Velociraptor era il prototipo di un tipo di bici che ha ormai raggiunto forme definitive poco diverse dall’originale, e che ha preso il nome di ‘cross country‘, o XC. Dieci anni dopo le sue discendenti hanno guadagnato in leggerezza ma relativamente poco in guidabilità, e non è un caso che anche dopo tutto questo tempo, con qualche ‘rivisitazione‘ ed aggiornamento, rimanga una bici formidabile. Per dieci anni l’ho ritenuta un punto di arrivo, e non ho acquistato più altre biciclette.

Poi, il desiderio di ricercare ed esplorare modalità diverse, forme “altre” di andare in bicicletta, ha nuovamente iniziato ad agitarsi. L’occasione degli incentivi statali del 2009 mi ha portato all’acquisto di una pieghevole Brompton, che forse più di ogni altra ha sconvolto le mie abitudini di ciclista.

Poter trasportare la bicicletta sui mezzi pubblici in qualunque occasione, poterla chiudere e far sparire in ogni anfratto, fece di me un ‘pedone con le ruote’. Ad oggi è una bici che utilizzo occasionalmente, perché sono rare le situazioni in cui ne ho necessità, ma è una bici su cui so di poter contare ciecamente.

Tra il 2007 e il 2010 le rare occasioni di provare le biciclette degli amici di Cicloappuntamenti mi stavano avvicinando all’idea di qualcosa di ancora più “estremo“. Passando come ero solito fare da “MisterBike” mi capitò per le mani una Santacruz usata. La scena fu pressoché identica a quella di dieci anni prima con la Specialized: uscito a provarla in Caffarella ne rimango affascinato e la riporto in negozio già intenzionato ad acquistarla.


Cos’aveva da raccontarmi, di nuovo, questa bici “all mountain“? Cominciamo col descriverne le caratteristiche. In primo luogo la corsa degli ammortizzatori più che doppia di quella del “Velociraptor“, e ruote molto più larghe: una bici più lenta, ma virtualmente in grado di muoversi dappertutto. Lenta e pesante (tra i quindici ed i sedici chili), manubrio largo, l’equivalente ciclistico di un bufalo africano!

Per molti versi Darkness (così l’ho battezzata) ha rappresentato un passo indietro rispetto a “Velociraptor“, ma più che indietro direi di lato. Non tanto una bici per correre, quanto per divertirsi ad affrontare passaggi tecnici molto impegnativi. Ma la vera anima di questa bici non l’ho mai ritenuta una ricerca dell’estremo. Girellando per la Caffarella l’ho sentita molto come una bici “da passeggio“, al limite da “passeggio estremo“.

Per la prima volta non ho vissuto l’obbligo di stare sui sentieri, l’ho fatta muovere sui prati, senza una traccia definita, lentamente. Questa bici si è dimostrata capace di “masticare” qualunque fondo, di muoversi indifferentemente su qualsiasi terreno, lasciando all’occhio del viaggiatore il tempo e la necessaria lentezza per riflettere su ciò che si sta osservando.

Passati altri sette anni, nel 2017, con un parco di bici un tempo ottime ma ormai afflitte da progressivi acciacchi, ho sentito montare la voglia di muovermi su un mezzo nuovo, o quantomeno un mezzo fabbricato nel decennio corrente… (che peraltro si avviava alla conclusione). Un desiderio astratto che ho faticato non poco a mettere a fuoco.

Ho cominciato col ragionare su cosa non volevo più. Non volevo più bici da stare continuamente e regolare, a mettere a punto, coi freni V-brake da tenere perennemente d’occhio. Non volevo più un carro posteriore ammortizzato (invenzione assolutamente geniale per terreni particolarmente impervi) che mese dopo mese cominci a maturare giochi laterali fino a rendere la bici ‘sculettante’ e restituire una sensazione di instabilità. Non volevo più telai consumati dagli anni, saldati e risaldati, che, pedalandoci su, ti fanno dubitare della loro effettiva integrità e inducono una condotta di guida meno disinvolta di quanto vorresti. Non volevo più biciclette affidabili, ma pesanti e lente.

Da ultimo, ho compreso, non volevo una nuova bici ‘specializzata’. Ho avuto negli anni mountain bike ‘da viaggio’, da ‘cross-country’, da ‘freeride’, ognuna perfetta per un solo possibile utilizzo. Tutti belli, tutti interessanti, ma da scegliere in anticipo. Quello che cercavo era una bici ‘per andare in bici’, senza troppe menate, senza troppa manutenzione, senza retropensieri.

È arrivata così “Arancia Meccanica”, la bici tuttofare. Un’altra Santacruz curiosamente senza carro ammortizzato posteriore. Una bici atipica per geometria e postura, con un piede (una ruota) nel freeride estremo e l’altro nel bighellonare spensierato, un telaio molto compatto tale da farsi apprezzare anche da mia moglie e ruote tubeless capaci di abbinare un grip strepitoso ad una inaspettata scorrevolezza.

Sempre nel 2017 si è poi materializzata “Cassonetta”, la bici ‘adottata’. Nel corso di una raccolta pubblica straordinaria di rifiuti ingombranti organizzata da AMA qualcuno ha pensato bene di rottamarla… fortuna ha voluto che passassi da quelle parti. L’ho aperta, provata, ho gonfiato le gomme, ci ho fatto un giro e me la sono portata a casa. Bici economica e un po’ maltrattata, ho poi passato l’intera mattinata a rimetterla in sesto.

Data per spacciata, nel momento in cui avevamo già in casa due Brompton, è finita in prestito a diversi amici. Sul lungo periodo ha però avuto modo di sfoderare una carta vincente: lo scarso valore. È stata perciò adottata da mia moglie per i suoi percorsi casa-ufficio, in ragione del fatto di doverla lasciare legata in cortile, nella rastrelliera condominiale. Ha così trovato modo di dimostrare solidità ed affidabilità per un impiego senza pretese, e soprattutto senza la necessità di continui ‘piegamenti’.

Nel 2018 Velociraptor, dopo quasi un ventennio di onorato servizio, si è schiantata, il carro posteriore definitivamente spaccato e non più riparabile. Non volendo buttare tutto il resto (ruote, forcella, manubrio, trasmissione, ecc) mi sono messo alla ricerca di un telaio ‘vintage’, con attacchi per i freni V-Brake e poche delle ultime innovazioni tecniche, che mi avrebbero costretto a buttare tutto.

Fortunatamente dopo un po’ di ricerche è saltato fuori un telaio marca FRW con le caratteristiche desiderate. Non a caso il telaio risale all’incirca al 2008, ma risultava nuovissimo dal momento che non era mai stato montato. La taglia non esattamente quella che andavo cercando (19″, corrispondente ad una misura L) ma ragionevolmente compatibile con le mie misure.

La vecchia bici, o quel che ne restava, è stata quindi trasferita sul nuovo telaio. Si sono rese necessarie la sostituzione del deragliatore, del movimento centrale, del tubo reggisella e della sella. Si è salvata la trasmissione (gruppo misto XT-XTR), le ruote, la forcella TORA (già sostituita all’originale, leggerissima ma scadente) e l’intero manubrio, anch’esso non originale. Ne è uscita fuori una bici abbastanza simile alla precedente, fatta salva la mancanza dell’ammortizzazione posteriore, che però ha comportato un ulteriore guadagno di peso, sceso a 11,5kg. Un mezzo veloce e scattante, con una risposta alle sollecitazioni dal gusto antico.

Per “Blue Raptor” (questo il nuovo nome) immaginavo un futuro tranquillo, al paese, tirata fuori per una settimana di sgambate nel corso delle vacanze estive, o in qualche occasionale weekend. Ho cambiato idea rapidamente dopo averci pedalato un po’. La bici va alla grande ed ora svolge più che egregiamente la funzione di ‘muletto’ per l’andirivieni quotidiano da casa all’ufficio, che si sviluppa in larga parte dentro parchi urbani, ed anche per occasionali sgambate nei weekend.

E siamo arrivati al 2021. A trentatré anni di distanza dall’acquisto della ‘Romeo’ il mio viaggio a pedali continua.

5 pensieri su “Tutte le mie bici

  1. bellissima storia. bella soprattutto la descrizione del reciproco adattamento tra uomo e bicicletta, tra l’uomo e la propria vita ciclabile, la trasformazione operata dalla bici sulla mente e sulla mentalità…la scoperta continua di nuovi modi di intendere il proprio spazio e la propria mobilità nel mondo…

  2. Ciao Marco, per quanto possa ricordarmi anche la mia prima bici, una da ciclocross con ruote da 20, fu comprata da Romeo Cicli nel negozio vicino il Viminale, ma la ditta esiste ancora e ha da qualche anno aperto uno show room (così lo chiamano loro) in via del Vantaggio 41/a. Per info http://www.cicliromeo.com
    Saluti a te e a Emanuela
    Riccardo

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