Home


Oggi pomeriggio sono riuscito a trovare un’ora e mezza di tempo per vedere un film. Si intitola "Home" ed ha una particolarità: viene distribuito gratuitamente via internet, su Youtube, in alta definizione. Già questo è bastato a farmi saltare sulla sedia quando ne sono venuto a conoscenza. Le cose stanno cambiando in fretta, negli ultimi tempi. Non servono più società di distribuzione, una catena di cinema che lo proietti, dei canali televisivi che lo trasmettano: basta un po’ di "banda" internet ed il film può essere fruito direttamente dal pubblico, a casa, su uno schermo in alta qualità.

Ma la cosa più interessante di "Home" sono, secondo me, i contenuti. "Home" è un lungo documentario sullo sviluppo della vita sul pianeta terra, e sui cambiamenti disastrosi prodotti dall’uomo negli ultimi decenni. Le immagini sono di una bellezza sconvolgente (anche se la compressione software le rende a volte un po’ "plasticose":  ogni tanto si ha la sensazione di star guardando un’animazione digitale…) e raccontano il drammatico cambiamento climatico che sta avvenendo sotto i nostri occhi, nell’indifferenza generale.


Mi ha rimandato con la memoria ad un altro film, per certi versi molto simile, uscito a metà degli anni ’80, il cui titolo era "Koyaanisqatsi – Life out of balance", impronunciabile parola in lingua Hopi, (una popolazione originaria dei deserti dell’Arizona) il cui significato veniva tradotto in diverse maniere:

ko.yaa.nis.qatsi (dall’originale in lingua Hopi)
1. vita folle.
2. vita tumultuosa.
3. vita in disintegrazione.
4. vita squilibrata.
5. condizione che richiede un altro stile di vita.

Il regista Godfrey Reggio tentò un’operazione che oggi può apparire commercialmente suicida: un documentario di sole immagini e commento musicale, lungo un’ora e mezza. E la musica era uno sconvolgente tappeto di tastiere di Philip Glass, passata alla storia. In novanta minuti e cinque "movimenti" le immagini raccontavano la creazione, l’avvento dell’uomo, la civiltà, l’accelerazione assurda della modernità e quindi la catastrofe, facendo un uso sapiente di riprese a tempo rallentato ed accelerato. Ricordo che lo vidi con un amico in un’arena estiva all’aperto, ed a tre quarti circa lui se ne andò adducendo le testuali parole "non ce la faccio a guardarlo, mi sto sentendo male", a cui io risposi qualcosa del tipo "scherzi? È fantastico!"

Oggi "Home" è un prodotto più tradizionale, c’è un commento parlato (nell’originale di Glenn Close) ed il significato è più esplicito, grossomodo: stiamo seriamente danneggiando l’equilibrio della vita sul pianeta, fra un po’ potremmo dover fronteggiare condizioni climatiche che non si sono mai verificate negli ultimi milioni di anni, ovvero da quando i predecessori della nostra specie hanno assunto la postura eretta. Possiamo, anzi, dobbiamo prendere coscienza di questo fatto e cambiare strada, prima che sa troppo tardi.

Nonostante tutto, però, non riesco ad essere ottimista. L’esperienza dell’isola di Pasqua (menzionata a metà del film), ridotta nel volgere di pochi secoli da un paradiso di foreste tropicali ad una distesa desolata e priva di risorse, l’incapacità umana nel comprendere e gestire il risultato finale delle proprie azioni, mi pare ormai troppo evidente. La frase che accompagna le immagini afferma: "il vero mistero dell’isola di Pasqua non è come le sue strane statue sono finite lì, noi ora lo sappiamo, è perché il popolo Rapa-Nui non reagì in tempo". Non è un mistero, in fondo. Noi stiamo facendo esattamente la stessa cosa.

Il documentario ha un finale a mio parere contraddittorio, immaginando un possibile futuro di inesauribile energia solare ed eolica. Ma anche se così sarà, sostituendo il petrolio con altre risorse più pulite e rinnovabili (e io ne dubito), questo non ci impedirà di proseguire con le deforestazioni ed il consumo dissennato di risorse. Perché non possediamo lungimiranza. Buona catastrofe a tutti

Parliamo di ergonomia

(questo breve excursus non ha, ovviamente, la pretesa di esaurire l’argomento, né di dettar legge sulla materia, dal momento che prende spunto unicamente dalla mia esperienza personale, verificata in anni di attività escursionistica e proposta con successo a diversi altri ciclisti. Spero potrà rivelarsi utile anche ad altri ciclisti che leggeranno il post)

Parlare di ergonomia dell’andare in bicicletta non è semplice. Troppi sono i parametri che influenzano il relazionamento tra il corpo del ciclista ed il suo veicolo, troppe sono le variabili anatomiche da dover valutare.

Scegliere una bicicletta adatta alla propria taglia è solo il primo passo di una lunga serie di messe a punto ed ottimizzazioni, che possono risolversi, in caso di morfologie particolarmente atipiche, soltanto facendosi progettare un telaio su misura da un bravo artigiano. Per fortuna nella stragrande maggioranza dei casi si può ben adattare al proprio corpo un telaio commerciale senza sacrificare troppo in termini di comodità di guida e di performance.

In linea di massima le proporzioni che entrano in gioco nella sistemazione di una bicicletta sono principalmente quelle relative alla lunghezza delle gambe, al rapporto tra femore e tibia, al rapporto tra la lunghezza delle gambe, quella del busto e quella delle braccia.

La bicicletta che prenderò in considerazione per l’analisi posturale è una mountain bike XC (non un modello da discesa) di metà degli anni ’90 con telaio da 19″ che per il sottoscritto (1,74m) è prossimo al limite massimo, ma ho ben adattato alle mie esigenze. La geometria del telaio è classica di quel periodo, il tubo orizzontale ha un’inclinazione minima, più che altro dovuta all’innalzamento della serie sterzo conseguente al “trapianto” di una forcella ammortizzata in luogo di quella rigida originariamente presente.

Le considerazioni applicate a questa tipologia di bicicletta sono estensibili a qualunque altra tipologia, dalle bici da corsa a quelle “da viaggio“, dal momento che i due requisiti di base da cui parte l’analisi, efficienza del lavoro muscolare e comodità di guida, sono comuni a qualsiasi ciclista. Una tipologia a cui quest’analisi non è applicabile è quella delle mountain bike “da discesa” (Downhill e Freeride), che nascono ottimizzate per la percorrenza di pendenze estreme e sono drammaticamente svantaggiate in salita. Un’altra è quella delle bici “da passeggio”, senza cambio e prodotte per un’utenza dalle pretese minime in termini di percorrenze e tempi di utilizzo. Una terza, ancora più “atipica“, è quella delle Recumbent, o “bici sdraiate“.

La bicicletta che prenderò in esame è quindi in partenza “adatta” alle mie proporzioni anatomiche, che sono abbastanza nella media, non ha quindi richiesto interventi più drastici delle semplici regolazioni già disponibili per i diversi componenti della bici.

Ne approfitto per ribadire l’importanza, troppo spesso sottovalutata, di disporre già in partenza di un telaio “giusto” per le nostre misure. Adattare una bici troppo grande o troppo piccola produrrà quasi sempre risultati insoddisfacenti.

Questa è, nella mia esperienza, la posizione corretta da assumere in sella.

Tale posizione realizza diverse condizioni, in primo luogo un efficiente scaricamento della spinta articolare sul pedale.

E’ importante che il ginocchio, nella posizione di spinta (corrispondente al punto più avanzato della traiettoria del pedale) sia prossimo alla verticale dell’asse del pedale stesso, e quindi ci vada a gravare direttamente sopra.

Questo si realizza spostando la sella in avanti o indietro (più spesso in avanti) facendola scorrere sui due binari su cui avviene il fissaggio, e si controlla con un filo a piombo, collocato in prossimità dell’articolazione del ginocchio.

Più in generale si deve realizzare una condizione complessiva di scaricamento del peso del ciclista sul pedale.

Se la posizione della sella risulta troppo arretrata la sensazione complessiva sarà di spingere i pedali “in avanti“, anziché salirci sopra “in verticale“. La condizione di massima resa si realizza quando il baricentro del corpo si approssima al punto di applicazione della spinta (il pedale in posizione avanzata). Esistono significative differenze nelle lunghezze dei bracci delle pedaliere (da 170 a 185mm), anche se le differenze finali sono poco percettibili sarà il caso di verificare se la lunghezza montata sulla nostra bici è coerente con la geometria del telaio e con la nostra corporatura.

Ruotando la pedaliera, quando il pedale raggiunge il punto più basso la posizione corretta è la seguente.

In questa posizione la gamba deve risultare distesa (anche se non eccessivamente) ed il piede deve tassativamente poggiare con il suo punto di spinta (la piega del metatarso, quella che appoggia a terra quando ci alziamo “in punta di piedi“) direttamente sull’asse del pedale.

Oltre a far lavorare le articolazioni in maniera più efficiente, la distensione dei muscoli facilita lo smaltimento dell’acido lattico, responsabile della sensazione di fatica. Questa condizione si realizza agendo sull’altezza della sella, regolazione tipica in qualsiasi bicicletta. La posizione ottimale si raggiunge per tentativi, modificando l’altezza di mezzo centimetro alla volta e successivamente provando a pedalare. Al superamento del punto ottimale si percepirà il bacino ondeggiare verticalmente ad ogni pedalata, questo è il sintomo che l’altezza della sella è eccessiva: si tornerà alla posizione precedente e si provvederà a marcare tale posizione (p.e. graffiando una riga sul tubo reggisella con un cacciavite) per ripristinarla con facilità in ogni situazione futura in cui si renda necessario sfilare o abbassare la sella.

Attenzione alle scarpe che utilizzerete durante tale regolazione, devono essere le stesse che poi userete per pedalare: calzature con suole di diverso spessore richiederanno una correzione alla posizione verticale del sellino.

Una volta regolata la sella rispetto ai pedali bisognerà valutare la posizione del busto e delle braccia. La condizione da realizzare è quella della foto seguente.

Per ottenere uno scaricamento ottimale del peso del corpo sui pedali il busto dovrà essere inclinato in avanti di circa 45° rispetto alla verticale, e le braccia si distenderanno quasi perpendicolarmente rispetto ad esso (c.a 85°).

Tale posizione, a differenza delle altre viste fin qui, non è regolabile ma dipende dalla lunghezza orizzontale del telaio. Questo è anche il motivo per cui la regolazione verticale della sella, a differenza di quello che molti pensano, non è sufficiente per adattare una bicicletta al suo utilizzatore: occorre che l’intero telaio sia costruito in proporzione, altrimenti ci si troverà “sdraiati” in avanti, o al contrario troppo “contratti“.

Va anche notato che anatomicamente la distanza tra le spalle ed i polsi è maggiore di quella tra le spalle e le ossa del bacino che poggiano sulla sella (tuberosità ischiatiche). Questo fa sì che la posizione del manubrio debba necessariamente essere più bassa di quella del sellino. La posizione sollevata della testa necessiterà di un adattamento della muscolatura della parte posteriore del collo, che verrà da sé col passare del tempo.

Esistono delle controindicazioni per tale assetto, motivate da patologie della spina dorsale e/o dei dischi intervertebrali. Per esperienza è da sconsigliarsi a chi soffra già di cervicale. In questi casi occorrerà valutare ogni singola situazione, ed individuare un assetto compatibile con la patologia riscontrata.

Per evitare che il sellino eserciti una fastidiosa (e a volte dolorosa) pressione sulla prostata o sui genitali femminili, la punta della sella dovrà essere leggermente inclinata verso il basso, al più orizzontale ma mai verso l’alto.

Se la punta del sellino arriva a produrre un fastidio a livello inguinale, il nostro corpo tenderà a compensarla ruotando indietro il bacino e causando un inarcamento della schiena assolutamente nefasto, che produrrà, oltre ad una posizione scomoda, il rischio di dolori alla colonna vertebrale.

La posizione inclinata in avanti della schiena, oltre a garantire una guidabilità ottimale della bici, preverrà i danneggiamenti da urti verticali in presenza di fondo stradale sconnesso.

Nel caso si verificasse una eccessiva lunghezza della bici, l’unico intervento possibile è la sostituzione dell’attacco manubrio con un modello più corto o (situazione ben più rara) più lungo, al fine di recuperare una posizione il più possibile prossima all’ottimale.

Altezza, avanzamento ed inclinazione verticale della sella vanno regolate di pari passo, ogni correzione dell’una richiederà un adattamento dell’altra, fino ad arrivare alla soluzione ottimale.

La sistemazione descritta ottimizza la bicicletta per il movimento, ma non per la sosta. La sella risulterà perciò troppo alta per poter semplicemente fermarsi e poggiare il piede a terra. Occorrerà abituarsi, da fermi, a scendere ogni volta dal sellino.

La cosa ha un senso se si pensa che in un’uscita in bici si passano ore a pedalare, mentre per fermarsi e ripartire occorrono pochi istanti. Questo però obbligherà ad apprendere due semplici movimenti per partire e fermarsi. Per partire si procederà dalla posizione illustrata nella foto, si porterà uno dei pedali in posizione avanzata (ruotando la pedaliera all’indietro), quindi con un unico movimento si “salirà” sul pedale (la bici si sposterà in avanti) e ci si siederà sul sellino. Per fermarsi si sceglierà di collocare uno dei due piedi nel punto più basso della pedaliera, e frenando il corpo scivolerà in avanti fuori dal sellino mentre l’altro piede si poggerà a terra. Questi due movimenti, per quanto possano risultare inizialmente “ostici“, col passare del tempo finiranno a far parte di quel bagaglio di gestualità istintive che eseguiamo senza nemmeno pensarci su.

Non dobbiamo però pensare che l’utilizzo della bici si limiti ad una sola postura, ci capiterà sicuramente di dover ottimizzare la posizione in sella per far fronte ad esigenze “tecniche” del percorso, ad esempio in caso di discesa converrà poter spostare indietro il peso per aumentare l’efficienza frenante della ruota posteriore ed “alleggerire” quella anteriore, che potrà così più efficacemente superare eventuali ostacoli.

Oppure, nel caso delle salite o di ostacoli come cunette o buche, potrà rendersi necessario sbilanciare il peso in avanti.

Questi due movimenti, tanto semplici quanto spesso necessari, risulteranno molto limitati in presenza di un telaio più grande del necessario, rendendo l’atto del pedalare, oltre che più scomodo e stancante, anche inutilmente difficoltoso.

Da ultimo analizzerò la corretta disposizione dei comandi dei freni e del cambio.

Le leve dei freni dovranno essere abbassate fino a collocarle su una linea definita dal prolungamento degli avambracci. Dalla posizione “di marcia” saranno appena visibili al di sopra della barra del manubrio. Le leve del cambio dovranno muoversi parallelamente a quelle dei freni, questo già avviene per i comandi “integrati” (quelli in cui cambio e freni sono fissati ad un unico supporto), mentre dovrà essere verificato nei casi in cui i due comandi siano forniti separatamente. La posizione descritta ottimizza l’appoggio dei polsi sulle impugnature ed uno scaricamento ottimale delle sollecitazioni. Anche nel caso di frenate prolungate su un fondo sconnesso (si incontrano spesso lunghe discese nel corso delle escursioni, soprattutto in mountain bike) i polsi non soffriranno a causa di una postura errata.

Le leve dei freni di buona fattura dispongono inoltre di una regolazione della corsa per adattarsi a mani di diverse dimensioni. L’adattamento è necessario quasi per chiunque, dal momento che la posizione “standard” con cui le bici vengono fornite è al massimo dell’estensione e va bene, a mio parere, solo per i giocatori di pallacanestro capaci di tenere un pallone da basket con una sola mano.

La condizione ottimale di funzionalità si verifica quando la leva viene azionata con indice e medio, ed il lavoro di trazione operato dalle seconde falangi delle dita. La regolazione della battuta della corsa delle leve farà in modo che le nostre dita si trovino da subito in questa situazione, senza doversi allungare per raggiungere una leva troppo “avanzata“.

L’argomento non si esaurisce qui, ma almeno penso di aver fornito le basi essenziali perché ognuno/a possa valutare con cognizione di causa la propria posizione in sella, ed aver fornito sufficienti indicazioni per poter pervenire ad una sistemazione ottimale.

(P.s.: un grande grazie ad Emanuela per le foto, la revisione del testo e la pazienza nel sopportare la “full immersion” necessaria per portare a termine questo lavoro)

N.b.: l’articolo è stato pubblicato anche sul Forum Cicloappuntamenti.

Il crepuscolo di una civiltà

Molti anni fa mi capitò di vedere un documentario sul Colosseo. C’era lo storico e critico d’arte Federico Zeri che commentava un’iscrizione posta attualmente all’ingresso dell’anfiteatro. L’iscrizione è questa (rintracciata su Wikipedia).

Zeri raccontava di come questa lapide, risalente al V secolo, testimoniasse la decadenza dell’impero romano. Cito a memoria: “l’iscrizione descrive un fatto importante, sicuramente costò molti soldi dell’epoca, e fu realizzata ed inaugurata in pompa magna dalle autorità, eppure le scritte sono storte, i caratteri irregolari, al contrario di come avveniva secoli prima, quando l’impero era al vertice del suo splendore. Questa iscrizione ci racconta di come a Roma, capitale imperiale, nel V secolo non ci fosse più un artigiano in grado di scrivere dritto”.

Si rendevano conto, all’epoca, di questo declino? Presumibilmente no, dato che non è poi tecnicamente complesso il fatto di incidere il marmo. Semplicemente non erano più in grado di rendersene conto, accettavano questo fatto come normale, sebbene tutt’intorno a loro gli archi di trionfo vecchi di secoli raccontassero una realtà ben diversa.

Da quel giorno lontano un dubbio mi attanaglia: saremo in grado, noi contemporanei, di leggere i segnali del declino della nostra civiltà? In realtà il rischio è di registrarne fin troppi, al punto da restare confusi. In primis c’è un declino etico-morale della nostra intera classe politica, un pressappochismo diffuso, un muoversi dove tira il vento, accompagnato da un crollo evidente nello standard culturale richiesto a chi dovrà prendersi cura della cosa pubblica. Un popolo che sceglie di affidarsi a gente incolta, che anzi ha della cultura un sommo e sovrano disprezzo, sceglie di mettere il proprio futuro in cattive mani.

Ma i segnali, come dicevo, sono innumerevoli, e disegnano un quadro disperante. La vivibilità nei centri urbani è in costante degrado proprio a causa delle scelte operate da chi ci vive, mentre i pubblici amministratori sono più preoccupati di conservare le proprie ben remunerate poltrone (e carriere) che di operare scelte coraggiose per produrre un corretto funzionamento delle città.

Proprio ieri sono andato a dare un’occhiata al parco di Centocelle, inaugurato in pompa magna meno di tre anni fa ed ora in stato di totale abbandono. Quest’area era nata con molti errori che ne impedivano di fatto la fruizione ai cittadini, come segnalavo all’epoca sul Blog Romapedala in un post che invito ad andare a rileggere.

Invece di correggere quegli errori il parco, a fronte di una scarsa fruizione, è stato chiuso alla cittadinanza… ma non ai nomadi del campo Casilino900, adiacente a viale Palmiro Togliatti, che trovandosi a dovercisi spostare attraverso a piedi o in bicicletta hanno provveduto ad aprire degli opportuni varchi nelle recinzioni, dai quali chiunque può entrare a far danni. Lo stato in cui versano le strutture fresche di inaugurazione è desolante: panchine divelte, alberi abbattuti, sporcizia, polvere e degrado.

Centocelle1Centocelle2Centocelle3Centocelle4

Nemmeno mi sento di fare una colpa ai Rom se occupano spazi che la popolazione dei quartieri limitrofi ha abbandonato a sé stessi. Che farsene di un parco pubblico quando si può stare comodamente seduti nel salotto di casa a farsi prosciugare il cervello dalla televisione? Segni di declino, portati di un’opulenza marcescente e destinata presto o tardi a finire.

Cosa potremmo paragonare alla lapide del console romano Decius Marius Venantius Basilius che orna l’ingresso del Colosseo? Qualcosa che dev’essere costato una cifra importante e ciononostante simboleggiare il declino di una cultura? La scorsa settimana l’intera città di Roma è stata tappezzata da questi cartelloni pubblicitari.

acqua

Che dire? Il “qualcosa in più” sono forse gli errori ortografici? Davvero nessuno se ne è accorto di quella “i” in tutto l’iter di ideazione progettazione grafica e stampa? Oppure ipotizziamo che sia stata una scelta volontaria, una trovata che qualche pubblicitario ha magari ritenuto “geniale”, il risultato è che per la maggior parte delle persone che hanno letto il cartellone ora “effervesciente” si scrive così, sbagliato. Complimenti al creativo. Almeno questi manifesti non dureranno venti secoli… ed in ogni caso la nostra pretesa “civiltà” durerà molto meno, sono disposto a scommetterci.

Tardivi momenti di consapevolezza

Istantanee

Alla fine, il laboratorio settimanale che mi ha tenuto impegnato negli scorsi mesi presso il teatro “Piccolo Re di Roma” ha partorito l’atteso saggio: “Istantanee”. Siamo andati in scena con tre “corti” scritti da noi, come prevedeva il lavoro sulla drammaturgia propostoci all’inizio dell’anno da Giampiero Rappa, tre lavori molto diversi l’uno dall’altro.Nel primo, “Fuori fuoco”, io e Laura abbiamo messo in scena una coppia di amici alle prese con la crisi del matrimonio di lei e con una “resistibile” attrazione reciproca, che non sfocerà in un lieto fine.

Nel secondo, “Zuppa zen”, Sara, Cinzia e Rinalda hanno raccontato un frammento della vita di tre donne, una famiglia tutta al femminile, con due figlie in crisi coi rispettivi uomini e la madre, vedova da lungo tempo, che improvvisamente ritrova l’amore.

L’opera finale, “Soray”, immaginata da Ilaria ed Annalisa, ha affrontato il delicato tema della follia e del doppio, con un uso molto più libero dello spazio e delle forme narrative, abbinando dialoghi e monologhi ad una gestualità fortemente simbolica, condita con momenti di danza.

È stato, a suo modo, un corso atipico rispetto ai precedenti. Il fatto di dividerci per sviluppare temi diversi ha dapprima frammentato il gruppo, ma col passare delle settimane la consapevolezza di stare lavorando ad un unico spettacolo ed il continuo feedback reciproco operato durante le prove ha finito col ricompattarci. Il pubblico ha apprezzato il risultato finale, gratificandoci con applausi e ringraziamenti non di circostanza. Tutto perfetto, quasi “da copione”, se non fosse per un retrogusto amarognolo molto più intenso che negli anni passati, dovuto a diversi fattori.

In primis la sensazione di un ennesimo “capitolo chiuso”, un’altra esperienza dietro le spalle cui non farà seguito nulla se non, forse, un nuovo laboratorio l’anno successivo che si aprirà e richiuderà su se stesso esattamente come i precedenti. D’altronde, che prospettive di crescita può avere un attore dilettante quando non c’è lavoro, o meglio non c’è pubblico, nemmeno per i professionisti? Il teatro è un’esperienza di cui questa società è ormai convinta di poter fare a meno, avendolo sostituito con cinema e dosi ipermassicce di televisione, e i risultati (ahinoi) sono sotto gli occhi di tutti.

Altra constatazione amara è legata a quella che potrei definire “la solitudine dell’artista”. In tre serate, ed escludendo Emanuela, gli amici venuti espressamente a vedere il mio spettacolo sono stati solo quattro: Elena, Gianni, Fabrizio e Viviana che qui ringrazio formalmente. Altri non hanno potuto causa influenza, altri ancora per problemi familiari, ma la maggior parte, che si potrebbe stimare in diverse decine di persone, parecchie decine per la verità, è completamente mancata all’appello, scomparsa.

C’è un fatto, che probabilmente non è tanto chiaro a chi ha col teatro una frequentazione occasionale: uno spettacolo non è fatto solo dagli attori, non vive indipendentemente dal pubblico. La comunicazione che si sviluppa non è unidirezionale come quella del cinema o della televisione ma viaggia avanti e indietro. Lo spettacolo cambia a seconda di come il pubblico reagisce, perfino di come respira. Ho recitato per un pubblico estraneo, a posteriori me ne rendo conto. Un po’ come dev’essere per gli attori professionisti… sensazione strana e non particolarmente piacevole.

C’è, inutile dirlo, una volontà comunicativa frustrata. Mettere in scena una “pièce” è come raccontare una storia, un pezzo di sé, ma con un investimento enormemente maggiore in termini di impegno, energie, organizzazione scenica. Serve un teatro con un palcoscenico, dei costumi, degli oggetti di scena, un tecnico che cambi le luci ed inserisca la musica, un regista… insomma una costruzione che dura settimane per uno spettacolo normale, e addirittura mesi per dei dilettanti come noi. Alla fine di tutto questo percorso chi c’era ad ascoltare la mia “storia”, a viverla? Estranei. Chi ci sarà a discuterne con me? Quasi nessuno/a.

Sia ben chiaro, non voglio “buttare la croce addosso” a chicchessia: penso che di questa situazione la responsabilità sia in gran parte del sottoscritto. Mia la scelta, nel corso degli anni, di diluire le frequentazioni estendendole a gruppi di discussione on line, alle mailing list, ai forum, a decine se non centinaia di “presenze virtuali”… che alla fine virtuali restano. Mia la pretesa che contatti quotidiani via Facebook, o i Blog, o Cicloappuntamenti, potessero efficacemente sostituire una presenza concreta, un contatto interpersonale vero. Sbagliavo.

Mi è tornato in mente un film visto diversi anni fa, “Hello Denise“, nel quale veniva rappresentata la vita quotidiana di un gruppo di amici sparpagliati in una grande città, New York, il loro incessante dialogare via telefono ad ogni ora del giorno e della notte ed il continuo rincorrersi e ripetersi reciproco: “dobbiamo vederci, dobbiamo vederci”. Quando poi, alla fine del film, uno di loro organizza finalmente la cena per incontrarsi, gli altri non ci vanno: uno dopo l’altro arrivano fin sulla soglia della sua abitazione e non trovano il coraggio, o la motivazione, per suonare il campanello ed entrare.

A torto o a ragione mi sento esattamente così. La tentazione, in questa fase, è di azzerare tutto, ma non è così semplice… come pure non può esserlo continuare sulla stessa strada di sempre. Sarà l’ennesimo “momento di riflessione”. Non preoccupatevi troppo se per un po’ la mia “presenza virtuale” diventerà più evanescente, o se lo diventerà in via definitiva. Non è una minaccia, al più è una speranza.

Il carnevale interplanetario delle biciclette

Da cinque anni a questa parte c’è almeno una cosa in cui siamo primi in Europa, ed è la grande Critical Mass di fine maggio. Non preoccupatevi se non ne sapete nulla: viviamo in un paese strano, dove manifestazioni politiche di quattro gatti assurgono alle cronache dei TG di prima serata e su feste popolari ed “autogestite” come la Ciemmona, che coinvolgono letteralmente migliaia di ciclisti invadendo festosamente le strade della capitale, cala una cappa di omertoso silenzio.

La “Ciemmona”, nata dall’esperienza di Critical Mass (C.M. …che si pronuncia “ciemme”) nel 2004 col nome di “Roma Pedala” come esperimento estemporaneo, è negli anni diventata uno degli appuntamenti più attesi dei ciclisti della capitale e dei “ciclisti critici” del resto d’Italia e d’Europa, al punto da finire segnalata sulla guida Lonely Planet di Roma.

Si registrano ogni anno decine di presenze soprattutto da Spagna e Francia. Da quest’anno un’iniziativa simile, denominata “La Criticona”, si svolge a Madrid all’inizio di maggio.

In cosa consiste la Ciemmona? Niente di più e niente di meno che una Critical Mass, beninteso tenendo conto del fatto che i partecipanti si contano in termini di migliaia. Ci si dà appuntamento in una piazza cittadina, si parte e ci si muove “senza piani prestabiliti” per la città. In realtà un gruppone così grande pone dei limiti alla scelta del percorso, ragion per cui ci si muove di preferenza su strade ampie, evitando di creare colli di bottiglia che immobilizzino troppo a lungo la coda della massa.

Questo per quanto concerne il fatto tecnico in sé, ma la cosa che mi interessa è raccontare cosa si prova a “starci dentro”. La Ciemmona è un’esperienza unica perché è prima di tutto una festa, un grande carnevale delle biciclette in cui ognuno/a dei partecipanti racconta ed in qualche modo “mette in scena” una briciola della propria follia. Che pure già è folle, nel comune sentire ed a un primo rudimentale approccio, l’idea di usare la bicicletta per spostarsi nelle città italiane in generale, ed a Roma in particolare.

Follia e ribellione che prende la forma di bici impossibili, a due o tre piani, allungate, dilatate, colorate, di macchine a pedali che delle biciclette sono solo lontane cugine, di ibridi e chimere dalle forme improbabili. Oppure di vere e proprie maschere, clownesche ed irriverenti, di suoni ritmici prodotti sul momento, o musica “ciclotrasportata” con appositi sound-system, di fiori e colori. Una festa per gli occhi, e per le orecchie, la realizzazione estemporanea di un’utopia ciclabile in netta contrapposizione al grigiore inquinante, pseudo-efficientista e letale dei veicoli a combustibili fossili.

Quest’anno anche tanti bambini, ai quali la città è di fatto quotidianamente vietata per tacito accordo egoistico degli adulti. Bambini perennemente sequestrati dentro edifici ed autoveicoli che nella massa recuperano e sperimentano, forse per la prima volta, una libertà di movimento e di esperienza di vita che gli spetterebbe di diritto. Ed osservano la situazione con occhi increduli, fanno domande, che poi sono le stesse domande che si pongono gli adulti una volta strappati alla forma-mentis ed all’abitudinarietà in cui l’organizzazione sociale li costringe.

Per chi l’ha vissuta nei primi anni le edizioni attuali appaiono ormai ripetitive, e non potrebbe essere altrimenti. L’emozione straordinaria che provai nel lontano 2005 ad invadere la “sopraelevata”, territorio “sacro” fin lì appannaggio esclusivo del feticcio automobile e vietato da sempre alle biciclette, penso non la proverò più. Adesso ci si torna ogni anno, ma ormai il “gesto primigenio” è compiuto, resta emozionante solo per chi non lo ha ancora sperimentato.

Ed è forse questo, più di altri, il motivo che mi spinge a restare affezionato alla Ciemmona, nonostante buona parte della sua carica sovversiva sia andata persa: la possibilità di farla vivere a chi non c’è mai stato, regalare un’esperienza agli altri.

Quest’anno, oltre agli studenti ed al “popolo dei centri sociali”, c’erano anche tante famiglie, con bambini. Manu, prima di me, pensando al nostro nipotino Davide, si domandava: “come guarderà il mondo dopo aver partecipato ad una Critical Mass a soli sei anni?”.

Insomma la Ciemmona è una sorta di “macchina dell’immaginario” capace, anche solo per poche ore, di rappresentare l’esperienza di un mondo diverso. Un mondo in cui i bambini possono pedalare sulle strade, vivere la città. Un mondo dove è possibile respirare aria pulita, non viziata da migliaia di tubi di scappamento. Inutile interrogarsi se serva a qualcosa: è solo un sogno. Ma i sogni, a volte, cambiano il mondo.