Ieri, mentre i romani si auto-inscatolavano in massa per spendere volontariamente diverse ore del proprio tempo ad intasare ed impuzzolentire la città, ho percorso oltre cinquanta chilometri in bicicletta per muovermi da un posto all’altro, da un impegno all’altro.
Il tutto è iniziato la mattina, quando partendo dal Quadraro ho attraversato il Parco di Centocelle (grazie ad un ingresso che fino a pochi mesi fa non esisteva) spaventando un povero fagiano maschio che pensava di starsene bello tranquillo fra la vegetazione.
Sono arrivato a Piazza delle Camene in tempo per partecipare al Bike To School della scuola Cecconi e scortare una banda di bambini in bicicletta attraverso le vie del quartiere, poi ho proseguito fino all’ufficio, poco oltre Tor Cervara, dove mi aspettava una giornata lavorativa particolarmente breve.
Alle 11.30 circa mi sono mosso nuovamente percorrendo la via Tiburtina (un delirio di macchine incastrate stile Tetris) fino a Villa Torlonia, dove mi aspettava una riunione col gruppo di VeloLove per discutere degli sviluppi del progetto GRAB ed altro ancora.
Non soddisfatto, al termine dell’incontro ho fatto rotta verso la sede del Municipio Roma XI a Laurentino 38 per assistere ad un dibattito sul piano della ciclabilità regionale (e constatare, strada facendo, come i pochi soldi spesi per le sistemazioni ciclabili di Colombo e Laurentina abbiano prodotto risultati assolutamente poco efficaci e fruibili).
Ho lasciato il meeting prima della sua conclusione, un po’ per stanchezza, un po’ perché molte delle cose raccontate in quella sede le conoscevo già. Dopo una breve sequenza di stradoni trafficati ho scelto di passare “pe’ fratte” attraversando sentieri poco noti del parco dell’Appia Antica in beata solitudine ed occasionalmente incrociando ed attraversando arterie stradali con traffico completamente bloccato.
Nel farlo ripensavo ad un film di fantascienza sudafricano, “District 9”, il cui tema di fondo è il razzismo dell’umanità nei confronti di una popolazione di profughi extraterrestri sbarcati da un’astronave in avaria ed incapaci di tornare al proprio mondo (il tutto a seguito di una battuta di Roberto P., col quale avevo percorso un tratto di strada sulla Laurentina, che parlando degli automobilisti aveva formulato la frase: “si stanno abituando a noi”).
Si stanno abituando, ma non per questo ci riconoscono il loro stesso status, i loro stessi diritti. Fanno uno sforzo in più per non investirci rispetto a qualche anno fa, ma non intendono concederci un solo metro delle loro preziose strade, dove periodicamente compiono il rituale di ammassarsi in branco, passare il tempo negli ingorghi, infrangere le regole che da sé si sono dati (limiti di velocità, precedenze, sosta d’intralcio su marciapiedi e sedi viarie…), molestando, infastidendo, appestando e mettendo a rischio il resto della popolazione.
E, sì, rispetto a questi comportamenti mi sento un po’ un marziano, mentre con gli arti inferiori spingo sui pedali un veicolo a propulsione metabolica, passando in mezzo a frammenti di campagna dimenticati, miracolosamente sfuggiti all’idolatria del cemento armato, domandandomi se e quando il “mio popolo” avrà il meritato riscatto.