Sulla strada

(Il brano che segue è stato scritto molti anni fa, e successivamente pubblicato in diversi siti e blog della rete. Lo ripropongo qui con minimi aggiustamenti…)

Qualche tempo fa, con alcuni amici ed amiche, mi trovavo a pedalare sul confine tra l’Umbria e le Marche. La strada correva sulla cresta di una dorsale collinare, ed il panorama si apriva ora a nord ora a sud, a volte su tutti e due i versanti contemporaneamente rivelando, complice la bella giornata primaverile, da un lato il morbido digradare delle colline in direzione del lago Trasimeno, dall’altro lo scabro paesaggio della Serra di Burano, alle cui spalle, in distanza, incombevano i massicci del monte Nerone e del monte Catria. La strada era così bella, e la giornata talmente perfetta, che ci siamo ripromessi di inserire fra le iniziative dell’anno seguente un’escursione che effettuasse quel percorso.

Subito è sorta una discussione sul nome da dare alla gita e, dal momento che non era presente sul tracciato alcuna località degna di nota, qualcuno si è domandato come si chiamasse la strada; gli è stato risposto, leggendo sulla cartina: “S.P. 628”. Sembrava una battuta: “Weekend in bicicletta sulla strada provinciale n°628”; il commento unanime è stato: “…improponibile, non ci verrebbe nessuno”.

Siamo ripartiti. La strada era sempre bellissima, mentre scendevamo verso Gubbio fra morbidi tornanti immersi nel verde, e io mi chiedevo perché non ci fosse modo di convincere i nostri amici a venire a vedere un luogo così bello, e non mi davo pace. Perché, mi domandavo, la gente si muove per andare a visitare un paese, una città, e non una strada? Alla fine del rimuginare ho compreso la natura del problema, in realtà molto più profonda e complessa di quanto non appaia a prima vista.

La conclusione a cui sono approdato è che le strade sono ormai diventate dei “non luoghi”, la gente le percorre in automobile a velocità tali da renderle nulla più che un fastidioso intermezzo tra la località di partenza e quella di arrivo, una specie di “tassa” da pagare per “arrivare” da qualche parte. Questo è già un primo distinguo importante: l’automobile è un veicolo che serve per “arrivare”, a differenza della bicicletta, un veicolo che serve per “viaggiare”, si tratta di due condizioni notevolmente diverse.

Analizzando più a fondo, a differenza dell’andare in bici lo spostamento in automobile è composto di due fasi nettamente distinte: la prima in cui il veicolo è fermo e il passeggero/autista si trova all’esterno, nella condizione di muoversi liberamente, di camminare, di guardarsi intorno a trecentosessanta gradi, di percepire i suoni e gli odori, in poche parole: libero; la seconda in cui il veicolo è in movimento e lo stesso passeggero/autista si trova rinchiuso (pressoché immobilizzato) all’interno dell’abitacolo, col rumore del motore o dell’autoradio nelle orecchie e, sempre più spesso, l’aria condizionata che ricicla gli odori di plastica e deodoranti artificiali. A tutto ciò, nel caso del guidatore, vanno aggiunti lo stress e la fatica indotti dal condurre il veicolo (checché ne dica la pubblicità, che mostra sempre persone felici e sorridenti). Ridefinire nell’immaginario collettivo, e far percepire come “piacevole”, la condizione di passeggero/autista rappresenta, attualmente, uno dei più grossi sforzi portati avanti dall’industria automobilistica.

Ovviamente, per salvaguardare l’immagine del prodotto e sfruttando l’inconscio desiderio, da parte dell’acquirente dell’automobile, di avere conferma della bontà dell’acquisto fatto, tutti i disagi sofferti vengono da sempre addebitati alla strada.

Strada che diventa “brutta” perché “piena di curve” e il fatto di percorrerla a velocità sostenuta provoca nausea e vertigini (laddove le vie montane più belle e panoramiche sono quasi sempre ricavate su percorsi tortuosi, a causa dell’irregolarità dei fianchi delle pareti).

Strada che diventa “pericolosa” perché stretta, dal momento che l’automobilista è abituato, e spesso incoraggiato, a correre (basti pensare allo spazio riservato dai media alle gare di Formula 1, competizioni che ancora in molti considerano uno sport).

Strada che rimane, sempre e comunque, uno spazio “morto”, impossibile da apprezzare e fruire in alcun modo proprio a causa delle limitazioni intrinseche dell’oggetto automobile, spazio da percorrersi alla massima velocità possibile per riguadagnare al più presto, una volta giunti a destinazione, la propria libertà di movimento.

Strada che, nell’unica prospettiva di diventare funzionale ad una forma di spostamento che deve essere sempre e solo veloce, frettolosa, distratta (dal momento che è indispensabile essere concentrati sulla guida se si vogliono evitare incidenti), finisce col diventare sempre più spesso un oggetto mostruoso.

Ed ecco, quindi, sterminate ed orribili lingue d’asfalto perfettamente rettilinee e perfettamente noiose, delimitate da guard-rails metallici che nascondono i panorami ed evocano le sbarre di una gabbia, sulle quali sfrecciare a non meno di 100 km l’ora. Ed ecco il territorio ridursi ad una serie di “microluoghi”, borghi, paesi, frazioni, uniti da direttrici più o meno “comode” da percorrere, più o meno “funzionali” a quello che l’industria dell’automobile vuole convincerci a fare, ovvero rinunciare all’uso delle gambe (ed, eventualmente, anche del cervello).

Ma io, pensavo, sono un ciclista (o, meglio, un cicloturista) a me servono fondamentalmente due cose: una è la bicicletta, l’altra è la strada.

La strada, però, come spazio ricavato “nel” territorio, come elemento qualificante del territorio stesso, come percorso di conoscenza ed apprendimento di quanto il territorio contiene ed offre. Uno spazio da percorrere metro dopo metro, per avere realmente la possibilità di entrarvi a contatto; uno spazio da conoscere, da ascoltare, da annusare, in qualche modo anche da toccare; uno spazio che mi sfida, con le sue salite e le asperità del terreno, che mi seduce con le sue discese, nel quale muovermi o fermarmi, in qualunque momento, per meglio apprezzare uno scorcio o un nuovo panorama. Uno spazio mai ostile, perché mai ostile è il mio modo di approcciare ad esso. Uno spazio per essere vivo, felice, consapevole.

Tanto può essere “diversa” la stessa strada, per un ciclista ed un automobilista che la percorrano, quanto diverso è il modo che hanno di utilizzarla, ovvero quanto diverse sono le possibilità che il mezzo che conducono consente loro di fruire. Il rischio, che in molti casi si è già tramutato in realtà, è che il numero soverchiante di automobilisti finisca col trasformare il tessuto stradale, l’intera rete viaria, ad immagine propria e del veicolo da essi prescelto.

Per questo, prima che interventi dissennati in nome di una maggior tutela e sicurezza degli automobilisti producano la trasformazione delle nostre belle strade di campagna in corridoi recintati per bolidi a motore, sarebbe auspicabile la crescita di una maggior consapevolezza da parte dei pubblici amministratori, che faccia della tutela delle strade secondarie, sotto il profilo estetico e paesaggistico, un bene da salvaguardare.

Che poi, col tempo, ci auguriamo si finirà pure col comprendere e riscoprire.

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