Domenica pomeriggio, grazie ad una serie di coincidenze, ho potuto dedicare un paio d’ore ad insegnare alla mia nipotina Lucrezia, che a breve compirà sei anni, ad andare in bicicletta senza le rotelle stabilizzatrici. Erano mesi che se ne parlava ma poi, fra una cosa e l’altra, avevamo sempre dovuto rimandare.
Secondo me sei anni sono già tanti (ho visto bambini molto più piccoli muoversi sicuri anche senza le ruotine laterali) ma in questo caso ha un po’ pesato la preoccupazione di mia sorella che si facesse male. “In discesa, anziché frenare, pedala!“, mi spiegava, e così ha preferito dilazionare l’evento, almeno fino a pochi giorni fa.
Ingaggiato in veste di “consulente speciale” ho sancito che occorreva uno spazio “largo e leggermente in discesa“, ed abbiamo optato per il vicino parcheggio di un supermercato (chiuso, ovviamente, essendo domenica pomeriggio). Luogo decisamente triste, ma con le caratteristiche “geometriche” necessarie.
Abbiamo iniziato da subito sulla biciclettina nuova, ed il mio ruolo è consistito nel dare suggerimenti “teorici” su come partire e sull’uso dei freni, ed un contributo “pratico” reggendo la bici per il portapacchi, in modo da compensare le perdite d’equilibrio temporanee di mia nipote. I primi tentativi non sono stati immediatamente entusiasmanti, soprattutto per il carico di timori ed aspettative della stessa protagonista, ma poi, nel giro di pochi minuti, mi sono reso conto che il più era fatto.
Nel frattempo il fratellino Emanuele, tre anni ancora da compiere, impazzava in sella ad una “moto elettrica” regalatagli dal padre, sotto gli occhi di mia sorella che “supervisionava” la prole ed il mio “metodo didattico“.
Completata la “fase uno” ci siamo trasferiti nel vicino parco della Caffarella, per dare più spazio e continuità all’esercizio (il parcheggio era in effetti troppo piccolo, e costringeva dopo pochi metri a sterzare, facendo perdere nuovamente il controllo della bici così faticosamente raggiunto). Mi è parso evidente fin dalle prime pedalate che il ghiaccio era ormai rotto, ed una volta partita Lucrezia se la cavava già egregiamente, tanto che potevo lasciarla andare anche per diversi metri senza tenere più la bici, ma solo standole accanto.
Il problema, a questo punto, è stato più vincere una sua insicurezza psicologica che risolvere una carenza di equilibrio e controllo del mezzo. La soluzione è stata metterla di fronte al fatto compiuto. Ad un certo punto mia nipote ha ripetuto per l’ennesima volta “Zio, reggimi, stammi vicino!“, io le ho detto “Sì, sì, non ti preoccupare” e mi sono fermato.
Lucrezia ha percorso con la sua biciclettina traballante dieci, venti, cinquanta metri. Poi ha frenato e si è girata a cercarmi, non trovandomi. Io, da dove mi ero fermato, in lontananza, l’ho salutata. A quel punto ha dovuto accettare il fatto che ce l’aveva fatta da sola, ma restavano altre riluttanze da vincere: insisteva che l’aiutassi nella partenza.
Per due o tre volte siamo andati avanti così, con io che la “lanciavo” e lei che viaggiava autonomamente per qualche decina di metri, allontanandosi da sola e fermandosi per vedere quanta strada aveva fatto. È stato più o meno a questo punto che mia sorella, con gli occhi luccicanti, me l’ha indicata dicendo più o meno: “Guarda che roba! Ti sembra strano se mi commuovo?”
E, beh, no, strano no. Ma questo mi ha un po’ fatto riflettere. Magari sono io poco emotivo, o do troppe cose per scontate, o forse ero solo concentrato sull’obiettivo di riuscire a rendere Lucrezia “ciclisticamente autonoma“, ma è stato a quel punto che ho realizzato che qualcosa era davvero successo, un passaggio, un cambiamento, un’altra cosa da cui non si poteva più tornare indietro.
E, un po’, su scala microscopica, quello che in quel momento stava accadendo era una metafora di tutta la nostra vita, legata a filo doppio allo scorrere del tempo, proiettata in avanti per necessità. Una scala da salire un gradino alla volta, che svanisce dietro le nostre spalle rendendo impossibile ripercorrerla all’indietro.
Finché non è rimasto da recidere l’ultimo esile filo. “Zio, aiutami a partire“. “Secondo me ce la puoi fare da sola“. “No, mi devi aiutare!“. “Facciamo così, tu provi a partire da sola, e se non ce la fai ti aiuto io“. “Va bene“. E, quasi inutile dirlo, è partita, senza aiuto da parte mia.
Mentre già andava le ho gridato: “Hai visto? Hai fatto tutto da sola. Ora non hai più bisogno di me.” Lo dicevo sapendo che non era del tutto vero, ma che era necessario farglielo credere. E quindi si è allontanata, con la sua bici nuova, con la sua vita nuova.
Io e mia sorella siamo rimasti lì, ad aspettare che completasse il giro e ritornasse da noi. Rendendoci conto che ci sarebbero stati in futuro altri giri, sempre più ampi, finché un bel giorno, ormai adulta, avrebbe finito col lasciare il nido per crearsene uno suo, e non avrebbe più fatto ritorno.
Poi ha cominciato a farsi buio, e siamo dovuti rientrare a casa, obbligando Lucrezia a rinunciare al suo “gioco nuovo” ma con la promessa di portarla, la domenica successiva, a fare “il giro di tutto il parco“. Un altro gradino salito, un altro passaggio compiuto, forse più vistoso di tanti altri che pure accadono ogni giorno. I tanti piccoli miracoli quotidiani che, in mancanza di definizioni migliori, chiamiamo “vita“.